La psichiatria nel suo contesto storico
Segue dalla parte I – Psichiatria e salute mentale (clicca per il link)
Il secondo numero di quest’anno della rivista Mefisto. Rivista di medicina, filosofia, storia, si occupa di Museo, memorie e narrazioni per la salute mentale e presenta, dopo l’introduzione di Luigi Armiato e Pompeo Martelli, lavori di Fiora Gaspari sul San Servolo di Venezia, Leonardo Musci sull’archivio di Franco e Franca Basaglia, Marica Setaro e Silvia Calamai sull’archivio sonoro lasciato da Anna Maria Bruzzone sulle interviste effettuate all’OP di Arezzo negli anni ‘70[i], Annacarla Valeriano su Teramo[ii], Danilo Dondici, tutti relativi agli archivi. Il volume prosegue con Vita Fusco, Francesco Gollo e Marco Salustri che si occupano del Museo Laboratorio della mente di Roma[iii], e allarga il suo sguardo al cinema, all’interattività, al futuro della salute mentale con Cirifino, Rosa e Sangiorgi, Mandelli, Narracci.
Carlo Livi (1823-1877), una delle figure più importanti della psichiatria italiana di metà Ottocento, è al centro di Un uomo tutto intero. Biografia di Carlo Livi, psichiatra dell’Ottocento di Martina Starnini (Firenze University Press, 2019); di lui ho avuto occasione di mettere in rilievo le interessanti posizioni sulla pena di morte[iv] e sulla relazione tra l’utilizzo terapeutico del lavoro e l’affidamento di strumenti potenzialmente pericolosi al malato, che ho letto in relazione a quelle che sarebbero state poi le posizioni di Basaglia sul rischio dell’incidente nel processo di apertura dell’istituzione[v]. Nessun dubbio perciò che meritasse una biografia, che Starnini ricostruisce a partire dagli anni della formazione medica, sotto la guida di due grandi maestri, Maurizio Bufalini e Francesco Portigliotti, e l’impegno nella causa risorgimentale che lo vide protagonista insieme a tanti psichiatri dell’Ottocento italiano[vi]. Poi il lavoro come medico condotto, la lotta contro il colera, o negli anni successivi il lavoro nel campo della malaria, della coltivazione del riso, della divulgazione medica, della pedagogia, della lotta alla scrofola e alla tubercolosi e del termalismo; e poi l’interesse per la storia della medicina e lo sforzo di mettere in luce i primati italiani in quel campo, in linea con il patriottismo degli anni giovanili, l’insegnamento universitario nei campo dell’igiene e della medicina legale, considerati limitrofi alla psichiatria. Ad essa del resto Livi si avvicina un po’ per caso assumendo la direzione del San Nicolò di Siena, e per prepararsi a questa sfida effettua un viaggio di studio per i principali manicomi italiani lasciandone giudizi a volte ammirati, come per Aversa, Perugia, Pesaro, Venezia e altre francamente critiche, come per Roma, Bologna. Livi fu attento tanto agli aspetti della psichiatria più legati alla mente che al corpo e oltre che i trattamenti morali, che non si discostano in realtà da quelli in uso nei suoi anni se non perché applicati in modo decisamente estensivo, Starnini illustra anche alcuni trattamenti medici allora disponibili. Al San Nicolò massima importanza attribuiva alla cura del lavoro, si svolgevano attività ricreative e anche feste, volte a rompere l’isolamento del manicomio rispetto alla città, si usciva per la città, si godeva di permessi al domicilio, grande importanza era attribuita a quella che sarebbe stata poi detta “guarigione sociale”. Credo che questa citazione da un suo lavoro sia emblematico della personalità, che altrove ho già avuto modo di mettere in luce, di questo psichiatra coraggioso, intelligente e sagace: «Il giorno che ho mandato fuori una ventina di malati se ne discusse per tutta Siena: qui c'era un poco di rischio; se un matto mi scappava era bell'e finita per me; la fortuna volle che non mi scappasse, e io trionfai in cotesto giorno. Ora ne mando fuori trenta, quaranta tra uomini e donne, e tutti sono ostinati a tornarmi a casa: so che qualche medico di qui desidererebbe che me ne scappasse uno; ma i Senesi che come i Francesi amano le cose teatrali ne godono» (p. 175).
