Ho impiegato alcuni mesi per scrivere di un libro apparentemente normale, in realtà sconvolgente, di un libro che attraversa la follia vissuta e s’imprime nella nostra mente chiedendole: “E tu, che ne pensi? Cosa dicono le tue voci?”. La mia mente, un po’ scossa, un po’ interessata, un po’ curiosa, ha pensato che la vita ha traiettorie non prevedibili, che “La doppia morte di Gerolamo Rizzo”, curato da Francesco Bollorino e Gilberto Di Petta, edito da alpes, è un diario clinico scritto dal Gerolamo stesso, un insegnante trentenne che tutto persegue tranne il male, fino a quando il male, l’imperscrutabile, il mistero, lo vanno a cercare, lo perseguitano, lo armano, lo costringono a uccidere, a finire sei mesi e sei giorni in carcere, poi ventitré anni in manicomio prima di essere ucciso, a sua volta, da un altro matto, tal Francesco Merlati che dimorava, scherzi del destino, nella “Sezione Tranquilli”.
Il diario scritto dal povero Gerolamo è un documento formidabile, denso, acuto, sprigiona lucidità ed è scritto meglio di quanto lo avrebbe scritto un professionista che si occupa quotidianamente di matti, di personalità deliranti, vulnerabili, di base sensitivo-paranoide, di dolore. Il professionista se ne occupa, il malato lo vive. Siamo ai primi anni del Novecento, siamo a Genova e nei dintorni di Genova. Le voci, maledette voci, vanno a disturbare Gerolamo nel sonno: «Nell’estate del 1904 andai, come ero solito fare tutti gli anni, in campagna a Campoligure. Una notte, verso le undici, mi svegliarono dei colpi dati alla porta della mia camera che era chiusa e delle voci che mi chiamavano e mi dicevano che aprissi alla Ninetta, che voleva entrare nella mia camera. Siccome sentivo voci di uomini che mi chiamavano per nome, non mi potevo spiegare cosa volesse da me questa signorina, accompagnata da due o più uomini, per questo feci il sordo, facendo mostra di dormire. Quelle persone stettero un’ora dietro alla mia porta a chiamarmi, picchiando con i piedi perché io aprissi, poi se ne andarono minacciando. Da quel momento non ebbi più quiete, fui perseguitato notte e giorno da voci, che di notte mi toglievano completamente il sonno, mi rimproveravano perché non avevo aperto alla Ninetta, e dicevano, anche, che dovevo sposare questa signorina, figlia di onesta famiglia di Genova. Tentai molte volte di fuggire a Genova prendendo il treno, ma queste voci mi seguivano in treno e a Genova. Ero disperato, non dormivo più, non mangiavo quasi più, ossessionato notte e giorno com’ero».
Gerolamo, dopo tanti tormenti dell’anima, decide di farla finita. Non con sé stesso, ma con un altro. Per vendetta, per tremenda vendetta. Compra una rivoltella e uccide un prete, il primo che si trova davanti: «Il perito, signor Tomelini, mi domandò perché avevo scelto un prete piuttosto che un’altra persona per vendicarmi, risposi che credevo di essere abbandonato da tutti, ma che i miei persecutori erano i signori e i preti, perché dovevano secondo il mio criterio, aiutarmi e sottrarmi dalla persecuzione, i signori per i mezzi di cui dispongono, il Clero per la grande influenza che ha ancora, benché i tempi non siano più favorevoli a loro. M’impressionò l’indifferenza di quel cardinale e dell’arcivescovo, e il sentire che anche padre Semeria mi tormentava. Contribuì moltissimo a quello che è successo il vedermi passare pochi giorni avanti del fatto dei giovani preti, da vicino, i quali ridevano a crepapelle. Un prete, un maestro (avevamo lavorato insieme due anni) quattro o cinque giorni avanti lo vidi in piazza De Ferrari, egli al vedermi per non salutarmi, si voltò dall’altra parte, non potendo contenere il riso. Queste apparenze mi fecero credere che tutti i preti fossero contro di me, come i signori; questo non era vero, come seppi dopo. Lo meritano certi capi e diversi preti fra i quali, mi dissero le voci, la vittima, ma la maggioranza era favorevole a me, e anche al dì d’oggi, dei preti vegliano per incoraggiarmi».
Gerolamo per descrivere il momento cruciale del delitto usa una frase fulminante: «Là successe quello che doveva succedere…». La frase, non so perché, l’ho associata a quella del Manzoni: «La sventurata rispose». Secca, stringente, definitiva. Una sentenza senza giri di parole. Essenziale come il peccato, come la morte. La doppia morte di Gerolamo Rizzo, quella provocata e quella subìta, giaceva nell’ex Ospedale Psichiatrico di Cogoleto, dove erano raccolte tutte le cartelle cliniche provenienti dal Manicomio di Genova Quarto. Bollorino ha scovato la storia tra le carte, ha incrociato i documenti della prima morte con la seconda, ne ha discusso con Di Petta e, insieme, hanno deciso che valesse la pena di trascriverla, di trasmetterla a noi, poveri uomini di un secolo dopo, accompagnandola con i notevoli interventi, in appendice, di Rita Corsa, Pierpaolo Martucci e Paolo Francesco Peloso. Il Cardinale Martini amava ripetere che chi è stato ritenuto colpevole, deve prima riconoscere la colpa, poi riconciliarsi. Ma qui di chi è la colpa? E tu, mente, che ne pensi? Cosa dicono le tue voci?
