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L’ispirazione: un salto nel laboratorio del comune mortale

21 Giu 22

A cura di dinange

[Da:  L. Angelini, Affabulazione e formazione, docenti e discenti come produttori e fruitori di testi, Unicopli, Milano, 1998, pp.: 131\148]
 
Nessuno si limita a vivere nella verità esteriore, ma trova rifugio nella stanza calda e fantasmagorica del proprio cervello, dai vetri effigiati e dalle pareti istoriate” (Stevenson)
 
  1. Filogenesi ed ontogenesi dell’ispirazione
 
Possiamo immaginare l’argomento che stiamo per affrontare come un viaggio che, da luoghi solari e conosciuti, ci condurrà in territori serotini e ignoti; un viaggio che può esser visto anche come una immersione secondo un itinerario che non si dipana orizzontalmente, ma “verticalmente” nella direzione che ci conduce verso il fondo dei nostri “oceani” personali.
Compiremo questo nostro viaggio sotto la guida di due ciceroni, Kris e Stevenson, la cui voce, con tonalità diverse, ma con sorprendenti confluenze, servirà a rischiarare quest’universo di tenebre che, altrimenti, a noi comuni mortali apparirebbe come troppo terrificante ed alieno. La prima voce, quella di Kris, sarà la voce dell’Io (della psicologia dell’Io infatti Kris fu uno degli esponenti più autorevoli): la sua sarà la voce più analitica e razionale, anche se non bisogna dimenticare che il grande amore e la grandissima competenza di Kris in fatto di lettura di opere d’arte rendono sempre la sua voce calda e fluente.
A questo primo fiato però farà da controcanto un secondo cicerone che con la voce dell’Es ci permetterà di vedere ciò che lui stesso ha visto con tutti gli affanni, ma anche con tutti i sottili piaceri che da questa immersione dentro se stessi possono provenire: questa guida straordinaria sarà Stevenson che, col suo “Teatro della notte” ha disegnato, per coloro – come noi – che non ne hanno paura, una precisa mappa di quei luoghi notturni di sogno e di visioni che sono in ciascuno di noi, inabissati nelle profondità del nostro essere.
Cominceremo il viaggio rubando a Kris una sua citazione. Afferma Kris che nella “Genesi” (11,7) sta scritto: “Il Signore Iddio formò l’uomo di fango della terra, e gli ispirò in faccia un soffio di vita; e l’uomo fu fatto in anima vivente”.
Esiste una linea di significato, afferma Kris, che dal termine “ispirare”, “inspirare”, conduce a “spirare”, cioè a soffiare; ed il soffio ci conduce all’anima, allo spirito, alla vita. Non molto dissimile da questo era il significato che i Greci attribuivano il termine “pneuma”, termine che veniva sempre da essi collegato al concetto di “vita”, intesa non in termini fisiologici, ma psicologicamente come Eros, amore, contrapposto a Thanatos, morte.
Fin dall’inizio quindi sia della tradizione giudaico-cristiana sia di quella greco – latina il concetto di in-spirazione è presente nella nostra cultura, e lo è sia come sinonimo di vita e di amore, sia come azione che, più che agìta direttamente ed autonomamente dall’uomo, è da lui patita in quanto che il soffio che dà la vita è nella bocca di un dio. Ispirare ed essere ispirato così diventa fin dal principio un insieme di disposizioni e di azioni attive e passive in cui chi si pone in termini attivi assume le sembianze divine e l’uomo risulta come generato nella sua psiche, nella sua anima grazie a questo soffio che lo ingravida.
C’è poi un secondo invito a riflettere sui significati etnologici che il processo di ispirazione assume nelle varie culture che ci viene sempre da Kris e che per noi è importante: sacerdoti, stregoni, profeti, in tutte le culture umane, interrogati sulle origini dei processi di ispirazione che sono alla base delle loro opere magiche, affermano sempre di essere ispirati da una qualche entità esterna a loro stessi che, secondo modalità che vedremo fra un poco, entrano dentro di loro e, per tutto il tempo necessario a che l’opera di magia possa essere compiuta, li occupano.
Per comprendere meglio in che cosa consiste l’ispirazione allora conviene, afferma Kris, ascoltare come essi descrivono l’arrivo in loro dell’ispirazione, quali disposizioni interne possono favorire l’ingresso dentro di loro di questo soffio generatore (corrispondente, d’altro canto, alle fantasie pneumogeniche che spesso fanno i bambini allorché cercano di dare una risposta alle loro stesse domande sull’origine della vita).