Affascinano alcuni passaggi nei quali Starnini propone, ripresi dall’archivio del manicomio senese, i dialoghi tra il Livi e alcuni dei suoi pazienti, nei quali non stentiamo a riconoscere una tecnica psicoterapica ante litteram; e, se non altro, la documentazione del fatto che con i suoi pazienti Livi ci stava e ci parlava.
La sua statura di psichiatra lo pose da una parte in urto con l’amministrazione del San Nicolò restia a concedere gli ammodernamenti che Livi riteneva indispensabili e preoccupata di conservare alle suore il potere del quale tradizionalmente disponevano, dall’altra ne fece uno dei fondatori della Società Freniatrica Italiana nel 1873[vii], un socio della Societé Médico-Psychologique francese. A partire dal dicembre 1873 Livi lasciò il San Niccolò per assumere la guida del San Lazzaro di Reggio Emilia, dove oltre che riprendere su più larga scala l’attività riformatrice il fondatore formò due allievi che sarebbero stati le guide della generazione successiva di psichiatri, Augusto Tamburini ed Enrico Morselli, fondò insieme ad essi la Rivista Sperimentale di Freniatria nel 1875 e pubblicò, tra l’altro, quell’articolo sul lavoro nei manicomi che sarebbe stato appassionatamente discusso da Bonfigli e Morselli al congresso della Società Freniatrica in Aversa del 1877. Livi, però, era morto da pochi mesi, e se forse un limite mi pare di cogliere nella preziosa biografia della Starnini è quello di una certa sproporzione tra l’attenzione per i suoi anni senesi e quel triennio o poco più reggiano che fu certamente breve ma decisamente intenso.
Ancora, la biografia non trascura di mettere in luce un altro importante aspetto dell’attività scientifica – e sempre anche politica, civile – del Livi, che è quello nel campo della “freniatria forense”, nel quale rappresentò per l’Italia della seconda metà dell’Ottocento un indiscusso punto di riferimento. Vengono così presi in esame con ampi riferimenti ai suoi stessi scritti il suo contributo specifico allo sviluppo di una psichiatria forense in Italia, quello al dibattito sulla pena di morte nel quale fu appassionatamente abolizionista, il suo atteggiamento rispetto al ruolo peritale dello psichiatra e alle contrapposizioni che a questo proposito nascevano con i giudici, la sua posizione tra sostenitori del libero arbitrio e del determinismo, la sua visione del problema della simulazione. Ancora, le sue idee su altri argomenti allora – ma in buona parte anche oggi[viii] – controversi, come il dibattito sulla questione diagnostica in ambito psichiatrico-forense ma non solo, a partire dalla monomania e dalla follia morale, o sui delitti propri dell’ambito famigliare. E, insieme, il suo rapporto con il contemporaneo di maggiore successo, Cesare Lombroso: l’intelligente ironia con la quale sferzava i “divagamenti de’ cranioscopisti” per i quali il delitto rischia di essere ridotto a “escremento cerebrale” (p. 309); ma insieme una difficoltà a metterne seriamente in discussione l’autorevolezza, che fu comune del resto a tutti gli psichiatri degli ultimi decenni del secolo XIX, ed è quanto il "geniale" poeta marchigiano Giovanni Antonelli, internato a Macerata, ad esempio rimproverava a un ancor giovane Morselli[ix].
Un libro importante, dunque, che ricostruisce l’opera di questo protagonista della psichiatria italiana, ma non solo, dei suoi anni, ma diffonde lo sguardo a tutto tondo sui principali problemi della psichiatria ma anche della sanità del suo periodo, i decenni centrali dell’Ottocento. E dimostra ampiamente come Livi sia stato, per la molteplicità dei problemi scientifici e politici nei quali si è declinata la sua attività poliedrica, un intellettuale e un medico senz’altro interessato all’”uomo tutto intero”.
