Uno. Il tutor e la psicoterapeuta in formazione ricevono la mamma di Pamela, una ragazzina di dodici anni. Pamela è in psicoterapia con la dottoressa Marina K. in tirocinio presso il servizio pubblico del quale il tutor è dirigente medico. L’organizzazione del tirocinio prevede che la dottoressa K., che ha raggiunto una preparazione ragionevolmente approfondita ed è persona dotata di attitudini relazionali e terapeutiche giudicate soddisfacenti, possa seguire in psicoterapia individuale la giovane paziente. Il compito del tutor è invece quello di supervisionare settimanalmente il lavoro clinico della più giovane collega, e di curare i rapporti con la famiglia della paziente.
Al suo ingresso la mamma si rivolge al tutor (uno psichiatra anziano con la barba bianca), chiamandolo “signor Professore”. Quando si rivolge alla psicoterapeuta della figlia, invece, la chiama “Marina” usando -unilateralmente- il “tu”.
Due. Il dottor B. ha in analisi due pazienti con lo stesso sintomo: arrivano alle sedute sistematicamente in ritardo. Il primo è un ingegnere di trent’anni, il secondo è un bambino delle elementari.
Quando l’ingegnere entra in seduta scusandosi per l’abituale e compulsivo ritardo, il dottor B. dice qualcosa, rivolgendosi in realtà non a una sola, ma a due persone: quella che desidera venire alla seduta, e quella che la ostacola sistematicamente; il loro ritardo è una formazione di compromesso fra due esigenze opposte.
Quando il bambino entra in seduta sistematicamente in ritardo, il dottore non dice nulla, ma accoglie il giovane paziente con un sorriso affettuoso. In questo caso, la parte “che non vuol venire” è la stessa che accompagna il bambino, ed è rimasta in sala d’attesa: impossibile parlarle, almeno per il momento.
Tre. Teresa F. ha avuto una lunga esperienza incestuosa con il padre, iniziata in tenera età e protrattasi fino al tempo dell’Università, quando circostanze esterne misero fine alla relazione. La donna sarà segnata da questa esperienza per tutta la vita. Giunta all’età di sessantadue anni, decide di andare in analisi presso una professionista nota per aver scritto libri nei quali racconta le proprie esperienze professionali in materia di tutela dei bambini vittime di abuso sessuale.
Durante l’analisi, fra le due donne s’instaura un’intima alleanza, come tra una figlia offesa dal padre e una buona madre protettiva. Dopo cinque anni di analisi intensa e produttiva, accade qualcosa di inaspettato. La paziente sogna un rapporto sessuale con il padre, durante il quale si sveglia in preda ad un violento orgasmo.
Il giorno dopo, ancora profondamente turbata dall’accaduto, la donna racconta all’analista, come di consueto, il sogno. Durante l’elaborazione successiva del materiale onirico le tornano alla mente episodi nei quali si è sentita, oltreché umiliata e angosciata, anche ambivalentemente eccitata e desiderosa delle carezze del padre. Ora, la donna si sente profondamente sporca, indegna: teme oltretutto di aver tradito la fiducia dell’analista, le cui rassicurazioni paiono insufficienti a tranquillizzarla. La donna si sente complice del padre, e come tale, “nemica” dell’analista, da lei idealizzata come “vendicatrice” dei bambini abusati.
Quattro. In psicoanalisi ciò che chiamiamo “oggetto” indica per lo più una persona. La “teoria delle relazioni d’oggetto”, contempla la nascita, lo sviluppo e le vicissitudini della relazione fra un “soggetto” (il lattante) e i propri “oggetti d’investimento affettivo” (soprattutto il primo: la madre). Gli oggetti possono essere buoni o cattivi, accoglienti o rifiutanti e spesso sottoposti, quando la relazione con essi produca angoscia, a complessi meccanismi di scissione. In ogni caso, il destino di un oggetto, buono o cattivo che sia, è quello di essere “introiettato”, cioè di venire a far parte della dotazione interna del soggetto. Per questa ragione, ognuno di noi acquisisce caratteri e abitudini buone e cattive delle persone che furono maggiormente significative, soprattutto durante la prima infanzia. Ed è per la stessa ragione che le persone gravemente traumatizzate da comportamenti altrui, continuano a sentirsene perseguitate anche molto tempo dopo il trauma patito: proprio come se il "persecutore" si fosse stabilmente insediato dentro di loro.
Cinque. Negli esempi uno due e tre, sopra riportati, sono descritte varie situazioni in cui un “oggetto” può essere invidioso di una nuova e più proficua relazione nella quale il soggetto si sente accudito.
Sia nel caso della madre di Pamela, sia nel caso del genitore che aspetta il bambino fuori della stanza, l’oggetto che ostacola la relazione terapeutica è l’oggetto “reale”, cioè il genitore in carne e ossa che svaluta nel primo caso, e ostacola nel secondo la relazione terapeuta-paziente.
Nel caso uno, l’atteggiamento ossequioso nei confronti del tutor e pesantemente svalutante nei confronti della psicoterapeuta, tradiscono l’invidia materna verso quest’ultima, rispetto alla quale le prerogative materne si sentono umiliate. E’ possibile che un’altra riesca in ciò in cui lei teme di aver fallito? O magari la relazione terapeutica non risulterà essere rivelatrice di mancanze, di errori, di trascuratezze che una madre “ideale” non dovrebbe aver commesso nei confronti della propria bambina?
Nel caso del genitore che accompagna il bambino sistematicamente in ritardo, nulla si può dire prima di conoscere la sua disposizione emotiva; tranne che quest’ultima, comunque motivata, ha sempre il sopravvento sugli interessi del bambino, perpetuandosi così, per il figlio, l’esperienza di sentirsi pesantemente trascurato.
Nel caso due, invece, l’”oggetto” invidioso non è il genitore reale (ormai non più in vita all’epoca dell’analisi della figlia), ma la sua rappresentazione interna che “agisce” come un fantasma che torna, in sogno, a ricordare alla figlia una passione condivisa, e, sostanzialmente, a manifestare all’analista la propria rappresaglia contro la “lotta” che la stessa condurrebbe nei confronti dei padri incestuosi.
E’ la rivincita, per fortuna non sempre vittoriosa, degli oggetti che falliscono nel compito di accudire.
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