Ebbene, ci informa Kris, ciò che fantasmaticamente permette questo ingresso dentro al soggetto e questa inseminazione pneumatica è una condizione di ritiro, di abbandono del controllo dell’Io su molte attività psichiche superiori, quella che lui definisce una regressione dell’Io. In base a tale stato l’individuo si abbandona o ad attività motorie “incoordinate”, o ad uno stato mentale in cui prevalgono parole e pensieri automatici, etc.-
Anche Stevenson, nel suo libro autobiografico sui meccanismi interni che lo conducevano all’ispirazione (e cioè su quel teatro della notte dal quale lui attingeva materiale per i suoi romanzi), ci informa che, prima che sul suo teatro notturno si instaurasse in lui il primato di un Io capace di metter ordine e di individuare dei canovacci di racconto, laddove vi era una massa informe e turbolenta di immagini e di parole, vi era in lui una tale invasione di sogni e di pensieri automatici che neanche il ritorno alla luce del giorno riusciva ad allontanare, fino al punto da opprimerlo e da condurlo alle soglie della psicosi.
Ciò vuol dire che, fino ad un certo punto della sua vita, e cioè finché un Io sufficientemente forte non fu capace di pilotare le sue immersioni nel teatro della notte e le sue emersioni con il materiale utile alla sua scrittura, Stevenson veniva spesso a trovarsi nella situazione di una regressione permanente e pericolosissima per la sua salute mentale; che lo rendeva incapace di porre ordine, di discriminare – come vedremo meglio nel prossimo capitolo, quello sulla elaborazione – fra materiale egosintonico e materiale egodistonico, che finiva così per travolgerlo e costringerlo ad un rapporto fra vita notturna e vita diurna che, nella stessa autobiografia artistica, lui definisce in questo modo:
“In seguito, mentre era studente, si avventurò in un certo sogno che certamente non avrebbe voluto ripetere; egli cominciò a sognare secondo una sequenza fissa e a condurre, così, una doppia vita, una di giorno e una di notte: dell’una aveva tutte le ragioni per credere che fosse vera, dell’altra non aveva nessun mezzo per provare che fosse falsa. Avrei dovuto dire che già studiava, o fingeva di studiare, all’Università di Edimburgo, che fu, credo, il luogo dove io lo incontrai. Bene, nella sua vita onirica, egli trascorreva una lunga giornata nel teatro anatomico, il cuore in gola, i denti stretti, a vedere malformazioni mostruose e l’aborrita destrezza dei chirurghi. In una notte di pioggia e di nebbia spaventose giunse fino a South Bridge, voltò per la High Street e superò l’entrata di una pensione a più piani, in cima alla quale egli credeva di alloggiare. Tutta la notte, con gli abiti bagnati, si arrampicò per le scale, un susseguirsi infinito di piani, dove, ogni due rampe, esplodeva la luce abbagliante di un riflettore. Tutta la notte sfiorò quella gente che si dirigeva verso il basso, donne dall’aspetto di mendicanti ed operai grandi e grossi, affaticati ed insozzati di fango, poveri spaventapasseri di uomini, povere parodie di donne, e tutti assonnati e stanchi come lui, che toccava di striscio mentre passavano ad uno ad uno. Infine avrebbe visto la luce del giorno apparire da una finestra rivolta a nord e diffondersi bianca sulle rive del Firth, avrebbe smesso di salire e cominciato a ridiscendere, e in un batter d’occhio si sarebbe ritrovato per strada, con gli abiti bagnati nell’alba smunta, ad incamminarsi verso un’altra giornata di mostruosità e di operazioni chirurgiche. Il tempo passava velocemente nei sogni, sette ore (secondo i suoi calcoli approssimativi) sembravano una; ed esso trascorreva, inoltre, assai più intensamente, cosicché, mentre la tetraggine di queste esperienze vissute con l’immaginazione ancora lo offuscava ed ancora non si era liberato della loro ombra, già era venuta l’ora di stendersi e di rinnovarle. Non saprei dirvi quanto durò questo castigo, ma abbastanza da lasciare una grande macchia scura nella sua memoria e da spingerlo, nel timore di perdere la ragione, alla porta di un certo dottore, dove, dopo una semplice pozione, fu ricondotto al destino dei comuni mortali. (Stevenson, pag.31\32)