Il diario scritto dal povero Gerolamo è un documento formidabile, denso, acuto, sprigiona lucidità ed è scritto meglio di quanto lo avrebbe scritto un professionista che si occupa quotidianamente di matti, di personalità deliranti, vulnerabili, di base sensitivo-paranoide, di dolore. Il professionista se ne occupa, il malato lo vive. Siamo ai primi anni del Novecento, siamo a Genova e nei dintorni di Genova. Le voci, maledette voci, vanno a disturbare Gerolamo nel sonno: «Nell’estate del 1904 andai, come ero solito fare tutti gli anni, in campagna a Campoligure. Una notte, verso le undici, mi svegliarono dei colpi dati alla porta della mia camera che era chiusa e delle voci che mi chiamavano e mi dicevano che aprissi alla Ninetta, che voleva entrare nella mia camera. Siccome sentivo voci di uomini che mi chiamavano per nome, non mi potevo spiegare cosa volesse da me questa signorina, accompagnata da due o più uomini, per questo feci il sordo, facendo mostra di dormire. Quelle persone stettero un’ora dietro alla mia porta a chiamarmi, picchiando con i piedi perché io aprissi, poi se ne andarono minacciando. Da quel momento non ebbi più quiete, fui perseguitato notte e giorno da voci, che di notte mi toglievano completamente il sonno, mi rimproveravano perché non avevo aperto alla Ninetta, e dicevano, anche, che dovevo sposare questa signorina, figlia di onesta famiglia di Genova. Tentai molte volte di fuggire a Genova prendendo il treno, ma queste voci mi seguivano in treno e a Genova. Ero disperato, non dormivo più, non mangiavo quasi più, ossessionato notte e giorno com’ero».
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Gerolamo, dopo tanti tormenti dell’anima, decide di farla finita. Non con sé stesso, ma con un altro. Per vendetta, per tremenda vendetta. Compra una rivoltella e uccide un prete, il primo che si trova davanti: «Il perito, signor Tomelini, mi domandò perché avevo scelto un prete piuttosto che un’altra persona per vendicarmi, risposi che credevo di essere abbandonato da tutti, ma che i miei persecutori erano i signori e i preti, perché dovevano secondo il mio criterio, aiutarmi e sottrarmi dalla persecuzione, i signori per i mezzi di cui dispongono, il Clero per la grande influenza che ha ancora, benché i tempi non siano più favorevoli a loro. M’impressionò l’indifferenza di quel cardinale e dell’arcivescovo, e il sentire che anche padre Semeria mi tormentava. Contribuì moltissimo a quello che è successo il vedermi passare pochi giorni avanti del fatto dei giovani preti, da vicino, i quali ridevano a crepapelle. Un prete, un maestro (avevamo lavorato insieme due anni) quattro o cinque giorni avanti lo vidi in piazza De Ferrari, egli al vedermi per non salutarmi, si voltò dall’altra parte, non potendo contenere il riso. Queste apparenze mi fecero credere che tutti i preti fossero contro di me, come i signori; questo non era vero, come seppi dopo. Lo meritano certi capi e diversi preti fra i quali, mi dissero le voci, la vittima, ma la maggioranza era favorevole a me, e anche al dì d’oggi, dei preti vegliano per incoraggiarmi».
Gerolamo per descrivere il momento cruciale del delitto usa una frase fulminante: «Là successe quello che doveva succedere…». La frase, non so perché, l’ho associata a quella del Manzoni: «La sventurata rispose». Secca, stringente, definitiva. Una sentenza senza giri di parole. Essenziale come il peccato, come la morte. La doppia morte di Gerolamo Rizzo, quella provocata e quella subìta, giaceva nell’ex Ospedale Psichiatrico di Cogoleto, dove erano raccolte tutte le cartelle cliniche provenienti dal Manicomio di Genova Quarto. Bollorino ha scovato la storia tra le carte, ha incrociato i documenti della prima morte con la seconda, ne ha discusso con Di Petta e, insieme, hanno deciso che valesse la pena di trascriverla, di trasmetterla a noi, poveri uomini di un secolo dopo, accompagnandola con i notevoli interventi, in appendice, di Rita Corsa, Pierpaolo Martucci e Paolo Francesco Peloso. Il Cardinale Martini amava ripetere che chi è stato ritenuto colpevole, deve prima riconoscere la colpa, poi riconciliarsi. Ma qui di chi è la colpa? E tu, mente, che ne pensi? Cosa dicono le tue voci?
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