La prospettiva dell'eclettismo sistematico sostiene che l'integrazione teoretica comporta l'assimilazione di teorie che, di fatto, sono inconciliabili e che le tecniche dovrebbero, dunque, essere combinate pragmaticamente sulla base della loro efficacia clinica, presunta o osservata, senza preoccuparsi troppo delle contraddizioni e delle incompatibilità tra un approccio e l'altro.
Tale declinazione – che, da quanto emerge dai dati di corpose metanalisi, risulta essere la forma prevalente di pratica terapeutica – prevede che il terapeuta utilizzi, rimanendo ancorato al proprio schema teorico di riferimento, tecniche provenienti da modelli differenti che vengono inserite in modo “neutrale” all’interno di un approccio teorico differente; in tal senso, la tecnica sopravanza la teoria. Questa modalità risponde all’ingiunzione: “quale trattamento, per quale paziente, con quale specifico problema e in quale specifico contesto” (Paul, 1967) ed è basato sull’assunto che il comportamento umano è la risultante dell’influenza di vari fattori che devono, pertanto, essere esplorati attraverso le proposte delle diverse prospettive teoriche.
L’obiettivo precipuo del terapeuta che agisce secondo questa prospettiva è quello di selezionare il trattamento più efficace, come suggerito dagli studi sull’outcome, e adeguarsi ai bisogni e alla specificità del singolo paziente, scegliendo la strada più conveniente in quella circostanza e non l’unica che il suo modello gli permette.
La pratica del terapeuta eclettico si focalizza prevalentemente sul “cosa” determina il cambiamento, mentre l’integrativo teoretico si focalizza sul “come” e “perché” esso avviene. Questa modalità può essere definita come il primo passo verso l’integrazione. Uno degli aspetti problematici di questa forma di integrazione, evidenziato dai terapeuti che prediligono la modalità dell’integrazione teoretica, è il rischio di operare una “teorectomia” producendo una pratica non intellegibile; un intervento terapeutico come un'interpretazione, o una risposta empatica, non sussistono in maniera indipendente dalla cornice di significato dell'intero sistema terapeutico. Il terapeuta che usa una tecnica senza accettarne i presupposti teorici alla base corre il rischio di alterarne il processo senza comprenderne le criticità: per esempio, un paziente che è stato seguito con un trattamento ad orientamento prevalentemente psicodinamico, potrebbe sperimentare il cambiamento del terapeuta verso interventi di tipo cognitivo-comportamentale come un atteggiamento autoritario.
Sebbene tali tipi di intervento siano potenzialmente efficaci, il loro significato e il loro impatto dovrebbero, dunque, essere esplorati nel nuovo contesto. Ciò permetterebbe al terapeuta di gestire il processo con flessibilità e coerenza.
Migone (2009), a tale proposito, osserva che il rapporto tra teoria e tecnica è un problema presente nella storia della psicoterapia fin dagli anni Trenta quando nacque la “Psicologia dell’Io”. Un problema che si pone sia all’interno di ogni singolo filone teorico, che rappresenta la somma di diverse teorie, che nell’integrazione di approcci differenti. Osserva Migone: la tecnica non va somministrata come un pacchetto, se essa viene somministrata in maniera rigida si rischia di imbattersi nei “vicoli ciechi”; pur all’interno di una determinata prospettiva è il paziente la variabile indipendente e non la tecnica che, invece, diventa variabile dipendente e deve modificarsi per meglio adattarsi alle difese del paziente. Tuttavia il rapporto tra paziente con le sue necessità, tecnica che deve far fronte a queste necessità e modello che deve dare coerenza alla variabilità della tecnica non è semplice. Consideriamo i seguenti passaggi:
1. stabilito un paradigma teorico con una coerenza interna (ad es. il modello psicodinamico) utilizzato dal terapeuta come riferimento
2. si individuano degli obiettivi e delle modalità di intervento coerenti con il paradigma teorico (ad es. il metodo delle libere associazioni e delle interpretazioni);
3. ci si imbatte in situazioni in cui gli interventi coerenti con il paradigma teorico non sono efficaci (ad es. le fobie);
4. spinti dalla frustrazione, si cercano o ci si imbatte serendipicamente in altre modalità di intervento che si spera siano più efficaci;
5. se questi interventi risultano efficaci si selezionano;
6. a questo punto si tratta di capire se questi interventi siano coerenti con il paradigma teorico, operazione non semplice perché frutto di un’interpretazione;
7. nel caso in cui non sia possibile integrare il nuovo intervento nella teoria di riferimento, sarebbe opportuno mantenerlo in una sorta di sospensione teorica, senza una cornice di riferimento, o con una cornice diversa da quella originaria, almeno fino a quando il tutto potrà integrarsi in un nuovo modello.
