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LE VOCI DEGLI ALTRI tra post-verità e post-psichiatria

26 Giu 17

A cura di Gilberto Dipetta

Alessandra entra nella medicheria di colpo.
Sono le diciannove del primo giorno dell’estate. Il sole è meno rabbioso. Migliaia di corpi che possono si rosolano al sole, nudi e unti di olio. Noi siamo qui. Dalle finestre aperte con le grate la brezza del mare carezza gli aghi dei pini. “State parlando con le voci degli altri…”. E’ perentoria, Alessandra. Alla sua affermazione fa eco il nostro silenzio. Sgomento. Eravamo un momento sulle poltrone e chiacchieravamo per accelerare in compagnia l’ultima ora di guardia.
Ero entrato per parlare con Alessandra, nella sua stanza, che però dormiva, apparentemente sedata. E dunque mi ero portato in medicheria per condividere con gli infermieri qualche considerazione. Il gelo che scende lungo la schiena di chi vive nel senso comune e quotidiano delle cose quando la follia si manifesta così, a freddo, di colpo, è indescrivibile. Anche noi ancora ci stupiamo, dopo fiumi di discorsi incongrui. Quando sei impreparato e ricevi lo schiaffo di trovarti al cospetto di qualcuno che è altrove, non ti riprendi.
“Può essere, Alessandra, ma poi le voci ritornano dai loro proprietari” Mi avvicino, rompendo lo sgomento, e la invito a seguirmi, per poterle parlare. Ma Alessandra è inchiodata, e guarda Antonio. “No, è con lui che voglio parlare” Antonio fa eco, subito: “Ma lui è il dottore, parla con lui.” Lo sguardo di Alessandra è al tempo stesso uno sguardo che ti trapassa, con le palpebre a sole calante, ma anche uno sguardo di traverso”. “Ti punta”, mi dirà poco dopo Antonio. “Quando ti punta così fa paura”. E lentamente lasciamo la medicheria. Ci portiamo nel cortile, su di una panchina. Il bulgaro ci ha preceduti occupando un’altra panchina, sta raccolto in se stesso, forse cercando di sintonizzarsi sui rumorosi orgasmi della ex moglie con il vicino di casa. Raffaele cammina avanti e dietro pensando che domani esce. Alessandra mi segue lenta, tenendo lo sguardo volto ad Antonio. Ancora, dopo che si è seduta, indica una finestra del cortile, alludendo ancora ad Antonio  “E’ con lui che voglio parlare..” E dentro il suo sguardo c’è anche desiderio: cosa prova una persona a a sentirsi attraversare da uno sguardo livido, misto di rabbia e di desiderio? E’ ancora uno sguardo umano? Oppure è umano, troppo umano? Che cosa ha sentito, che cosa ha visto Alessandra in Antonio, che in me non vede? In che cosa Antonio si è sentito intrudere lo sguardo per rispondere di getto  “E’ lui il dottore…”? Chi ci forma per reggere questi sguardi? Che effetto hanno dentro di noi? Quanti ne possiamo assorbire? E’ mercoledì pomeriggio. Alessandra è arrivata nella notte tra martedì e mercoledì. TSO, 118, grande agitazione tra i familiari. Fino a domenica sera una vita tranquilla, normale. Venticinque anni. Un compagno, un figlio di un anno e mezzo. Domenica la festa per la promessa di matrimonio. Poi, a partire dalla sera, al rientro a casa, l’epifania della follia. Era in cucina con la suocera e il cognato. Inizia a dire cose incongrue. Si allarma. Non mi toccate!!! Si mette spalle al frigo. Non fa accostare nessuno. Il cognato si ritira, la suocera rimane con lei fino all’alba, a parlare, ma non riesce a toccarla, né a seguirla nei suoi discorsi. E’ come trasognata. Al mattino sembrava essersi tranquillizzata, poi riprende. Segue un accesso al PS vicino, poi un colloquio al CSM. Poi la notte di lunedì. Ancora drammatica. Dà evidentemente di matto. Finge di assumere più volte le goce prescritte poi le sputa