di E. Stopani
Da sempre, l’ipocondria (o disturbo d'ansia per la salute) è un disturbo estremamente inflazionato, presente nell’immaginario collettivo, ma soprattutto nelle sale d’attesa dei medici di base, che, negli ultimi anni, lamentano un crescente numero di pazienti che, a vario titolo, rientrano nella definizione di “malato immaginario”.
Detto più in soldoni, gli ipocondriaci sono quelli che tendono a farsi una diagnosi da soli, che nel gruppo degli amici elargiscono generosamente consigli (spesso non richiesti!) su posologie, effetti collaterali e controindicazioni di un farmaco; quelli che sostano per ore nella sala d'attesa del proprio medico, anche più volte nella stessa settimana… e diciamocelo, quelli che quando il suddetto medico li vede, sa già che sarà una lunghissima visita…
Tuttavia, sappiamo bene come la sofferenza legata alle preoccupazioni sulla propria salute, alla convinzione di essere (o di poter essere) malato non siano affatto, per chi ne soffre, una finzione: al contrario, come i professionisti della salute mentale possono osservare clinicamente, queste persone sono estremamente limitate nella propria vita, nelle funzioni sociali, nelle relazioni, e portano con sé, nella maggior parte dei casi, un vissuto di forte ansia, così come un tono dell’umore tendenzialmente basso.
Ma ecco che oggi qualcuno prova a riflettere in maniera un po’ diversa sul concetto di ipocondria e quindi, conseguentemente, sul tipo di trattamenti che potrebbero essere adottati in alternativa a quelli cognitivo-comportamentali standard.
Infatti, da sempre l'ipocondria è stata considerata, secondo questi approcci, come un disturbo fondato sull'interpretazione catastrofica (bias cognitivo) dei vari segnali fisici innocui: si tratta di sensazioni che più o meno tutti noi ogni giorno avvertiamo, ma che, per chi soffre di questo disturbo, diventano campanelli d'allarme, o addirittura prove inconfutabili, della presenza di una malattia.
Studi recenti hanno invece sottolineato il ruolo che l'intolleranza dell'incertezza può rivestire in questo quadro psicopatologico e ciò potrebbe portarci a ipotizzare che il paziente ipocondriaco, più che interpretare catastroficamente i segnali fisici, sia incline a non tollerare i normali dubbi, che chiunque può avere, rispetto al proprio stato di salute e continui, conseguentemente, a perseguire la ricerca della certezza assoluta tramite varie strategie (controlli, rassicurazioni, analisi mediche, ricerche su internet, evitamenti, ecc…); inutile specificare che, come per altri disturbi in cui giochi un ruolo centrale tale costrutto (ad es., il Disturbo Ossessivo-Compulsivo), anche in questo caso la ricerca spasmodica e disperata della conferma di assoluta salute non può che portare al rinforzo e al peggioramento del disturbo stesso.
Va da sé, allora, che se questa ipotesi venisse confermata, anche il tipo di trattamento dovrebbe essere rivisto e aggiornato e così anche la formazione e la specializzazione di molti specialisti: potrebbero infatti rivelarsi utili non più "soltanto" le tecniche cognitivo-comportamentali standard, ma anche quelle del più fresco approccio delle terapie cognitivo-comportamentali di terza generazione, in particolare dell'ACT.
Infatti, solo riuscendo ad accettare il dubbio, e tollerando l'ansia che esso origina, i pazienti potrebbero sperare di venir fuori dalle proprie preoccupazioni ricorrenti e vivere (e far vivere gli altri) più serenamente.
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