Uno.
Io non voglio raccontarvi la pena dello psicoanalista per dirvi che quella è la pena del paziente a contatto del quale egli si trova in quel momento; non voglio dirvelo una volta di più di quante ne abbiate sentite, anche se è molto importante l'idea che qualcuno faccia provare a qualcun altro il proprio dolore irrapresentabile, e come da quella rappresentazione delegata scaturisca un senso.
Io non voglio raccontarvi una pena della quale si sia scoperto già tutto: punto di partenza e destinazione, trasformazione e creatività.
Io voglio raccontarvi un disagio sordo e senza nome, che volentieri si satura con la colpa dello psicoanalista, vissuta sotto la specie di un sentimento di inadeguatezza, e risolta con l'abbandono del paziente.
Io vi parlerò qui del senso di fastidio, dispiacere, noia che un analista può sperimentare, prima ancora di rendersi conto che la persona che ha davanti è assente, confinata in un altrove apparentemente irraggiungibile, e come da questo altrove possano iniziare a partire, quando non si aspettano, segni di vita.
Due.
A scapito di ogni previsione, Sibilla sta facendo considerevoli progressi. Il carico di sofferenza della ragazza ha sempre messo a dura prova la mia resistenza, chiamando in causa la mia difficoltà a trattare pazienti mentalmente assenti.
La mancanza di contatto psichico, tanto più se in un contesto caratterizzato da grave sofferenza del paziente, può generare nel terapeuta una pena psichica particolare, causata prevalentemente dall’inazione e da una spiacevole e frustrante sensazione di inefficacia, a cui si è spesso tentati di sfuggire attraverso razionalizzazioni ("il paziente non è analizzabile"), l’invio a colleghi più giovani e bisognosi di fare esperienza o di ampliare la propria clientela, o attraverso diluizioni della frequenza che preludono alla resa definitiva.
Casi del genere vengono portati in supervisione più raramente di altri; e a causa della povertà o dell’assenza di materiale associativo, rappresentano un argomento poco appetibile sia per gli psicoterapeuti sia per i supervisori.
Ho descritto in vari contesti i disagi controtransferali prodotti da questo caso, le mie tentazioni di evitamento e soprattutto l’emergere in me di fantasie omicide ai danni del padre della paziente che si macchiò di gravissime e perverse violenze nei confronti di una bambina piccola e inerme, spaventata e desiderosa di essere presa fra le braccia: una bambina che non mi è mai capitato di incontrare.
Questa singolare condizione è certamente la causa del mio malessere controtransferale: se non c’è nessuno a chiedermi aiuto, se anzi il desiderio inconscio del paziente è quello di un "Altro soccorrevole", sentito come impossibile da raggiungere (come in effetti fu, quale mancato elemento soccorritore, la madre di Sibilla), allora ne consegue che in seduta entra soltanto -per così dire- il "dolore” (accompagnato dai suoi introietti sadici) privo però del suo contenitore (cioè il paziente stesso, nella sua interezza di persona).
Per molto tempo, Sibilla è entrata nella stanza con lo sguardo perso nel vuoto, canticchiando fra sé, proprio come chi si trovi in una situazione nella quale l'interlocutore (in questo caso io) sia del tutto assente: una percezione di assenza dell’Altro specularmente condivisa. Ecco: forse questo è un primo punto di repere in un panorama (a)relazionale da me sentito privo di significati pensabili.
Le sedute con Sibilla non si sono mai svolte, come di tanto in tanto capita, in totale silenzio (e quindi l'argomento di questa riflessione non è quello relativo al paziente mutacico, che richiede riflessioni differenti) ma piuttosto in uno stato di estraniazione anche a fronte di dialoghi serrati, ma sostanzialmente privi di un pathos percepibile da parte mia, qualcosa che potesse evocare in me reazioni affettivamente e non solo razionalmente adeguate alla gravità della situazione. Se l’odio controtransferale per il padre (cioè per un introietto malvagio tutt'ora presente e pervasivo) poteva raggiungere livelli altissimi, non altrettanta era la mia “com-mozione” percepibile a livello viscerale nei confronti della vittima.
Ciò mi consente di ipotizzare la persistente assenza, in seduta, di elementi del Sé della paziente confinati in uno spazio scisso e inaccessibile.
Tre.
Sándor Ferenczi, nel Diario Clinico (12 gennaio 1932), descrivendo il caso R. N., (la cui gravità può essere in parte assimilata a quella di Sibilla) racconta di aver messo a fuoco, nell’apparato mentale della paziente ripetutamente traumatizzata in età molto precoci, un tripartizione della personalità di questo tipo:
– un bambino sofferente in modo puramente psichico, di cui l'Io cosciente non sa nulla;
– un essere singolare, per cui conta la conservazione della vita a qualsiasi costo (una specie di “angelo custode della scissione”, che R.N. e Ferenczi, nel loro gergo peculiare di coppia analitica, chiameranno “Orpha”);
– una parte della personalità senz'anima, corpo privo di anima, mutilazione non percepita oppure guardata dal di fuori come qualcosa accaduto ad altri.
Quattro.
Se ripenso alla mia esperienza di Sibilla, ho la spiacevole impressione di aver incontrato, fino ad oggi, soltanto l'ultimo di questi tre elementi, mentre del secondo ho notizie per così dire indirette, in quanto la paziente tende a parlarmene, da pochissime settimane a questa parte, soltanto per via telematica, fra una seduta e l’altra.
Questo è un fenomeno nuovo, iniziato all’improvviso un paio di settimane fa, con una mail di sorprendente lucidità, nella quale la giovane effettuava la ricognizione di un suo introietto malvagio (“la persona che non sono io: viscida, infida, manipolatrice”), per confrontarla con un altro aspetto del Sé: “la bambina pulita e solare e capace di pensare al domani” che era sempre stata.
È sorprendente che una persona apparentemente così lontana da se stessa possa mostrare all'improvviso tanta lucidità nell'identificare parti scisse e incapsulate di sé. Ma che cosa sta accadendo? E soprattutto, a causa di che cosa? Se devo guardare onestamente a quello che è stato il mio apporto tecnico-emotivo di questi due anni di trattamento alla frequenza di una seduta la settimana, devo riconoscere che esso, almeno stando a ciò che appare, è stato ben poca cosa, riducendosi a sentimenti di disagio, sia pure sopportati con sofferenza, a crisi di sonnolenza, o a parole la cui capacità di raggiungere orecchie e anima tanto martoriate è da considerarsi perlomeno dubbia. Allora che cosa ha avviato questo cambiamento? La mia sola presenza fisica? Il mio genuino senso di solidarietà a lei in quanto vittima? Mi è molto difficile comprendere quali possano essere state le transazioni interinconsce fra noi che abbiano potuto costituire il terreno di coltura nel quale una nuova fiducia nelle capacità autoscopiche dell'Io abbia potuto svilupparsi, o in che modo la morsa del senso di colpa che da sempre abita Sibilla abbia potuto allentarsi al punto da consentire la visualizzazione dell'introietto persecutorio come almeno parzialmente (o transitoriamente) distinto dal Sé pre-traumatico.
Come è potuto accadere tutto questo? Forse che chi ha fame è in grado di apprezzare razioni magre e ipocaloriche che noi ipernutriti rifiuteremmo con sdegno? O magari è possibile che organismi adattati a vivere nel deserto degli affetti riescano a trarre nutrimento anche da soccorritori angosciati, assonnati e scontenti di sé? Occorrerà tempo prima che io possa rispondere a queste domande.
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