Di storia della psichiatria nella Grande guerra si occupa La guerra in testa. Esperienze e traumi di civili, profughi e soldati nel manicomio di Pergine Valsugana di Anna Grillini (Il mulino, 2018). Il sottotitolo non deve trarre in inganno: perché pecca senz’altro di modestia e promette molto meno di quanto poi la lettura del libro non dà. Infatti a partire, certo, dalla vicenda del manicomio di Pergine Valsugana che presenta un particolare interesse nel corso della Grande Guerra perché venne a trovarsi nella zona contesa e la sua popolazione fu in gran parte sottoposta a drammatiche esperienze di evacuazione e ritorno in una situazione cambiata (e analogo interesse presenterà anni dopo per la questione delle opzioni), il testo approfondisce questioni di ordine generale. Che vanno dalla storia della psichiatria nel Tirolo fino alla nascita di Pergine; la nascita del concetto di nevrosi traumatica e il punto allo scoppio della guerra attraverso tra l’altro un’approfondita lettura della monografia che Enrico Morselli dedicava al tema nel 1913 nella quale vediamo già presenti molti temi che ritorneranno poi nel corso del conflitto; la vicenda dei prigionieri di guerra; la nuova amministrazione italiana di Pergine; la specifica condizione delle donne a Pergine nel primo dopoguerra. E’ un testo ricco, agile, ben scritto e solidamente documentato, che a partire da una vicenda già in sé interessante, quella di un manicomio attraversato dal conflitto e oggetto al termine di esso di un cambio di mano, propone, da un lato, esempi della dimensione umana delle questioni generali che trae dalla ricca casistica clinica dell’archivio (i casi di Luigia, Maria e tanti altri anche solo evocate in pochi tratti). E dall’altro supera l’ambito della storia locale per inquadrarla all’interno di una vicenda storiografica che si è arricchita, in questo centenario, di molti altri tasselli – non sempre capaci di sintesi, originalità, efficacia e ottima amministrazione della scrittura, come in questo caso – dimostrando di muovervisi del tutto a suo agio. Completano il volume una breve esemplificazione documentaria e gli schizzi biografici di alcuni degli psichiatri citati a vario titolo nel testo.
Alla fine del 2008 pubblicavo il volume La guerra dentro. La psichiatria italiana tra fascismo e resistenza (Ombre corte). Sono passati 11 anni e Gian Luigi Bettoli ci offre oggi nel XII capitolo di A dispetto della dittatura fascista. La lunga resistenza di un movimento operaio di frontiera: il Friuli dal primo al secondo dopoguerra (Olmis, 2019) – che è un altro volume il cui sottotitolo promette meno di quello che invece poi offre e non esaurisce la sua prospettiva nella storia locale – un’ottima messa a punto di tutto quanto è stato aggiunto in tema di psichiatria, fascismo e antifascismo da Annacarla Valeriano, Marco Rossi e Matteo Petracci, Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano, i cui tre volumi sono stati oggetto di recensione in questa rivista[x]. Nella prospettiva più locale, ci presenta la figura di uno psichiatra resistente, Raimondo Lacchin (“Chirurgo Glucor”), il quale quando era studente di medicina operò sul Cansiglio nel contesto della grande divisione partigiana garibaldina “Nino Nannetti” dove divenne il comandante della brigata “Ciro Menotti”. Nel dopoguerra sarebbe diventato il direttore della Succursale psichiatrica dell’Ospedale Psichiatrico di Udine a Sacile, per altro non costituendo, ad avviso dell’Autore, un esempio di innovazione sul piano clinico. Più numerosi i casi di protagonisti del movimento operaio friulano che dopo aver subito vessazioni per la loro attività politica sono entrati in contatto con la psichiatria. Come Cesare Pozzo, ferroviere e sindacalista nativo di Serravalle Scrivia passato per il mazzinianesimo, l’anarchismo e approdato al socialismo, ammalatosi di nevrastenia e morto suicida a Udine il 15 maggio 1898 a seguito delle perquisizioni subite e del timore di maggiori vessazioni nei giorni della durissima persecuzione umbertina del movimento operaio e della repressione guidata da Bava Beccaris a Milano. O Enrico Fornasotto, maestro e avvocato socialista di Sacile, morto il 3 marzo 1923 presso il reparto dozzinanti del manicomio di Udine dov’era ricoverato da qualche mese per problemi organici, i cui timori di un acuirsi della repressione politica venivano scambiati dai medici per temi deliranti. O altri casi ancora, nei quali le pesanti condizioni di vita imposte dal regime agli oppositori e alle loro famiglie, insieme a dure esperienze detentive, hanno determinato il trasferimento, in un caso anche senza uscita, in ospedale psichiatrico.
