resiste, s’ostina, povero untore.”
(Giovanni Raboni)
Allo scadere del termine, la violazione della regola sa’ di piccola presa della Bastiglia.
“Le devo confessare questa settimana ho violato la legge, l’ho violata per amore, per amicizia”.
Per raggiungerti, per raggiungerla, per raggiungerlo.
La colpa per il superamento del confine viene annientata da Eros che sa’ il fatto suo.
Il fatto e’ che sulla paura prevale il desiderio di vivere.
Il primo abbraccio tra amiche, una sigaretta a due metri di distanza.
I ricordi della nostra sopravvivenza ad un passato che era già isolamento.
Noi ci siamo salvate perché in due contro un sistema che vietava la nostra libertà di esistere a modo nostro.
E il nostro era un vero isolamento dal mondo infetto degli adulti che mostrava una vita non vita, regole impossibili da sostenere. Facciate.
Prima ci siamo abbracciate come a dirci siamo ancora qui, scampate alla morte.
Noi non possiamo vivere senza questo abbraccio, senza questa intesa.
E poi l’amore quella cosa difficile da nominare, quella cosa difficile da credere.
Come e’ stato rincontrarsi?
Paura di non riconoscersi. Paura di essere cambiati nel corpo. Paura di non piacerti.
Il primo abbraccio, il primo bacio, il primo sguardo.
Sei sciupato, sei in forma, sei dimagrito, sei ingrassata, guardami.
Tutto uguale, tutto diverso.
E’ cambiata la spinta che nel contatto diventa accelerazione.
La realtà dei corpi, della voce si fa materia irresistibile, imprescindibile. Non puoi più farne a meno e li’ ti rendi conto dello sforzo inumano della recisione del contatto.
L’isolamento forzato ha richiesto un movimento straordinario di controllo sulle emozioni, sugli affetti, sul corpo. Ma la violazione della legge sullo scadere del tempo dice, come nella più bella favola d’amore, che all’alba vincerà.
Vince il bisogno di essere intimi, quella straordinaria possibilità di contatto tra ferite sfregi imperfezioni dolori brutture.
Leccarsi le ferite è il gesto di Eros. La saliva cicatrizza, impasta batteri ad anticorpi.
Non ci interessa cosa accade, tanto prima o poi si riparte.
Violare la legge dell’isolameto e’ stato anche riassaggiare ossigeno puro, euforizzante, che lascia spazio ad un “mai piu come prima”.
C’è un prima e un dopo.
Un dopo che non si sa. Un dopo imprevedibile.
Un lungo continuo presente.
Un tempo senza tempo.
Un tempo piu’ lungo.
Stanchezza, rallentamento, tristezza, rabbia stanno prendendo piede. La consapevolezza della perdita di un suono routinario che da’ cadenza e scadenza. Rassicurante, mortifero.
La sensazione di non poter contare su grandi sistemi ma su piccole forze, le nostre.
Ancora una volta ripartire da capo per sedare quell’illusione effimera di poter essere padroni a casa nostra.
Uscire da una reclusione è affrontare un lutto.
Si cambia, ci cambia la perdita di una persona, di un’idea, di noi stessi.
E allora la fase della stanchezza, della spossatezza , del pianto, della follia è appena iniziata.
Solo ora possiamo sentire gli effetti, quelli delle grandi occasioni.
Qualcuno si domanda se sia mai accaduto se non sia stato tutto esagerato.
Ma la verità sta’ nel corpo.
Astenia, anedonia, cefalee, congiuntiviti, mal di gola, insonnia, dolori articolari.
E pianto senza nesso. Pochi sogni.
Nessuno sogna.
Il corpo narra l’accaduto è semplicemente memoria. Il corpo non mente.
Qualcosa di importante ci è piombato addosso. Non siamo piu noi, ma siamo gli stessi.
Un lutto, una perdita collettiva di un intero meccanismo che teneva in piedi il nostro sistema.
Il sistema del fare e’ sempre stato fallimentare sul sistema inconscio\. Il tempo speso nel pensare presenta i suoi frutti e fa pagare i conti salati a chi del ritmo folle fa alibi per non occuparsi del senso della vita.
E quale è allora il senso di vivere in fondo se non rimanere in intimo contatto con sé stessi e con gli altri.
Ci vuole tempo per sentirsi ed ascoltarsi, tempo giusto.
Ci vogliono domande giuste, luoghi adeguati.
Le domande di senso non sono la ricerca della felicità’ ma sono semplicemente la capacita’ di orientarsi nel caos, il piacere dell’intraprendere una direzione che è inversione della rotta.
Ed e’ arrivata anche l’angoscia.
Mare in attesa di orizzonte.
Cielo che precede le stelle.
Ogni cambiamento reale della nostra vita e’ avvenuto perché c’era lei!
Che ne sarà di noi?
Che ne sarà dopo di noi.
Angoscia
È forse possibile che Lei mi faccia perdonare le ambizioni di continuo calpestate, – che una fine fra gli agi compensi i periodi di povertà, – che un giorno di successo ci faccia dimenticare la vergogna della nostra fatale inettitudine?
(O palme!, diamante! – Amore, forza! – più grande di ogni gioia e di ogni gloria! – in ogni modo, dovunque, – demone, dio, – Giovinezza di questo essere: io!)
Che gli incidenti della fantasmagoria scientifica e dei movimenti di fratellanza sociale siano bene accetti come progressiva restituzione della libertà primitiva?…
Ma la Vampira, che ci rende gentili, ci impone di divertirci con quello che lei ci lascia, o altrimenti di essere più buffi.
Rotolare verso le ferite, attraverso l’aria spossante e il mare, verso i supplizi, attraverso i silenzi delle acque e dell’aria che uccidono; verso le torture che ridono, nel loro silenzio atrocemente agitato.
ARTHUR RIMBAUD (1854 – 1891), Angoscia, da Illuminazioni (1873-1875, in «La Vogue», maggio-giugno, nn. 5-6-8-9, Parigi 1886, in volume con l’introduzione di Paul Verlaine, La Vogue, Paris novembre 1886), in ID., Tutte le poesie, introduzione di Gianni Nicoletti, cura e traduzione di Laura Mazza, Newton Compton, Roma 2012 (III edizione, I edizione 1972), p. 301.
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