L’assenza della vera politica, quella che media tra bisogni e desideri, tra apparati statali e società civile e tra istituzioni, lavoro e cultura, riflette la restrizione inesorabile degli spazi di partecipazione. Nel 1973 Gaber scrisse quattro bei versi (ricordo impallidito di un’altra stagione). I primi tre illustravano il quarto (sopravvissuto, solitario, come slogan):
"La libertà non è star sopra un albero/ Non è neanche il volo di un moscone/ La libertà non è uno spazio libero/ Libertà è partecipazione."
Non si è liberi quando si guarda la vita dall’alto in basso, dal proprio angolo, senza prenderne parte. Oppure quando ci si libra in aria, si fa il bagno in una grande spiaggia vuota, si cammina sulle dune del Sahara. Non sono gli eremiti e gli scalatori di montagne gli esseri più liberi tra di noi. I sogni in cui si vola possono esprimere il desiderio di esplorare la realtà, sorvolare il mondo a volo d’uccello, scoprire prospettive inusuali. Possono, tuttavia, mettere in scena anche la fuga nell’evasione, l’astrazione della vita trasformata in un ideale di elevazione spirituale, l’identificazione con una madre alata che si allontana dalla congiunzione erotica con il padre.
La solitudine può essere capacità di stare bene con se stessi, premessa della libertà che dialoga con la mancanza dell’altro e prende le misure della reciproca differenza. Può essere pure estraniazione, desolazione senza fine. Decidono la sua apertura ai legami o la sua chiusura ad essi. Ci si può davvero sentire liberi solo dentro i legami, nell’incontro tra differenze che mette in movimento il desiderio, nell’uscire da sé che è la forma più piena della presenza in sé. La partecipazione, come libertà, è la capacità di essere in compagnia degli altri quando si è soli -tenere inoperoso ma vivo il legame con loro- e essere soli quando si è in compagnia: appartenere alla propria intimità e alla propria individualità mentre si è immersi nelle relazioni di scambio.
La restrizione della partecipazione colpisce la società civile nel suo punto più nevralgico: il legame tra i luoghi in cui la cultura vive, respira nella convivialità e i luoghi di lavoro. Questo legame non è fatto solo di sinergie, di passaggi, di snodi, di scambi. La sua “materia” è l’uso colto, sapiente, desiderante, trasformativo -che implica confronto e condivisione-dei beni culturali e materiali che il lavoro produce per rendere soddisfacente, fonte di godimento profondo, il vivere. L’uso realmente godibile dei beni è inscindibile dall’uso creativo dei mezzi di produzione, dal lavoro come esperienza significativa e appagante di immaginazione, di sperimentazione, di conoscenza, di elaborazione dei propri sentimenti e delle proprie idee.
Il lavoro è pathos, desiderio di trasformazione della materia su cui opera. Sa soffrire, aspettare, farsi sorprendere, inventare nuovi percorsi, scoprire spazi nuovi. Operando sulla materia che trasforma il soggetto del lavoro la rende “viva”: la fa entrare nel mondo delle relazioni umane, la inserisce nelle loro trame, espande la portata dei sensi, affinando il sentire e il pensiero, e rende complesso è profondo il senso dell’esistenza. In questo modo produce partecipazione: la libertà che gli assegna l’espressione della propria differenza nel legame necessario con le altre differenze.
La fatica produttiva che segue “protocolli” e, nel produrre, crea automi, non è lavoro, elaborazione, operare trasformativo. Partorisce cose morte nelle loro reali possibilità di uso, promuove l’astensione dalla vita. La politica che se ne distrae è un fantasma riflesso nel proprio vuoto.
Non c’è libertà senza
Non c’è libertà senza l’altro.