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L’INIZIO DEL MESTIERE IMPOSSIBILE. ESPERIENZE DI GIOVANI TERAPEUTI. Recensione di Rita Corsa

24 Mar 22

A cura di Pierpaolo Martucci

Il volume che vado a recensire è un’opera collettanea, originale e assai ben orchestrata da Simone Maschietto e Secondo Donato Giacobbi, sul tema della formazione in campo psicoterapico d’orientamento psicoanalitico. Come vedremo, si tratta di un’iniziativa audace, sostenuta dalla casa editrice romana, Nuovi Orizzonti di Inconscio e Società (sezione Studi), che dimostra di essere in prima linea nella divulgazione di una psicoanalisi moderna, che non può prescindere dalla sua applicazione nella vita contemporanea. Come afferma Luciana La Stella, direttrice della collana Studi e autrice della Prefazione al libro, la chiave per leggere l’oggi è la multidisciplinarità, che consente di calare la soggettività nell’ambiente di vita, e ciò vale pure per lo psicoanalista al lavoro. Nella scia dell’insegnamento di Nancy, quando ribadisce che «non c’è “il” linguaggio, ma ci sono lingue, e parole, e voci» (2001), La Stella annota che, invero, l’addestramento psicoanalitico non può prescindere da un pensiero plurale, che consente di offrire la migliore garanzia di mantenimento della laicità della psicoanalisi (p. 18).
Il testo parla con le voci di alcuni analisti esperti, docenti presso la Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica Individuale dell’Adulto (SPP) di Milano, e di diversi giovani che sono ancora allievi dell’Istituto o da poco diplomati. E racconta delle difficoltà, degli intoppi, dei nodi critici affrontati dagli specialisti che iniziano a muovere i primi passi nella complessa bottega psicoterapica. Ma anche della curiosità e della passione che li anima e che li regge nel provarsi in un “mestiere impossibile”, come lo definiva lo stesso Freud.