Ancora del ventennio fascista tratta Medici e medicina durante il fascismo di Giorgio Cosmacini (Pantarei, 2019). Tra i temi il corpo del duce, l’immagine salutista e le malattie che la storia gli ha (soprattutto nella disgrazia) provato ad attribuire, la politica igienica del regime, trattata con grande competenza, soprattutto sui tre fronti della lotta alla malaria, alla tubercolosi e alla sifilide, l’organizzazione corporativa, le mutue, l’università e la ricerca, del culto della salute, della stirpe, il pronatalismo e la particolare forma – autoritaria comunque ma meno violenta che altrove – che l’eugenetica assunse in Italia. E poi ancora gli aspetti di storia sanitaria in tre ambiti particolari: il carcere, la razza, con le pesanti responsabilità di alcuni medici nelle politiche razziste del regime e altri colleghi che ne furono vittime, la guerra, che vide testimoni sui vari fronti dei suoi nefasti effetti molti medici. Sul finale, è interessante l’analisi della vicenda delle epurazioni dei medici fascisti dopo la Liberazione, che ebbe in molti casi, come del resto in altri campi della vita pubblica, effetti di assai breve durata. Tra gli psichiatri mi pare di avere incontrato solo Morselli, Donaggio, Cerletti e Weiss, e credo che altri come almeno Balduzzi, Mercurio o Lippi Francesconi avrebbero meritato un ricordo. Tra altre figure di medici, molte delle quali più o meno direttamente compromessi col regime, incontriamo Edoardo Maragliano (il cui reale contributo scientifico mi pare un po’ ridimensionato rispetto alla vulgata corrente, almeno a Genova), Luigi Mangiagalli, Vito Massarotti, Nicola Pende (che fu l’artefice dell’ortogenetica del regime, e fu coinvolto con Donaggio nella vicenda del Manifesto degli scienziati razzisti[xi]), Agostino Gemelli, Pietro Rondoni, Carlo Foà e Tullio Terni, con la complessa e tragica vicenda che lo ha riguardato in quanto fascista ed ebreo. Tra i medici costretti a interrompere le loro ricerche per ragioni raziali, il neurofisiologo Giuseppe Levi, padre di Natalia Ginsburg e maestro di Rita Levi Montalcini e Renato Dulbecco, e gli igienisti Donato Ottolenghi e Alessandro Sepilli, padre di Tullio, o il medico legale Attilio Ascarelli che aderì alla Resistenza. Colpiscono e commuovono le testimonianze di vita carceraria riportate a proposto dello studente di medicina comunista Francesco Scotti, la durezza del carcere e i momenti di scoramento, l’essere la follia e la tubercolosi le due malattie che vi sono più drammaticamente diffuse, la solidarietà e l’esempio dei compagni più maturi. E poi, dopo la scarcerazione, la guerra di Spagna a difesa della Repubblica, la Resistenza e la rinuncia agli studi medici per la politica che lo portò ad essere costituente, dirigente del PCI e a giocare però, forse proprio per quella prima vocazione che le circostanze lo avevano poi costretto ad abbandonare, un ruolo importante nella lotta per la costruzione del SSN.