Ritornando a Kris la sua analisi etnoanalitica di quelle situazioni, nelle culture primitive, in cui l’individuo si pone come guida profetica mette in evidenza come, in questi casi vi sia, ovviamente senza alcuna consapevolezza da parte del profeta, una sua capacità di cogliere in termini preconsci le assonanze esistenti fra i propri desideri e i propri fantasmi inconsci e i bisogni e i desideri inconsci della comunità di cui lui fa parte, desideri e bisogni che, in questo modo, e cioè grazie a questa profonda capacità di immedesimazione e di assonanza possono essere da lui correttamente interpretati.
Perciò colui che si pone come profeta, come guida ispirata deve essere un soggetto che ha “una particolare disposizione a comunicare, usufruendo di speciali meccanismi, con i propri desideri e fantasmi rimossi” (Kris, a), cioè, in base alla nostra metafora, a tuffarsi in un viaggio di immersione che lo condurrà a scoprire un luogo interno che altrimenti rimarrebbe sconosciuto e che solo la voce del preconscio, dell’intuizione di tanto in tanto gli farebbe baluginare.
Ogni comune mortale ha potenzialmente questa disposizione. Dice Stevenson:
“il passato è fatto di un’unica stoffa, sia che esso venga rappresentato in pubblico.., sia che venga vissuto in quel teatrino del cervello che noi teniamo splendidamente illuminato tutta la notte..”(p.29).
Ognuno quindi può essere la guida ispirata di se stesso. L’unica differenza fra l’artista e il comune mortale, nel momento dell’ispirazione, è sul piano quantitativo, in base al più ampio grado di confidenza che il primo ha, rispetto al secondo, con il mondo serotino dell’ispirazione: grado di confidenza che permette (che può permettere o meno, come vedremo nel prossimo incontro, quello sull’elaborazione) poi, in un secondo momento, una espressione più o meno ricca ed originale delle immagini e dei pensieri che l’opera di immersione in un primo tempo, permette di raggiungere.
Abbiamo imparato – più in particolare – e cioè in riferimento alla scena scolastica (vedi sempre capp. 4 e 5), che sia il discente che il docente, nel momento in cui vanno a cercare dentro a se stessi i propri contenuti, fanno la stessa operazione dei profeti, dei sacerdoti antichi, degli stregoni, ed, oggi, degli artisti: si immergono in un viaggio verticale che li porta in contatto con le proprie parti notturne in cui è possibile, grazie ad una regressione dell’Io, scoprire la parola giusta, il giusto contenuto che poi, in un secondo momento sarà ordinato – secondo una grammatica, una sintassi ed uno stile specifici – in un testo da porgere alla propria udienza.
Resta da capire perché, oggi come ieri, l’ispirazione è vissuta come una istanza che il soggetto riceve passivamente, perché, in altre parole, ciò che all’interno del soggetto è una attività (immergersi, tuffarsi, compiere un viaggio) si trasforma in passività (essere ispirati, ricevere dall’esterno il pneuma ingravidante che fa lievitare i nostri contenuti).
Ieri, nella nostra preistoria culturale, vi era una duplice ragione alla base di questa opera di passivizzazione: da una parte vi era una ragione sociale che spingeva la guida ispirata a dare autorità al proprio testo, alla propria profezia attribuendola alla voce esterna di un dio, dall’altra vi era sicuramente, come afferma Kris, la necessità di allontanare da sé la responsabilità per le conseguenze che le troppo pesanti parole profetiche avrebbero potuto comportare per la comunità.
Oggi, nel momento in cui l’individuo può emergere e distinguersi all’interno della comunità in cui vive molto più ampiamente di quanto avrebbe potuto farlo in passato (Habermas), forse è tempo di cercare le ragioni individuali che sono alla base del fenomeno.
Per far ciò partiamo dall’area della creatività e dall’analisi di ciò che avviene all’interno del soggetto allorché si appresta a creare: vi è in lui in questo momento una prevalenza di energia psichica desessualizzata che “ribolle”, “che non può essere controllata per intero” (Kris,a), una energia che, in base alla natura degli introietti infantili, non può essere riconosciuta dal soggetto come appartenente al Sé, ma deve essere attribuita ad una entità esterna (“Gli Gnomi, “il Genio Servitore”, “il collaboratore invisibile” di Stevenson) poiché nell’universo protomentale solo l’unione del soggetto con una fantasmatizzata entità nutriente e fecondante può far nascere qualcosa.