Come spiega nella Presentazione Simone Maschietto, attualmente Direttore Scientifico della SPP lombarda, «la psicoanalisi è l’arte dello stare nel rapporto con i propri oggetti, compreso il proprio Sé» (p. 21), un’arte che si acquisisce sondando l’inconscio individuale mediante l’analisi personale, ma che è fatta specialmente di esperienza clinica maturata nel rapporto con il paziente e con i supervisori. Un’arte che abbisogna inoltre di tecniche e di modelli teorici e prassici, che vanno insegnati e che l’apprendista terapeuta deve imparare e, col tempo, saper maneggiare. Il «focus» di questo progetto editoriale, sottolinea ripetutamente Maschietto, «rimane la pratica psicoterapica», nell’hic et nunc dell’incontro con il paziente, che impone al terapeuta lo sviluppo della bioniana capacità negativa, cioè del saper sostare nell’incertezza, nell’ignoranza (nel senso di ignorare cosa stia accadendo in quel momento in seduta), nella condizione di frustrazione e impotenza, quando nel campo prevale l’assenza di simbolizzazione e rappresentazione. Si tratta di un duro allenamento cui viene sottoposta la mente del terapeuta, che spesso corre il rischio di veder travolta la sua area emotiva. Ci vuole “stoffa”, dice Maschietto, per fare il terapeuta: è necessario possedere una solida, robusta personalità terapeutica di base, che può essere arricchita da buone identificazioni con il proprio analista e con i supervisori.  Perché non basta la temerarietà, ma serve una buona attrezzatura «per sapersi tuffare nell’onda dell’inconscio». Bisogna essere consapevoli «che si sa nuotare» (p. 369).
Nell’Introduzione, Secondo Giacobbi (socio Minotauro e docente SPP) mette a fuoco certe situazioni molto comuni della relazione psicoterapica, che possono però risultare di difficile gestione per i giovani specialisti. Come regolarsi di fronte al silenzio del paziente in seduta? Che posizione tenere quando il paziente chiede dei consigli riguardanti certe decisioni da prendere nella quotidianità? E come rispondere quando il paziente cerca di frugare nella vita professionale o, soprattutto, in quella privata del terapeuta? Il problema della self-revelation della self-disclosure dell’analista è tuttora aperto e dibattutissimo all’interno della nostra comunità e viene declinato in maniera molto diversa in base al modello teorico abbracciato. Quanta “realtà” dell’analista va disvelata al paziente? Deve prevalere la regola dell’astinenza o quella, più intersoggettiva, del delicato svelamento di Sé, come consigliava Ferenczi riferendosi all’ipocrisia che talvolta ammanta un atteggiamento rigidamente asettico (1932)?
Tra i temi trattati sia da Giacobbi che da Maschietto vi è quello molto concreto, ma dalle grandi ricadute relazionali, del contratto da stipulare con il paziente, prima di cominciare il percorso di cura, di cui fa parte pure la vexata quaestio dell’onorario del professionista e del pagamento delle sedute saltate.
Giacobbi si sofferma infine a riflettere sulle caratteristiche di un buon setting, distinguendo il setting esterno, che può essere più mobile e adattabile, da quello interno, che deve mantenere rigore e coerenza. Egli riafferma la centralità del setting interno, frutto non solo di una solida formazione analitica, ma anche dall’«acquisizione di una pluralità di modelli teorici (e non solo psicoanalitici) da utilizzare pragmaticamente come fossero i molti e svariati strumenti di lavoro di un artigiano» (p. 48). Sull’utilità di rispettare le regole del setting si intrattiene Luca Mazzotta, in uno dei capitoli finali del libro riservata ai docenti. Egli registra la funzione protettiva del setting, sia per il paziente che per l’analista. Seguendo il monito di Gabbard e Lester (2008), Mazzotta mette in guardia dalle lievi trasgressioni del setting, che spesso introducono alle violazioni più gravi, talvolta dall’esito drammatico per la terapia. Alessia Pace è tra giovani terapeuti che pone l’accento sulla mutabilità e discontinuità del setting. Rifacendosi ai maestri, descrive le qualità imprescindibili del setting e narra della sua esperienza di costruzione di un ambiente terapeutico, il suo proprio studio, fatto di setting fisico (la stanza, l’arredo, etc.), di regole e di cambiamenti (p. 230). E racconta della sorprendente scoperta della crucialità del setting mentale, che necessita comunque di un contenitore sufficiente stabile che lo racchiuda. Un’oscillazione tra dentro e fuori che rappresenta emblematicamente ogni relazione umana.