La vicenda di Sacchi, con i suoi spaccati di vita carceraria, ci introduce al volume seguente che consideriamo, e che ho davvero molto amato leggendolo: Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degli antifascisti, a cura di Patrizio Gonella e Dario Ippolito (Edizioni dell’Asino, 2019). In esso è riproposto a quasi settant’anni di distanza il numero monografico pubblicato dalla rivista «Il ponte» nel marzo 1949 dal titolo «Carceri: esperienze e documenti», nel quale Piero Calamandrei raccoglie testimonianze di antifascisti che conobbero il carcere per esperienza diretta come base per la proposta di una commissione d’indagine sulle carceri e di una riforma penitenziaria. I testimoni sono Vittorio Foa, Altiero Spinelli, Calo Levi, Mario Vinciguerra, Lucio Lombardo Radice, Augusto Monti, Giancarlo Pajetta, Leone Ginsburg – del quale è uscita quest’anno la biografia L’intellettuale antifascista di Angelo d’Orsi (Neri Pozza) – Adele Bei, Riccardo Bauer, Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini, Luciano Bolis, Pasquale Marconi, Ester Parri, Francesco Fancello, Vincenzo Baldazzi, Emilio Lussu, Michele Giua; alcuni di essi propongono testi sostanzialmente anedottici, mentre altri propongono riflessioni importanti e profonde sul carcere che poco sembra cambiato dai tempi in cui nel 1904, ne parlava in Parlamento Filippo Turati, agli anni del fascismo, a quelli del dopo guerra, e anche ad oggi, sostengono i curatori del prezioso volumetto.
Al centro degli interventi le condizioni materiali di detenzione, con lo scarso igiene a far da protagonista assoluto, la psicologia della detenzione nei suoi rapporti con la temporalità, la spazialità, le relazioni di potere, le prospettive di abolizione o di riforma.
Vinciguerra si sofferma in particolare sulla questione della sanità in ambito penitenziario per osservar che: «due sono le categorie di mali che mietono nel penitenziario: la follia e la tubercolosi» (p. 57). E per rilevare, a proposito della prima, la palese iniquità dell’art. 148 C.P., che vuole che per il malato di gravi malattie mentali non sia prevista la sospensione della pena come per quello di gravi malattie del corpo, ma l’invio al Manicomio criminale, e c’è da riflettere sul fatto che al superamento di questa norma palesemente ingiusta si sia giunti solo con la sentenza n. 99 della Corte Costituzionale del 1 aprile 2019, dopo che era stata la chiusura dell’OPG a rendere inapplicabile quella soluzione. E anche gli aneddoti carcerari proposti dall’economista giellino Ernesto Rossi, sempre in ambienti fetidi e infestati da cimici, si fanno più interessanti per noi quando riguardano l’incontro con la pazzia e la simulazione. O la testimonianza dell’operaia comunista Adele Bei si fa più appassionata quando affronta il tema del letto di forza.
Da parte di questi uomini e donne, che hanno appena liberato l’Italia per farne un Paese migliore, non mancano proposte di riforma penitenziaria che, se da una parte guardano in qualche caso in prima battuta alla prospettiva coraggiosa dell’abolizione del carcere che sarebbe stata rilanciata in Italia negli anni ’80 dal movimento guidato da Mario Tommasini, in generale si misurano con la realtà della sua esistenza con molto pragmatismo. Chi auspica un miglioramento del carcere sotto il profilo dell’igiene e delle condizioni materiali di vita, chi un drastico generale accorciamento della durata delle pene, magari associato a un loro inasprimento, chi una qualche forma di diminuzione dell’impressionante sproporzione tra il potere di chi sorveglia e quello di chi è sorvegliato, chi maggiori opportunità di lavoro e di studio, chi la maggiore formazione del personale e chi una drastica evoluzione della pena in senso marcatamente trattamentale. In ogni caso, il giudizio sul carcere italiano per come lo si è conosciuto negli anni del fascismo e come è ancora in quel 1948 è decisamente negativo. Ho proposto una recensione più completa del olume alla Rassegna Italiana di Criminologia.
Patrizia Guarnieri ha aperto un portale a cura della Firenze University Press intitolato Intellettuali in fuga dall’Italia fascista. Migranti, esuli e rifugiati per motivi politici e razziali, dove sono, e in parte saranno, ricostruite le biografie dei protagonisti di questo fenomeno; non mancano alcuni psichiatri e psicoanalisti.