Anche all’origine del pensiero e della scoperta scientifica vi è una dinamica simile. Il desiderio epistemofilico del bambino, sia del futuro scienziato che del comune mortale, trova un suo limite più o meno ampio in un interdetto, posto dal proprio Super-Io infantile, interdetto in base al quale il superamento di una determinata soglia del desiderio di conoscenza viene tabuizzato. Interdetto che il bambino introietta e metabolizza dentro di sé, in modo tale che il suo erede continua a funzionare nel Super-Io adulto imponendo dei limiti alla conoscenza che non possono essere superati, pena l’emergere di più o meno profondi sensi di colpa.
La scoperta scientifica, che travalica ogni limite posto in precedenza e che pone lo scienziato al di là delle colonne d’Ercole del già conosciuto, implica il rischio che dentro di lui emergano proprio gli eredi del proprio Super-Io epistemofobico ed inibente. Per cui, come nel caso dell’artista, anche lo scienziato sente in termini preconsci di avere bisogno di metter fuori da se stesso l’origine del pensiero. Ma ancor più nel comune mortale, che, in base all’educazione ricevuta, ha sedimentato dentro di sé uno spazio del desiderio epistemofilico ben più ristretto di quello dello scienziato e dell’artista, le pulsioni inibenti sono destinate ad emergere: si determina così dentro di noi comuni mortali uno scenario pieno di luoghi tabuizzati che impediscono spesso le immersioni, o le rendono molto difficili e pericolose.
In conclusione trasformare una attività in passività sembra “più conveniente” da un punto di vista economico all’equilibrio psichico sia dell’artista, sia dello scienziato. Mentre, nel caso del comune mortale, la scarsa attitudine alle immersioni creatrici, unita – come vedremo fra un poco – alla difficoltà che il comune mortale ha di fare una buona pesca durante le proprie rare immersioni, rendono la situazione molto più problematica. Più problematica, certo, ma sostanzialmente non dissimile a quella degli artisti e degli scienziati. Pensiamo, ad esempio, alle rare volte in cui ci capita, fuori dell’ambiente scolastico, di inventare una soluzione a piccoli problemi pratici che in un primo tempo ci sembravano insolubili.
Di fronte al nostro stesso stupore cosa diciamo a noi stessi per spiegare il nostro improvviso acume, se non frasi come: “mi è venuto così!”, “mi ci stavo scervellando da una vita, e invece la soluzione era là, a portata di mano!”, etc. – Tutte frasi che denotano come anche noi, ogni volta che ci imbattiamo con la nostra (scarsa) creatività, tendiamo a trasformare quella che è una nostra attività in passività.
Si viene a definire così, sia per i grandi uomini che per i comuni mortali, un terreno comune in cui, per ragioni economiche, gli uni più frequentemente, gli altri meno, sentono il bisogno, per ragioni sociali (ieri) ed individuali (oggi), di vivere l’ispirazione, come dicevamo prima, come un processo innescato nell’individuo in base alla coniugazione con una entità esterna all’individuo stesso.
Il tipo di fantasie esteriorizzanti connesse a questo processo, ovviamente, sono infinite, ma – come ci suggerisce Kris – sono in estrema sintesi riconducibili a due: la fantasia di appagamento totale da parte di un seno materno, pieno e soddisfacente, oppure la fantasia che l’ispirazione avvenga in base alla incorporazione (orale) di un pene-pneuma paterno fecondante. Nutrimento e seme-pneuma ci riportano, così, in un universo orale (Mendel) in cui la posizione del soggetto era passiva ed in cui veniva a determinarsi in lui un processo di incorporazione di qualcosa che proveniva dall’ambiente primario, qualcosa che conduceva l’apparato psiche-soma del soggetto alla vita. Per cui possiamo dire che quando in età adulta il soggetto, artista o comune mortale, si dispone all’immersione in effetti lo fa innescando un processo che, in termini allucinatori, implica un ricongiungimento del soggetto stesso con imago parentali nutrienti e fecondanti sublimate.
Ciò che denota la presenza di un processo di sublimazione, secondo Kris, è il fatto che il processo creativo avviene quando nel soggetto si determina una forma particolare di eccitamento che Kris denomina come eccitamento dell’Io. Si tratta di un eccitamento che avviene sotto il segno della de-sessualizzazione e che implica la presenza, nello stesso tempo, da una parte di un ripiegamento su se stessi, dall’altra di uno stato di fervore creativo, di eccitamento, appunto, e di erotizzazione dell’Io sotto il segno dei due introietti (quello materno e quello paterno) ai quali si accennava prima e con i quali il soggetto entra in un rapporto di coniugazione sublimata e feconda (Kris).
A qualcosa di simile fa riferimento Stevenson allorché, parlando del passaggio interiore che lo portò, dall’essere schiavo delle sue proprie immagini, al controllo ed allo “sfruttamento” delle stesse come materiale per i suoi romanzi, diceva (parlando in terza persona di se stesso):
“Fu in quel tempo che cominciò a leggere, durante i sogni, racconti storici soprattutto…”