 Nel suo contributo, Anna Sardelli, docente SPP, evidenzia la funzione fondamentale della supervisione per la crescita dell’allievo. È lo spazio reale, ma anche fantasmatico, dove la mente dell’apprendista terapeuta si incontra/confronta con la mente più esperta dell’artigiano/supervisore. È il luogo dove può essere esaminata la qualità del setting interno ed esterno del candidato, e osservate le dinamiche emotive transferali e controtransferali che agitano il campo relazionale. Si tratta di uno spazio unico, che suggerisco venga conservato anche dagli analisti più competenti che continuano a fare clinica, magari in uno scambio libero e fecondo tra pari (gruppi clinici di intervisione).
Il contributo di Luca Paganoni sosta ancora sulla centrale questione della supervisione, partendo dall’emozionante raccolta del materiale portato in seduta dal paziente e dalle risposte controtransferali dell’analista. L’approdo nella stanza della supervisione consente una rielaborazione delle dinamiche intercorse tra lo psicoterapeuta e il paziente e una loro rivisitazione mediante il filtro teorico condiviso con il supervisore. Una sorta di membrana dialitica di pensieri ed affetti, che rimuove le parti tossiche e che favorisce l’apprendimento. Per dirla con Becket, «Ho provato e ho sbagliato, la prossima volta sbaglierò meglio» (p. 259).   
Entrando più a fondo nel cuore del volume, riservato agli scritti degli allievi e dei giovani diplomati dell’SPP e ricchissimo di esemplificazioni cliniche, spicca l’attenzione rivolta al lavoro psicoterapico nelle istituzioni. Un argomento, quest’ultimo, di grande attualità e che dà rilievo al cogente problema di far nuovamente accedere la psicoanalisi nei servizi pubblici e privati deputati al trattamento della patologia mentale. Gianpaolo Benedetti, Simone Maschietto, Silvia Molteni ed Edoardo Riboni si chiedono, infatti, se sia ancora possibile un incontro professionale tra il setting istituzionale psichiatrico e la psicoanalisi. Come adoperare lo strumento analitico e il suo setting dentro le strutture psichiatriche? Quale uso fare dell’ascolto analitico? Come decodificare la severa malattia mentale con il metodo psicoanalitico calato in un setting istituzionale? La stretta collaborazione tra l’SPP e la Clinica Psichiatrica, d’orientamento psicoanalitico, La Métairie a Nyon (Ginevra), permette agli autori di provare a dare qualche risposta a queste composite domande. A sua volta, Berenice Merlini, forte dell’esperienza di psicoterapeuta in una Comunità psichiatrica, espone gli aggiustamenti della tecnica e del setting tradizionale che richiede l’occuparsi del paziente psicotico. Per Merlini, la formazione psicoanalitica può affinare le capacità di tenuta del terapeuta e le funzioni di contenitore e di rêverie della sua mente, messa a dura prova dalla brutalità delle istanze psicotiche.
Nel suo elaborato, Riccardo Preziosi illustra la sua esperienza di tirocinio di specializzazione in un servizio psichiatrico territoriale e concentra l’interesse sulla complicata materia dei flussi controtransferali nel lavoro con gli psicotici e della funzione giocata dal fenomeno dell’identificazione proiettiva. Egli acutamente rileva che l’identificazione proiettiva e il controtransfert hanno a che fare «con una attenta lettura della […] disposizione emotiva-psichica e somatica [dello psicoterapeuta], avvertita nel “qui ed ora” in seduta con il paziente» (p. 285). A suo parere, specie all’inizio della professione, l’identificarsi con le proiezioni del paziente e il relativo controtransfert devono divenire oggetto di accurata rilettura a posteriori, in après coup, attraverso il confronto con il supervisore.
Il contributo di Niccolò Lavelli porta la psicoanalisi ancora più in là, nei territori assai affollati, ma forse ancora poco perlustrati, abitati dal forestiero. Egli ha iniziato la sua attività di psicoterapeuta con persone migranti e rifugiati, provenienti da culture non occidentali. Un incontro con l’alterità assai perturbante, ma anche profondamente formativo e trasformativo. Il pensiero di Johannes Cremerius e di Gaetano Benedetti, padri fondatori dell’SPP, ha fatto da stella polare nelle sue esplorazioni di storie e di mondi stranieri e nuovi.