Come si evince da queste criticità i terapeuti che prediligono l’eclettismo sistematico possono restare eclettici “puri”, con tutti gli inconvenienti che questo comporta, oppure procedere in direzione integrativa. In questo caso l'integrazione non avviene, o non avviene prevalentemente, sulla base di una teoria preferita come nel modo assimilativo, ma segue piuttosto la linea di ricerca dei fattori comuni ai diversi approcci. L'integrazione, che ha in questo caso un carattere prevalentemente accomodativo, punta qui a delineare una struttura comune ai diversi metodi, che comincia a prendere forma nel momento in cui si rinuncia a imporre al trattamento un andamento predeterminato.
Tuttavia, non tutti i casi di eclettismo, sono riconducibili a questo modello: "l'eclettismo tecnico non è una pura combinatoria di tecniche eterogenee, ma è sempre un modo di curare in cui una certa particolare visione di patogenesi e terapia incorpora tecniche di diversa provenienza reinterpretandole nei propri termini teorici e finalizzandole al proprio obiettivo" (Alberti, 1997, p. 461). Da questo punto di vista non sembra esistere una differenza significativa tra l'eclettismo tecnico e l'integrazione teorica, in quanto in entrambi i casi si parte da una visione definita e si procede in modo assimilativo.
Di fatto, nonostante le classificazioni, nessuna di queste modalità può escludere mutualmente l’altra: nessun eclettico sistematico può ignorare del tutto la teoria e nessun integrazionista teoretico può ignorare la tecnica, e chi vanta una “tecnica senza teoria” spesso è guidato da una teoria ben più tirannica proprio perché inconsapevole.
Il cumulo degli studi porta ormai ad asserire che l’eclettismo sistematico non deve essere inventato perché, di fatto, è già praticato da tutti i terapeuti, volenti o nolenti, sia perché i pazienti, specie i gravi, distorcono e inquinano il purismo di qualsiasi approccio, sia perché ogni dato clinico può essere letto alla luce di teorie diverse, cambiando nome al dato stesso.
Tra gli approcci sviluppati all’interno di questa prospettiva, i più noti sono: la terapia multimodale di Lazarus che attinge ecletticamente da diversi modelli e la psicoterapia prescrittiva di Beutler et al., in cui le differenti tecniche, invece che essere combinate nel singolo trattamento, vengono prescritte quali trattamenti più appropriati a seconda dei differenti tipi di problemi, sulla base di una diagnostica differenziale.
(L’immagine rappresenta l’opera “Due ovali” di Wassily Kandinsky, 1919, olio su tela – San Pietroburgo, Museo di Stato Russo)
Utile la differenziazione tra
Utile la differenziazione tra eclettismo tecnico e integrazione teorica.. Propongo una ulteriore fattispecie che potremmo chiamare ‘eclettismo silenzioso’: il terapeuta ha in sè un modello di modelli, che di fronte al segno-sintomo-sogno del paziente funziona da potenziale griglia di lettura. Le diverse letture possibili non vengono verbalizzate nè tantomeno agite, ma all’interno del terapeuta attivano risonanze che poi andranno ad informare l’interpretazione…
Osservazione molto
Osservazione molto interessante, Simonetta. In effetti, è quanto dicono molti autori. L’eclettismo si sviluppa sempre con la pratica, per quanto sia poco dichiarato e ci si barrica sulla difesa del proprio modello.
