Quando si parla dell’essere umano nella sua dimensione soggettiva, si usa spesso un linguaggio “evocativo”, che non descrive, ma evoca, rimandando ad esperienze vissute già note. Qui ogni singola parola condensa più di un significato; conta, inoltre, lo “alone associativo”, ossia l’insieme di idee e di sensazioni legati associativamente alla parola. Ancora: nell’evocazione di un vissuto, non è necessaria la coerenza, dato che, in gran parte del nostro mondo interno, è assente il principio di non contraddizione. Altra cosa è un linguaggio “descrittivo”, con cui s’intende comunicare con precisione fatti e concetti, anche quando si parla delle esperienze soggettive evocate. Qui il significato di ogni parola deve essere rigorosamente definito e unico. È d’obbligo, inoltre, essere coerenti, anche quando si parla di fatti in sé contraddittori, come i conflitti interiori e l’ambivalenza dei sentimenti.
L’uso più appropriato del linguaggio evocativo è quello che ne fa il Poeta, il cui compito è quello di comunicare esperienze interiori, mentre la riflessione su di esse è per lo più lasciata al lettore. Il linguaggio descrittivo, invece, è proprio dello Scienziato, quando si propone di descrivere approfonditamente ciò che avviene non solo nel mondo oggettivo, ma anche nella vita interiore.
Nella psicoterapia analitica (come in qualsiasi rapporto umano in cui ci si vuole capire) si passa continuamente da un linguaggio evocativo ad uno descrittivo e viceversa. Con il primo, traducendo le sensazioni in parole, si pensa e si comunica con lo scopo di comprendere intuitivamente (o aiutare a comprendere, o far capire che si è compreso) quel che provano le persone in una determinata situazione. Viceversa, occorre far uso di un linguaggio descrittivo quando, sulla base di quel che si è evocato, s’intende riflettere, definire e spiegare. Ovviamente, i termini tecnici saranno riservati ai soli “addetti ai lavori”, che li conoscono, ed andranno tradotti in parole universalmente comprensibili, quando ci si rivolge al “profano”.
Nella sezione del Canzoniere intitolata “Parole”, Saba c’illustra quel che avverte, quale eco interiore, in risposta a singoli “vocaboli-stimolo”. Ci offre, in questo modo, preziosi spunti di riflessione, utili quando facciamo uso di tali parole in un dialogo che si propone d’essere fecondo. Ho già parlato della prima poesia che compare in questa parte della raccolta (“Parole”, vedi l’articolo “Angoscia e parole” in: http://www.psychiatryonline.it/node/9123 ). Passo, ora, alla poesia intitolata “Ceneri”:
Ceneri di cose morte, di mali perduti, di contatti ineffabili, di muti sospiri;
vivide fiamme da voi m'investono nell'atto che d'ansia in ansia approssimo alle soglie del sonno;
e al sonno con quei legami appassionati e teneri ch'anno il bimbo e la madre, ed a voi ceneri mi fondo.
L'angoscia insidia al varco, io la disarmo. Come un beato la via del paradiso, salgo una scala, sosto ad una porta a cui suonavo in atri tempi. Il tempo ha ceduto di colpo. Mi sento, con i panni e con l'anima di allora, in una luce di folgore; al cuore una gioia si abbatte vorticosa come la fine. Ma non grido. Muto parto dell'ombre per l'immenso impero.
Le “ceneri” rappresentano metaforicamente le esperienze di cui, nella coscienza, è rimasto soltanto un residuo; e questo sia perché allontanate dalla coscienza stessa (“cose morte”, “mali perduti”) sia perché mai divenute pienamente coscienti (“contatti ineffabili”, “muti sospiri”), ossia esperienze mai tradotte in parole. Già nei primi versi, Saba ci propone un linguaggio che fa da “ponte” fra sensazioni confusamente avvertite e concetti psicoanalitici: precisamente quello freudiano di rimozione, e quello bioniano di “pensieri ancora privi di un pensatore”. A mio avviso sarebbe un grave sbaglio “saltare” dalla comunicazione verbale dell’interlocutore ad un’interpretazione espressa o pensata in termini tecnici, senza passare attraverso un’espressione di tipo poetico. Ciò comprometterebbe la partecipazione affettiva di chi ascolta e vorrebbe capire.
Consideriamo attentamente i versi che seguono: vivide fiamme da voi m'investono nell'atto che d'ansia in ansia approssimo alle soglie del sonno;
Approssimandosi il sonno, al di sotto delle ceneri riappare qualcosa di ardente e vivo, fonte d'angoscia)
e al sonno con quei legami appassionati e teneri ch'anno il bimbo e la madre, ed a voi ceneri mi fondo.
L'angoscia insidia al varco, io la disarmo…
Il Poeta ha imparato a “disarmare l'angoscia”: anziché fuggire dal sonno e/o dal sogno, egli vi si abbandona completamente, come un bambino fra le braccia della mamma.
…Come un beato la via del paradiso, salgo una scala, sosto ad una porta a cui suonavo in atri tempi. Il tempo ha ceduto di colpo. Mi sento, con i panni e con l'anima di allora, in una luce di folgore; …
Abbandonandosi all’esperienza regressiva del sonno, il Poeta può compiere un cammino a ritroso, al di fuori del tempo, ritrovando i vissuti anteriori alla comparsa dell'angoscia di separazione. È un'esperienza di beatitudine: quella dell'adolescenza e dell'infanzia nei momenti più propizi.
… al cuore una gioia si abbatte vorticosa come la fine. Ma non grido. Muto parto dell'ombre per l'immenso impero"
Andando ancora oltre, “muto”, perché si tratta di un'esperienza preverbale, il Poeta ritrova “l'immenso impero delle ombre”. È un'esperienza oceanica, fatta di “ombre”, ossia vissuta in una dimensione priva di corporeità (cioè anteriore alla comparsa dell’esistenza individuale, limitata dal corpo), e in cui “spazio e tempo non hanno ancora distrutto le cose” (Gustav Mahler).
In una cura, evidenziare e chiarire, traducendoli in parole, i progressi spontanei comparsi nel paziente è non meno importante del discutere sulla sua patologia. Saba, con questa poesia, in un linguaggio che parla al cuore (ed offre preziosi suggerimenti alla mente), c’illustra un’esperienza sana del sonno e del sogno. Si tratta del recupero di una possibilità di ristoro (di “emotional refueling”, come la definisce Margaret Mahler) che si può ottenere solo andando oltre le “ceneri”, e l’angoscia che le mantiene come tali.
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