Si è conclusa la stagione 2019 delle rappresentazioni tragiche a Siracusa, nell’antico teatro greco. Quest’anno sono state messe in scena due opere di Euripide: “Le Troiane” e “Elena”. Euripide -criticato da Aristotele per le libertà narrative prese e per la supposta incoerenza dei suoi personaggi- è stato accusato da Nietzsche di tradimento nei confronti della tragedia perché l’avrebbe portata fuori dal contesto dionisiaco (Eschilo)/ apollineo (Sofocle) in cui doveva restare. In realtà, Euripide, destabilizzando i canoni della tradizione, ha portato all’estremo il conflitto non dichiarato, e rimasto irrisolto, tra lo stato democratico/imperialista ateniese e la poesia.
Con “Le Troiane”, opera rappresentata il 415 a.C, egli porta sulla scena una critica severa nei confronti della politica egemonica di Atene, davanti a suoi cittadini contenti di sé e già imbarcati nell’insensata spedizione contro Siracusa. Denuncia il disastro umanitario che la politica espansiva della loro città sta continuando a provocare. L’assassinio del figlio di Ettore, fine dell’illusione di un possibile riscatto, svela il significato della logica guerrafondaia in ogni momento storico e luogo: il presente che uccide, insieme al passato, il futuro.
Nel marasma (dei vincitori greci e dei vinti troiani) le donne resistono. Al centro della dolcezza del vivere e dell’amarezza della distruzione, sono sempre loro a mantenere la continuità del senso della vita, a proteggerlo dall’insensatezza. Sia quando sono ancora desideranti, erotiche (Andromaca, Elena) sia quando sono scavare e irrigidite dal dolore (Ecuba). Anche quando confliggono -seguono paradigmi femminili differenti, perfino opposti- restano unite. In ogni donna coesistono la fedeltà al legame amoroso (Andromaca) e la libertà di disporre del proprio corpo (Elena). Cosa sarebbero le donne senza la libertà di sedurre ed essere sedotte e la fedeltà a se stesse, nell’essere fedeli all’oggetto amato?
Tre anni dopo “Le Troiane”, quando la rovina finale si è abbattuta sugli ateniesi in Sicilia, Euripide ha fatto di Elena il personaggio centrale di una sua tragedia, cambiando radicalmente la prospettiva sulla sua figura tracciata dalla leggenda. Elena non aveva tradito il marito. Al suo posto nel letto di Paride c’era stato un fantasma, un idolo fatto di etere, e lei era stata trasferita dagli dei in Egitto. La guerra dei Greci contro i Troiani, con la distruzione finale di Troia e la morte di tantissimi uomini, era stata generata da un’illusione ottica.
La storia si chiude con un insolito happy end. Menelao e Elena vanno dalla cattiva sorte alla buona e non viceversa. Tuttavia l’opera, che ha ispirato la commedia attica, conserva tutta la sua potenza tragica. Riprende il discorso di “Le Troiane” e mostra come la visuale strumentale con cui i maschi fanno della donna, da loro temuta, un oggetto potentemente erotico che mai veramente posseduto non li possiede, produce solo immagini ingannatrici nel nome delle quali essi si uccidono (come soggetti erotici in primo luogo).
Euripide mostra che la vera “bella Elena” non è un prodotto dell’immaginario collettivo che sottomette la donna ai canoni difensivi della sessualità maschile, la Marilyn Monroe addomesticata, inoffensiva che fa sognare tutti, e nessuno conosce, incontra. È la capacità della donna di persistere come soggetto di desiderio e di saggezza profonda sulla vita, anche in condizioni proibitive. A questa persistenza nessun uomo può avere approdo a buon mercato, senza fatica e rischi.Trasformando Menelao in Ulisse e Elena in Penelope, Euripide li fa ricongiungere lontano dall’Itaca, nell’esilio condiviso degli amanti.
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