Segnalo, ancora, l’uscita in questi giorni del volume Storia e psichiatria. Problemi, ricerche, fonti a cura di Fabio Milazzo e Gaetano Mamone (Biblion, 2019), al quale ho contribuito con un saggio a quattro mani con Simonetta Ottani sulle fonti per la storia della psichiatria genovese e i relativi problemi di conservazione e consultazione. Tra gli autori: Andrea Scartabellati, Oscar Greco, Elisabetta Benetti, Gerardo Favaretto, Manoela Patti, Erika G. Di Cara, Francesca Brencio, Fabio Milazzo, Gaia Manetti, Andrea Sortino, Graziano Mamone, Filip Čeč e Vanni D’Alessio, Laura Occhini, Stefania Ferraro, Elena Cennini, Francesca Mambrini, Simonetta Ottani e Paolo F. Peloso, Vera Fusco, Veronica Bagnai Losacco.
E ricordo quella del volume Una casa di custodia per maniaci pericolosi. Storia del manicomio di Racconigi dalle origini al fascismo (1871-1930) scritto ancora da Fabio Milazzo e pubblicato a cura dell'Istituto Storico della Resistenza di Cuneo (Primalpe, 2019).
Il contesto sociale contemporaneo: disuguaglianze, neocolonialismo e fenomeni migratori nella prospettiva globale
Francesco Bottaccioli si è già occupato su questa rivista di Le radici psicologiche della disuguaglianza, scritto da Chiara Volpato (Laterza, 2019), sul quale perciò non ritorno limitandomi a rinviare a quel contributo con il link.
Si parla di diseguaglianze nel contesto globale[xii] anche nel volume collettaneo, curato da Emilio Di Maria (del quale in questa rubrica abbiamo presentato il volume collettaneo Noi e altri[xiii]) per Genova University Press, Health right across the Mediterranean – tackling inequalities and building capacities (Il diritto alla salute attraverso il Mediterraneo – affrontare le disuguaglianze e promuovere le capacità). Il volume ha al centro il “diritto alla salute”, o almeno il diritto ad avere a disposizione la migliore assistenza sanitaria possibile, che qui viene inteso – sull’esempio della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 1946 – come uno dei diritti umani fondamentali. E individua nel Mediterraneo un’area di particolare interesse, sia perché divenuto di fatto uno dei confini dove la differenza tra il nord e il sud del mondo è più netta, sia per i flussi migratori che da una ventina d’anni lo attraversano, con esiti spesso drammatici.
Si apre coinvolgendo su aspetti di carattere generale che vanno dalla relazione tra diseguaglianze e salute, a quella tra salute e situazioni di vulnerabilità, a partire dalla condizione migratoria, alle interconnessioni imprescindibili tra salute, ambiente, sviluppo e pace esperti del livello di Sir Michael Marmot che ha introdotto il concetto di “Health gap” e promosso lo studio dei determinanti sociali di salute, Santino Severoni, da anni impegnato nell’OMS, Grammenos Mastrojeni, esperto di cooperazione internazionale per il governo italiano. E prosegue affrontando alcuni temi specifici, dalla mediazione linguistica e culturale in campo sanitario, della quale sottolinea il carattere di interdisciplinarità, con Raga Gimeno, De Luise e Morelli, Dell’Aversana e Bruno; alla diversa resistenza agli antibiotici nelle popolazioni, con Giacobbe e Viscoli; alla relazione, che si vuole il più possibile stretta, tra cooperazione internazionale e ricerca in sanità pubblica, affrontata da Ferrelli; all’Health Technology Assessment, uno strumento di governance la cui importanza nell’allocazione appropriata delle risorse è discussa da Cardinale e Flego, del quale abbiamo recensito un importante diario sui giorni del genocidio ruandese[xiv]. Chiude il volume un’esperienza, illustrata da Griso, di corridoi umanitari volti ad assicurare cure in Italia a vittime della guerra siriana rifugiate nel Libano.