Appassionante si fa il viaggio nelle pagine che tratteggiano i più consueti scogli che si parano di fronte ai terapeuti principianti, ma che possono disturbare anche quelli più navigati. Sono capitoli tutti impreziositi da un vivacissimo materiale clinico dimostrativo. Annunziata Altieri «mette in evidenza le difficoltà, le perplessità e le dinamiche che si innescano quando ci si trova davanti a un meccanismo di difesa» (p. 52). Insomma, quando il paziente si difende dalla terapia, ma pure viceversa, quando il terapeuta valuta superiore alle sue competenze l’assunzione in cura di un paziente complesso. Il confronto con il limite, la frustrazione e il timore del fallimento, afferma Altieri, sono sempre in agguato nel mondo interno del terapeuta. Valentina Carella approfondisce tale tematica, studiando il fenomeno della resistenza in psicoterapia. Quella forza che si oppone ad un progetto di cambiamento, che coinvolge «il rapporto terapeutico stesso, nonché gli aspetti transferali della relazione terapeutica» (p. 66) e che riflette puntualmente quanto accade fuori dalla stanza d’analisi, nella vita del paziente, restio ad attivare un processo trasformativo. La resistenza all’analisi spesso si manifesta con richieste più o meno pressanti del paziente a modificare gli orari delle sedute.
Il capitolo di Marta Ferraris torna su «come rispondere terapeuticamente a una delle più frequenti domande», molto insidiosa, che i pazienti rivolgono allo psicoterapeuta: appunto «quella di spostare le sedute, cioè cambiarne, più o meno occasionalmente, orario e/o giorno» (p. 81). Ferraris annota che questo è uno di quei passaggi in cui è basilare l’apporto del supervisore, per fare ordine su cosa stia davvero reclamando il paziente e su quali ricadute controtransferali abbia suscitato nell’analista.
Silvia Molteni riposiziona in primo piano la figura dell’analista messo in difficoltà da tentativi di intrusione del paziente nella sua vita professionale o privata, ad esempio facendo domande o commenti a bruciapelo durante la seduta, o con veri e propri agiti. Molteni nomina tali momenti dei «fuori scena», che l’analisi personale e la supervisione possono aiutare a comprende nel loro significato più intimo, in quanto «possono fornire delle vere e proprie novità relazionali e psichiche per i pazienti e per noi» (p. 212). Nel suo scritto, anche Sara Pagani indaga le situazioni all’inizio della sua pratica terapeutica in cui si è sentita più a disagio: «sono senza dubbio legate ai tentativi del paziente di avvicinarsi troppo, di “bucare” il setting cercando una vicinanza o una complicità che non appartengono alla relazione terapeutica» (p. 245). Ad esempio, cosa ti sta dicendo il paziente quando insiste per darti del tu? Tanti analisti ritengono che l’introduzione del “tu” denunci un tentativo di svalutazione della funzione del terapeuta, mediante un accorciamento delle distanze e il conseguente disconoscimento della necessaria asimmetria della relazione.
Più articolata è la faccenda dell’introduzione del “tu” nel trattamento degli adolescenti. Ambra Salustri, sorretta da una serie di belle vignette cliniche, presenta alcune osservazioni proprio sulla cura degli adolescenti e dei giovani adulti ad opera di terapeuti di fresca nomina. In queste situazioni è particolarmente delicato modulare le distanze e le vicinanze, onde evitare di scivolare in una relazione magmatica e confusiva, che può minacciare l’identità del terapeuta. Il quadro si complica ulteriormente se si considera che nel lavoro con l’adolescente va riservato uno spazio pure ai genitori, che di solito sono quelli che pagano le sedute. L’aspetto concreto del compenso dell’onorario, chiarisce Salustri, determina conseguenze nella psicoterapia individuale, «che necessariamente subisce l’influenza dei genitori, responsabili del pagamento e quindi parte integrante del processo» (p. 341).  
