In altra sede ho cercato di affrontare il problema del rimaneggiamento in adolescenza, ed in particolare quello relativo all'ulteriore rimaneggiamento post-adolescenziale all’interno di una società che tende a procrastinare, spesso sine die, l’ingresso a pieno titolo del neo-adulto nella nuova dimensione della propria esistenza, mantenendolo in una specie di limbo pre-adulto.
Poiché convivo ed opero dall’inizio degli anni 90 con giovani psicologhe tirocinanti o appena entrate nel mondo della professione (uso il femminile perché nel 95% si tratta di donne), la mia attenzione si va sempre più concentrando su di loro e sul loro rapporto con l’Ordine e, più in generale, con la sempre più vasta platea degli psicologi e delle psicologhe più anziane.
È noto che il percorso di professionalizzazione di queste giovani colleghe è ormai lunghissimo e che – come mostrano le statistiche – al fondo di questo percorso il destino per molte di loro è quello della disoccupazione o della sottoccupazione.
Meno noto, soprattutto all’esterno della professione, ma da me già affrontato in questa rubrica, è il legame di tipo predatorio che l'Università, l’Ordine, le scuole di specializzazione e molti colleghi più anziani tendono ad istituire con loro. Predisponendo la maggior parte di esse ad un destino di vittime, ed una minima porzione ad uno di tipo ancillare incentrato su stili di adattamento basati – per dirla con Goffman – sulla colonizzazione e la conversione.
Ebbene ritengo che sia la propensione a disporsi come vittime, sia quella a lasciarsi colonizzare e a disporsi come kapò della situazione, meritino una riflessione particolare, dato il carattere di permanenza del fenomeno che nessun dato di realtà riesce ad intaccare.
Questa discrepanza fra sogno e realtà mi induce a pensare che evidentemente gli ideali megalomanici adolescenziali, che sicuramente erano stati alla base della scelta del percorso di laurea in psicologia, siano ancora così imperanti da contraddire quel “Sognavo di essere Freud e mi sono svegliata Billy il Coyote” che fa da titolo al bel libro sull’ingresso nel mondo della professione di psicologo di quel gruppo di giovani colleghe e colleghi che si nascondono dietro al nome – significativamente femminile – di Aixa Proxima.
L’ipotesi che faccio è che per quella massa di colleghe e di colleghi il rimaneggiamento, cioè il processo di deidealizzazione che conduce dal sogno al progetto stenti ad emergere per tutta la durata degli studi, fino al termine della frequenza delle scuole di specializzazione; e cioè fino al loro ingresso postumo nel mondo del lavoro, allorché, finalmente e quasi improvvisamente, la casa di marzapane verso la quale pensavano di andare, non si rivela come un claustrum scalcinato dal quale diventa difficile uscire.
Per cui il passaggio, da un mondo interno che opera sotto la spinta dell’Ideale dell’io megalomanico adolescenziale, ad uno che accetta autoriparativamente i propri limiti, rinuncia al sogno (di essere Freud) e si dispone a operare come Billy il Coyote, viene procrastinato.
Anche se, a ben vedere, qualcosa interviene lungo questo percorso che dura oltre undici o dodici anni: qualcosa che non porta però ad un atteggiamento autoriparativo, ma piuttosto ad una coniugazione dell’Ideale dell’Io megalomanico dapprima con la vastità e la grandiosità astratta dei piani di studio; e in un secondo tempo – all’epoca dell’iscrizione all’albo ed alle scuole di specializzazione – con l’attesa grandiosa di essere in procinto di entrare in un club esclusivo.
Con un intermezzo all’interno dei luoghi di tirocinio che non riesce a squarciare il velo che presentifica e cela nello stesso tempo la cruda realtà quotidiana dell’esercizio delle professione in Italia; e non lo fa per un insieme di motivi che magari vedremo più articolatamente in altra occasione, ma che sicuramente ha il suo fondamento nella vera e propria deiezione con cui è trattato il tirocinio dall’università.
L’ingresso a pieno titolo nella corporazione infine contribuisce – direi definitivamente – alla calcificazione caricaturale dell’Ideale dell’Io megalomanico. Alla pantomima del sogno. Poiché dà la sensazione al neofita di appartenere definitivamente a un club esclusivo, il cui accesso è costato tanta fatica e tanti soldi. E dentro al quale ci si va a rinchiudere come all’interno di una istituzione totale che lascia al massimo la possibilità di scegliere lo stile di adattamento che più si addice all’internato: dalla conversione e dall’entusiasmo istituzionale alla colonizzazione, fino a quel 'prendersela con calma' che sembra – come dice Goffman – una soluzione, ma che uccide la creatività e l’individuazione.