Complessivamente, mi pare che la strada per migliorare il livello globale di salute passi per interventi diversi, ma non possa prescindere dalla necessità di affrontare le disuguaglianze e sostenere per prime le popolazioni che presentano un grado più alto di vulnerabilità, come i migranti; su questa strada i tecnici sembrano concordi, ma la scelta se imboccarla o meno non può che essere, credo, di natura politica. La pubblicazione è open access e la versione e-book del libro può essere scaricata gratuitamente al link.
A proposito di diseguaglianze, e marcate, in quella che è a tutti gli effetti una situazione coloniale ricordo Dietro i fronti. Cronache di una psichiatra psicoterapeuta palestinese sotto occupazione Samah Jabr (Sensibili alle Foglie, 2019) nel quale è documentato, attraverso una casistica di impressionanti traumi individuali collocati tra 2003 e 2017, il trauma collettivo di un popolo costretto a vivere sotto occupazione la distruzione dei villaggi, l’esproprio sistematico delle terre e delle case, le incarcerazioni di bambini e adolescenti, il lungo stillicidio di feriti, morti, mutilati, le quotidiane frustrazioni e ingiustizie, la povertà e la disoccupazione dilaganti che, insieme al trauma psicologico transgenerazionale che segna la memoria collettiva palestinese, costituiscono il prezzo di una disperata resistenza.. Per Jabr, che si colloca con la sua testimonianza di terapeuta dei dannati nel solco di riflessione inaugurato da Frantz Fanon, psichiatria e psicoterapia non possono guarire le persone oppresse senza contemplare nella propria etica professionale la lotta per la giustizia e i diritti umani come elementi essenziali alla salute mentale. In questo difficile contesto la mente può trova elementi per una possibile resilienza nella solidarietà tra oppressi, nella capacità di sentire l’appartenenza a una causa comune e nella possibilità che la sofferenza e l’ingiustizia trovino testimoni in grado di raccontarle.
E poi ancora Si chiamava Palestina. Storia di un popolo dalla Nakba a oggi di Cecilia Dalla Negra (Aut Aut, 2018), nel quale viene ricostruita l’occupazione sionista del territorio palestinese già oggetto dei pregevoli studi di Ilan Pappé e di altri in questi anni.
Numerosi sono gli studi, infine, che anche quest’anno hanno per oggetto i fenomeni migratori. Cito per primo un testo che ha avuto larga diffusione, Il mondo che vogliamo di Carola Rackete (Garzanti, 2019), la capitana della Sea Watch resa celebre dal suo approdo a Lampedusa molestato dalla crudeltà e dall’insipienza dell’allora Ministro dell’Interno italiano a caccia di visibilità e di facile consenso, approdo del quale ci siamo già occupati in questa rubrica[xv]. Nel testo Carola racconta dal suo punto di vista i passaggi e le motivazioni personali della vicenda, ed è un racconto fluido e in molti passaggi emozionante. La sue ragioni sono semplici, e stupisce come possano trovar tante obiezioni: se ci sono persone che annegano, occorre fare tutto il possibile per raccoglierle vive; e una volta raccolte su una barca, occorre fare il possibile per sbarcarle. Diceva un tempo Che Guevara a chi, come me, allora era bambino o adolescente: «Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo». Dal suo racconto si avverte che Carola si sente decisamente vincolata a questo impegno, e di fronte all’ingiustizia si sente interpellata in prima persona e non si tira indietro. Si tratta di sentirsi parte di una grande famiglia, quella umana, e di vivere l’umanità e il suo pianeta come propri e Carola riesce a trasmettere con grande chiarezza questa sua impostazione. Che è inconcepibile per chi si preoccupa solo di se stesso o al più della sua famiglia, i suoi amici, la sua proprietà (da difendersi, magari, sparando), dei noi senza/contro i loro. Certo sono invece meno scorrevoli alla lettura e appassionanti, ma comunque importanti, le pagine nelle quali non rinuncia ad esporre con insistenza la sua idea che i fenomeni migratori siano collegati in modo indissolubile al cambio climatico ed estende la sua sollecitudine per le donne, gli uomini e i bambini strappati alle onde all’unico pianeta che abbiamo, noi e loro e le future generazioni, per viverci.