A tale proposito, riporto una citazione: “In psicoterapia non si fa ciò che si dice e non si dice ciò che si fa”, spesso, più in modo inconscio che volontariamente; quindi, da un lato c’è quello che si fa, poi quello che si pensa consapevolmente rispetto a quello che si fa e, dopo ancora, quello che si dice agli altri rispetto a quello che si fa. Spesso, sembra non esserci una relazione diretta tra teoria e pratica (Chambon, Marie-Cardine, 1999).
Bisognerebbe prendere spunto da queste verità per sviluppare un maggior dialogo sui diversi modelli.
Post molto interessante! Pier
Post molto interessante! Pier Francesco Galli ci diceva che lo psicoterapeuta, rispetto alla teoria, mano a mano che matura deve diventare un “analfabeta di ritorno”: un altro tipo di ‘assimilazione’, mi pare. Sarei curioso di sapere cosa ne pensi? Ciao! Dino Angelini, Reggio E.
Grazie, caro Dino. Condivido!
Grazie, caro Dino. Condivido! Di Galli ho letto: Conversazione su “la tecnica psicoanalitica e il problema delle psicoterapie”, Il Ruolo Terapeutico, 1984. Lo stesso afferma che l’eccessiva differenziazione porta ad una serie di “paranoie parallele”, modelli che in realtà, hanno molto in comune contrariamente a quanto si afferma. Tornare analfabeti è la regola che garantisce una pratica sempre viva e aperta alla realtà del paziente, e non del modello che rischia di diventare un letto di Procuste se applicato rigidamente.
Riflessioni sempre acute,
Riflessioni sempre acute, Miriam. Grazie!
Torna sempre alla ribalta il tema dell’integrazione, ma stavolta tra teoria e tecnica (o, meglio, tra teorie e tecniche), a vantaggio della non facile comprensione dell’individuo.
Quello che, spesso, noto, purtroppo, è invece un atteggiamento di diffidenza verso l’altro approccio e di chiusura entro i propri confini, sia sul versante teorico che tecnico.
Considerata la multifattorialità dello sviluppo psicologico dell’individuo e, dunque, la sua complessità manifestata qui e ora, la disponibilità del terapeuta all’incontro tra integrazione teoretica ed eclettismo sistematico dovrebbe, invece, essere premessa necessaria per favorire un reale cambiamento e dare una risposta funzionale alla richiesta di aiuto.
Credo che la buona alleanza terapeutica si fonda anche su questo potenziale punto di forza, ovvero la flessibilità del terapeuta.
I vantaggi sono a doppio senso poichè il terapeuta riuscirebbe, probabilmente, a cogliere in maniera più immediata e completa i bisogni (in)espressi del paziente; quest’ultimo, dal canto suo, beneficerà di un terapeuta più “compatibile” e pronto ad accoglierlo.
Certo, sviluppare i passaggi elencati non è facile, richiede un enorme sforzo per il terapeuta già faticosamente formatosi all’interno di un approccio ben definito, ma se questa fosse la chiave che apre tutte le porte, allora è la direzione giusta e necessaria.
Incuriosito dai due approcci citati in fondo all’articolo che, senza dubbio, approfondirò.
Grazie, Antonio. Sì, la
Grazie, Antonio. Sì, la flessibilità dovrebbe essere la parola d’ordine e di fatto dalla letteratura emerge che lo è molto di più di quanto sia dichiarato. L’integrazione teoretica comporta un’attenzione epistemologica per la formulazione di una sorta di metateoria unitaria dello sviluppo umano e non è semplice da realizzare ma di sicuro, come osservi, occorre un maggior dialogo tra modelli. Analizzerò l’integrazione teoretica nel prossimo articolo.