in faccia ai parenti. Ad un tratto tenta di adescare il cognato. Poi il suocero. “Per salvare il mondo” vuole stare con un uomo della famiglia, per salvare il mondo. Quanti ne ho visti, in questi anni, di salvatori del mondo? E’ possibile che solo i matti vogliano ancora salvare il mondo? Nessun politico vuole più salvare il mondo, nessun asceta, nessun eremita, nessun filosofo. Nessuno di noi. Sulla panchina, finalmente, Alessandra mi chiede chi sono. Le chiedo io lei chi è. Mi dà correttamente le informazioni. Poi parla, come trasognata. Le sue parole sono smozzicate, accennate, quasi incomprensibili. Si rincorrono. Si sussurrano. Non ti guarda. E’ perplessa.  Le voci… le sente da due giorni. Ma non ne parla volentieri. Di tanto in tanto un accenno al padre, che non ha mai conosciuto. E poi la paura di morire, di essere uccisa. Da loro. Ma chi sono loro? Chi popola dunque  questa tremenda anonima comunità paranoide? Raffaele sostiene che Dio gli ha detto di farli fuori tutti, di eliminarli. Perché Raffaele e Alessandra non parlano tra di loro? Perché in un reparto per acuti ognuno sta solo con il suo delirio? Quanto c’è di incomunicabile in un delirio? Quanto c’è di segreto? Quanto c’è di inevitabile? Che sarà di Alessandra? Cosa rispondo ai parenti che vogliono conoscere la prognosi. Come se noi la sapessimo (quanti pazienti avete visto così?). Che, allarmati, chiedono se sta assumendo dei sedativi, come se noi curassimo con le erbe. Come è possibile che la follia non esiste più nel novero dell’esperienza umana? Come il ragazzo arrivato da Cambridge, che per forza doveva aver assunto qualcosa. Come se senza un interruttore chimico esterno non si potesse impazzire più. Il mondo di Alessandra, purtroppo, si è incrinato e si è rotto come un cristallo. Di colpo. Il velo di Maya è caduto. “la verità” è fuori, sussurrata dalle voci degli altri, sulle labbra nostre. La verità. Chissà quale voce hanno le mie labbra. Chissà quale voce, dagli altri, da loro, viene messa sulle mie labbra. “Alcuni pazzi odono delle voci che parlano distintamente, e con le quali tengono conferenze prolungate. Tali voci escono dalle nubi, dagli alberi, attraversano le muraglie, i pavimenti, insistono e stancano coloro che le odono, la notte e il giorno, al passeggio e nel ritiro, hanno il tuono e l'espressione della voce dei loro parenti, degli amici, dei vicini, dei loro nemici; parlano ad essi dì cose allegre, erotiche, li minacciano, o li ingiuriano: propongono loro d'operare contro il proprio onore, il proprio interesse, la propria conservazione”. Così scriveva Jean Etienne Esquirol nel suo trattato del 1838. Che cosa è cambiato da allora? Che cosa sappiamo di più di quello che sapeva Esquirol sul cervello di Alessandra? Per quanto l’uomo potrà cambiare, la follia lo riporta alla sua umanità originaria. Io mi accosto alle voci di Alessandra con le parole di Esquirol e non con l’ultima metanalisi su pub med. Il nostro pseudo colloquio, allora, stasera, si ferma sulla verità. Antimo si è seduto di fronte a noi, e ci ascolta. Curioso. Ai suoi occhi Alessandra parla a vanvera, sensa senso. Io cerco il senso. Io cerco ancora il  senso. Il metodo dentro la follia. Che non appartiene a questa psichiatria che parla a vanvera, che finge di ignorare che il re è nudo, e che è finita nella secca della post-verità. Tra la verità di Alessandra e la post-verità su cui cabra la psichiatria post-moderna e post-umana io mi perdo. Per fortuna anche questo turno finirà. Incontrerò anche io il sole sulla pelle. Non mi dimenticherò di Alessandra. 

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