Siamo ancora in tema di migrazioni con A casa loro, monologo teatrale di Giulio Cavalli e del giornalista di Avvenire Nello Scavo (People, 2019), i cui reportage dai lager della Libia e non solo. raccontano povere storie di uomini braccati sui confini, segregati nei campi, abbandonati a morire tra le onde. E ricordo, ancora, altri nove volumi pubblicati nel 2019 che hanno a che fare in modo diverso con la questione migratoria:
il primo è Governare la crisi dei rifugiati. Sovranismo, neoliberismo, razzismo e accoglienza in Europa di Miguel Mellino (Deriveapprodi);
il secondo La legge del mare. Cronache dei soccorsi nel mediterraneo di Annalisa Camilli (Rizzoli);
il terzo si sforza di guardare, per una volta, l’Europa con gli occhi dei migranti, ed è Luci in lontananza di Daniel Trilling (Marsilio);
il quarto Diritto all’immigrazione. Manuale in materia di ingresso e condizione degli stranieri in Italia di Emanuele Zanrosso (Ed. Giuridiche Simone), ed è un preziosissimo testo giuridico volto a fare chiarezza sulla complessa normativa che regola l’accoglienza dei migranti nel nostro Paese;
il quinto, prevalentemente fotografico, In mare non esistono taxi di Roberto Saviano (Contratto); il sesto è Io sono confine dell’iraniano Sharam Khosravi (Eleuthera) sull’inadeguaatezza della nozione di confine rispetto all’attualità globale a partire dalla propria esperienza di migrante;
il settimo è dedicato alle migrazioni italiane in Svizzera Cacciateli! Quando i migranti eravamo noi di Concetto Vecchio (Feltrinelli). l’ottavo all’identità italiana, un oggetto col quale è pericoloso trastullarsi per i rischi di scivolamento e deriva che presenta ed è Contro l’identità italiana di Christian Raimo (Einaudi); il nono La menzogna dell’identità, di Kwame Anthony Appiah (Feltrinelli).
E credo che infine meritino un cenno ancora altri tre volumi dedicati a temi limitrofi e ora disponibili in italiano: Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia di Achille Mbembe (tradotto da G. Lagomarsino per Laterza), la cui opera principale, Necropolitica, abbiamo recensito su questa rivista in occasione della sua uscita italiana[xvi]. Al centro di questo nuovo volume la crisi delle democrazie liberali di fronte al farsi visibile, ineludibile negli stessi territori metropolitani della violenza coloniale un tempo proiettata altrove, e ora invece testimoniata nei corpi di un’umanità di scarto destinata a smentire, nel suo tragico scontro coi muri e le frontiere che le opponiamo, ogni possibile retorica di un umanesimo o di valori occidentali. E la possibilità, forse, di attingere ad altre fonti, le tradizioni di quell’Africa un tempo ritenuta priva di civiltà e di cultura, gli elementi per la costruzione di un diverso umanesimo nuovo, fondato non sull’identità ma sulla relazione, la reciproca implicazione, su una concezione insomma dello spazio come luogo al quale ha diritto chi si trova ad attraversarlo e del rapporto con l’altro e con la natura diverso dalla ricerca dello sfruttamento.
E poi ancora The black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza di Paul Gilroy, tradotto da Miguel Mellino e Laura Barberi per Meltemi;
Le vite ineguali. Quanto vale un essere umano di Didier Fassin, tradotto da Lorenzo Alunni per Feltrinelli.
Sono molti, quindi, i libri usciti tra la fine dell’anno scorso e quest’anno che possono interessare e spero di aver contribuito con le poche parole di presentazione che ho potuto dedicare a ciascuno di essi a diffonderli. Indubbiamente, su qualcuno occorrerà ritornare nel corso del 2020. Se un’Italia, e un mondo, migliori saranno possibili forse dipende anche un po’ dalla circolazione delle idee che questi testi esprimono, dirette alla testa e al cuore – e non alla pancia – di chi legge.
Nel video allegato: San Nicolò, il villaggio manicomiale di Siena
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