Emanuele Visocchi avvicina la problematica delle domande in seduta dalla prospettiva dell’analista, che si accinge a svolgere i colloqui preliminari al candidato. Le indicazioni di Etchegoyen, riportate nel suo celebre manuale di tecnica psicoanalitica, delimitano le coordinate essenziali per muoversi nei colloqui iniziali, esplorativi (1986). Cosa chiedere al candidato? Come soccorrerlo negli attimi in cui è più disorientato? Va tenuto a mente che il candidato non riveste «un ruolo semplice: non sempre è facile sedersi e parlare di sé» (p. 347). Visocchi cambia poi il punto d’indagine e considera le interrogazioni che il paziente avanza all’analista, suddividendole in due tipi: quelle che chiama «formative», e quelle che, a suo avviso, «sono un acting-out verbale» (p. 349).  Ma, per quanto bravo possa essere l’analista a tutelare la propria area di riservatezza professionale, innumerevoli sono gli elementi che gli sfuggono dal controllo e che rivelano aspetti talvolta assai personali.
Chiara Lucca ci trasporta nella stanza digitale, facendo riferimento in particolare alla rivoluzione spazio-temporale del setting causata dalle analisi in remoto. Per l’autrice, la terapia per mezzo di Skype ha «condizionato la flessibilità sia del paziente che del terapeuta, chiedendo ad entrambi il ripensamento proprio di quegli elementi standardizzati che contraddistinguono il setting». Nelle analisi in remoto, mentre appare relativamente più agevole conservare i confini temporali del setting, «lo spazio fisico risulta totalmente riconfigurato e invaso da elementi metasetting» (pp. 124-125).  La pandemia di Covid-19 ha imposto alla diade terapeutica di passare dalla nota “stanza condivisa” ad uno “schermo condiviso”, introducendo codici interpretativi inediti e ancora tutti da decifrare.  
Mi accingo a concludere con Silvia Pacchioni, giunta al termine del suo training, che riflette sul «percorso lungo e tortuoso» di formazione, durante il quale è stata abilmente accompagnata dai suoi docenti e supervisori (p. 217). Un’evoluzione graduale, che l’ha condotta a far propri dei modelli teorici e una tecnica psicoterapica di base e a raffrontarsi con il processo di separazione-individuazione dal luogo e dagli analisti che ha incontrato nella sua maturazione specialistica.
Ho lasciato per ultimo il cenno al capitolo di Donatella Rattini, che tocca un argomento a me molto caro, quello del transfert↔controtransfert erotico. Le giovani generazioni di psicoterapeuti tendono a eludere quest’area della relazione analitica, che un tempo era il banco di prova di ogni buona analisi. Non è questa la sede per trovar ragione di questa “macchia cieca” delle analisi attuali, ma ipotizzo che abbia a che fare con il radicale rovesciamento dei paradigmi della sessualità che connotavano il secolo scorso. Il recente saggio di Giacobbi, Omogenitorialità. Ideologie, pratiche, interrogativi (2019), ci dà una mano a intendere il sovvertimento del destino sessuale che marca la corporeità odierna. La negazione socio-culturale delle differenze, l’omogenizzazione dei caratteri sessuali, la fluidità del genere, con l’archiviazione di un’identità sessuale definita, hanno forse prodotto questo clamoroso scotoma della sessualità nel lavoro analitico. Eppure, come dichiara Rattini, «l’amore di transfert è un fattore intrinseco al trattamento psicoanalitico», ed esso «può assumere svariate sfaccettature, alcune di grande intensità e con una trama peculiare» (p. 305).
Mi piace pensare che il libro curato da Maschietto e Giacobbi sia il frutto di un’operazione intensamente libidica, tesa al futuro, che dà speranza alla nostra disciplina. Ernst Bloch ci insegna che il sentimento della speranza è da intendere come un fattore gnoseologico che promuove conoscenza e progresso (1959). E questo testo, così fresco e vitale, è una garanzia per il futuro della psicoanalisi.
 
 
Bibliografia
 
BLOCH E. (1959). Il principio speranza. Milano, Garzanti, 2005.
ETCHEGOYEN R.H. (1986). I fondamenti della tecnica psicoanalitica. Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1990.
FERENCZI S. (1932). Diario clinico. Milano, Raffaello Cortina, 1988.
GABBARD G.O., LESTER E.P. (2008). Violazioni del setting. Milano, Raffaello Cortina.
GIACOBBI S. (2019). Omogenitorialità. Ideologie, pratiche, interrogativi. Milano, Mimesis.
NANCY J.-L. (1996). Essere singolare e plurale. Torino, Einaudi, 2001.
 

  
 

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 Bergamo, 23 marzo 2022

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