Come nel film di Buñuel “L’angelo sterminatore” tutti i membri che la compongono vivono la corporazione come un claustrum dal quale risulta impossibile uscire; anche se tutte le porte sono aperte in direzione di un mondo esterno in cui pulsa la vita.
Nel mondo delle fiabe il claustrum allude ad un luogo incestuoso in cui spesso incombe la presenza di fantasmi genitoriali propensi alla predazione ed al cannibalismo. Allo stesso modo, penso, il combinato disposto (Ordine, Enpap, ‘scuolette’) che noi più anziani abbiamo messo in piedi in questi anni possa essere visto come un claustrum nelle cui stanze segrete istanze genitoriali incapaci di separarsi dai propri figli, ed anzi parassitariamente legate ad essi, li costringono – contro ogni evidenza – a rinunciare al proprio cammino autonomo e adulto.
La fiaba di Hansel e Gretel, ed ancor più quella di Barbablù, descrivono bene ciò che accade nelle segrete stanze del claustrum; e soprattutto come ciò che effettivamente accade venga ricoperto d’oro e marzapane. In entrambe le fiabe il processo di adultizzazione avviene ad opera delle vittime e dei loro fratelli; ed è contraddistinto dalla uccisione dei personaggi che rappresentano le istanze genitoriali cannibaliche e predatorie.
Nel territorio della Murgia dei trulli da cui provengo c’è una fiaba che ho raccolto tempo fa in cui un Orco che sembrava aver “fatto crescere” un’eroina (di nome Marangella) per mangiarsela, alla fine risulta invece averla allevata “perché sia pronta a sposare il figlio del re”.
Da tutte queste ‘storie’ emergono tante verità. Alcune inerenti il percorso di emancipazione e di adultizzazione della generazione che emerge. Altre invece alla ben più contraddittoria posizione della generazione che declina: che può cannibalizzare la nuova generazione condannandola a rimanere nelle segrete stanze del claustrum; oppure nutrirla per sostenere la sua crescita autonoma.
Poiché convivo ed opero dall’inizio degli anni 90 con giovani psicologhe tirocinanti o appena entrate nel mondo della professione (uso il femminile perché nel 95% si tratta di donne), la mia attenzione si va sempre più concentrando su di loro e sul loro rapporto con l’Ordine e, più in generale, con la sempre più vasta platea degli psicologi e delle psicologhe più anziane.
È noto che il percorso di professionalizzazione di queste giovani colleghe è ormai lunghissimo e che – come mostrano le statistiche – al fondo di questo percorso il destino per molte di loro è quello della disoccupazione o della sottoccupazione.
Meno noto, soprattutto all’esterno della professione, ma da me già affrontato in questa rubrica, è il legame di tipo predatorio che l'Università, l’Ordine, le scuole di specializzazione e molti colleghi più anziani tendono ad istituire con loro. Predisponendo la maggior parte di esse ad un destino di vittime, ed una minima porzione ad uno di tipo ancillare incentrato su stili di adattamento basati – per dirla con Goffman – sulla colonizzazione e la conversione.
Ebbene ritengo che sia la propensione a disporsi come vittime, sia quella a lasciarsi colonizzare e a disporsi come kapò della situazione, meritino una riflessione particolare, dato il carattere di permanenza del fenomeno che nessun dato di realtà riesce ad intaccare.
Questa discrepanza fra sogno e realtà mi induce a pensare che evidentemente gli ideali megalomanici adolescenziali, che sicuramente erano stati alla base della scelta del percorso di laurea in psicologia, siano ancora così imperanti da contraddire quel “Sognavo di essere Freud e mi sono svegliata Billy il Coyote” che fa da titolo al bel libro sull’ingresso nel mondo della professione di psicologo di quel gruppo di giovani colleghe e colleghi che si nascondono dietro al nome – significativamente femminile – di Aixa Proxima.
L’ipotesi che faccio è che per quella massa di colleghe e di colleghi il rimaneggiamento, cioè il processo di deidealizzazione che conduce dal sogno al progetto stenti ad emergere per tutta la durata degli studi, fino al termine della frequenza delle scuole di specializzazione; e cioè fino al loro ingresso postumo nel mondo del lavoro, allorché, finalmente e quasi improvvisamente, la casa di marzapane verso la quale pensavano di andare, non si rivela come un claustrum scalcinato dal quale diventa difficile uscire.
Per cui il passaggio, da un mondo interno che opera sotto la spinta dell’Ideale dell’io megalomanico adolescenziale, ad uno che accetta autoriparativamente i propri limiti, rinuncia al sogno (di essere Freud) e si dispone a operare come Billy il Coyote, viene procrastinato.
Anche se, a ben vedere, qualcosa interviene lungo questo percorso che dura oltre undici o dodici anni: qualcosa che non porta però ad un atteggiamento autoriparativo, ma piuttosto ad una coniugazione dell’Ideale dell’Io megalomanico dapprima con la vastità e la grandiosità astratta dei piani di studio; e in un secondo tempo – all’epoca dell’iscrizione all’albo ed alle scuole di specializzazione – con l’attesa grandiosa di essere in procinto di entrare in un club esclusivo.
Con un intermezzo all’interno dei luoghi di tirocinio che non riesce a squarciare il velo che presentifica e cela nello stesso tempo la cruda realtà quotidiana dell’esercizio delle professione in Italia; e non lo fa per un insieme di motivi che magari vedremo più articolatamente in altra occasione, ma che sicuramente ha il suo fondamento nella vera e propria deiezione con cui è trattato il tirocinio dall’università.
L’ingresso a pieno titolo nella corporazione infine contribuisce – direi definitivamente – alla calcificazione caricaturale dell’Ideale dell’Io megalomanico. Alla pantomima del sogno. Poiché dà la sensazione al neofita di appartenere definitivamente a un club esclusivo, il cui accesso è costato tanta fatica e tanti soldi. E dentro al quale ci si va a rinchiudere come all’interno di una istituzione totale che lascia al massimo la possibilità di scegliere lo stile di adattamento che più si addice all’internato: dalla conversione e dall’entusiasmo istituzionale alla colonizzazione, fino a quel 'prendersela con calma' che sembra – come dice Goffman – una soluzione, ma che uccide la creatività e l’individuazione.
Come nel film di Buñuel “L’angelo sterminatore” tutti i membri che la compongono vivono la corporazione come un claustrum dal quale risulta impossibile uscire; anche se tutte le porte sono aperte in direzione di un mondo esterno in cui pulsa la vita.
Nel mondo delle fiabe il claustrum allude ad un luogo incestuoso in cui spesso incombe la presenza di fantasmi genitoriali propensi alla predazione ed al cannibalismo. Allo stesso modo, penso, il combinato disposto (Ordine, Enpap, ‘scuolette’) che noi più anziani abbiamo messo in piedi in questi anni possa essere visto come un claustrum nelle cui stanze segrete istanze genitoriali incapaci di separarsi dai propri figli, ed anzi parassitariamente legate ad essi, li costringono – contro ogni evidenza – a rinunciare al proprio cammino autonomo e adulto.
La fiaba di Hansel e Gretel, ed ancor più quella di Barbablù, descrivono bene ciò che accade nelle segrete stanze del claustrum; e soprattutto come ciò che effettivamente accade venga ricoperto d’oro e marzapane. In entrambe le fiabe il processo di adultizzazione avviene ad opera delle vittime e dei loro fratelli; ed è contraddistinto dalla uccisione dei personaggi che rappresentano le istanze genitoriali cannibaliche e predatorie.
Nel territorio della Murgia dei trulli da cui provengo c’è una fiaba che ho raccolto tempo fa in cui un Orco che sembrava aver “fatto crescere” un’eroina (di nome Marangella) per mangiarsela, alla fine risulta invece averla allevata “perché sia pronta a sposare il figlio del re”.
Da tutte queste ‘storie’ emergono tante verità. Alcune inerenti il percorso di emancipazione e di adultizzazione della generazione che emerge. Altre invece alla ben più contraddittoria posizione della generazione che declina: che può cannibalizzare la nuova generazione condannandola a rimanere nelle segrete stanze del claustrum; oppure nutrirla per sostenere la sua crescita autonoma.
Nutrirsi parassitariamente dei giovani, o nutrirli perché procedano nel loro autonomo percorso di coniugazione e di crescita, questo è il dilemma! sta a noi psicologi più anziani scegliere. Sapendo che anche noi di tanto in tanto ci troviamo ad affrontare altri passaggi, che implicano la necessità di nuovi rimaneggiamenti.
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