Si ha qui, a mio avviso, una esemplificazione del passaggio del sogno ad occhi aperti, da istanza incombente e minacciosa che fino ad un certo punto lo aveva travolto, a racconto sottoposto già ad una funzione dell’Io che organizza il materiale, lo controlla, lo “legge”, lo organizza e lo rende funzionale ad una espressione.
Un’altra descrizione molto efficace dello stato di fervore e di eccitamento de-sessualizzato che accompagna la creazione di un’opera d’arte è nella autobiografia di Benvenuto Cellini, allorché il grande scultore fiorentino parla dei problemi che dovette affrontare mentre si apprestava a creare, a “mettere al mondo” il suo Perseo; in questo caso anzi, a fianco al fervore creativo, traspare molto evidente la lotta contro le sempre presenti tendenze distruttive, che – come già sappiamo – accompagnano sempre l’atto creativo.
La creazione, afferma Kris, “risolve una contesa intima, ora in veste di compromesso fra forze in conflitto, ora come difesa contro un istinto particolarmente pericoloso”. E, nel processo creativo – potremmo aggiungere noi – l’ispirazione è quel pericoloso momento iniziale in cui la transazione fra le varie forze coinvolte ancora non è avvenuta, la linea difensiva non è stata ancora eretta.
Stevenson, estenuato dall’incombere nella vita “di giorno” dei fantasmi della vita “di notte”, per descrivere questo stato, come abbiamo già visto, afferma (parlando di sé sempre in terza persona):
“..Egli cominciò a sognare secondo una sequenza fissa ed a condurre, così, una doppia vita, una di giorno ed una di notte: dell’una aveva tutte le ragioni di credere che fosse vera, dell’altra non aveva nessun mezzo per provare che fosse falsa”.
In questa auto-osservazione di Stevenson vi è modo di vedere come nasce dentro un grande artista quella che poi sarà la base del compromesso che gli permetterà, non solo di non essere più travolto dalla sua vita notturna, ma di utilizzarla per trovare in essa i motivi della sua ispirazione.
Una mia paziente – per la quale, in base all’educazione ricevuta, uscire psicologicamente da casa era molto pericoloso – poche settimane prima che si manifestasse in lei un pesante break down evolutivo che la condusse a tentare ripetutamente il suicidio, sentì un bisogno imperioso di dipingere un quadro, che rappresentava due gatti in amore che guardavano la luna, con l’idea associata di regalarlo al suo ragazzo; cosa che non fece mai, poiché in effetti aveva compiuto quell’atto creativo solo come estremo gesto di difesa dalle proprie pulsioni autodistruttive intervenute a seguito del primo rapporto genitale, che per lei, o meglio per il suo rigidissimo Super-Io rappresentava una intollerabile uscita dal vero e proprio claustrum casalingo in cui era vissuta a dal quale, in base agli introietti che la bloccavano, era impossibile uscire.
Compromesso e difesa implicano la messa in gioco di funzioni preconsce dell’Io che determinano una situazione di regressione controllata (Kris,a), vale a dire di uno stato di regressione all’interno del quale l’Io mantiene una sorta di attenzione fluttuante, simile a quella che, nel rapporto terapeutico, determina la situazione di ascolto da parte del terapeuta.
In entrambi i casi l’ascolto implica una disposizione a vedersi dentro, ad ascoltarsi oltre che ad ascoltare, con l’unica differenza, forse, data dal fatto che nel momento dell’ispirazione il processo è prevalentemente interno, intrapsichico, mentre nel secondo caso, quello dell’ascolto del terapeuta, l’aspetto relazionale è in primo piano.
D’altro canto, però, se ritorniamo sulla scena scolastica, non si può dimenticare come in quella sede l’occasione che stimola l’autore a produrre il proprio “testo” nasca, oltre che dal processo di auto-osservazione e di ricerca dentro se stesso dei propri “motivi”, anche dall’osservazione, sempre da parte dell’autore, delle aspettative dell’udienza. In questo modo, come dicevamo nel secondo capitolo, la situazione di ascolto, in terapia come a scuola, diventa sempre un gioco di transfert “contro” transfert, di transfert educativo “contro” transfert educativo, in cui la parola da ascoltare in entrambi i casi proviene contemporaneamente dall’esterno e dall’interno del soggetto.
 
 

  1. Preconscio e ispirazione
 
In una lettera ad un amico, parlando in termini quasi profetici dell’ispirazione (si pensi che siamo nella seconda metà dell’Ottocento, decine d’anni prima dell’introduzione del linguaggio freudiano), Stevenson fra l’altro afferma:
“Sono ancora nella fase dello studio lento, in una lunga seduta silenziosa sulle mie uova. Pensiero inconscio è il solo metodo”.
Colpisce, in questo sforzo di auto-osservazione, non solo il linguaggio “premonitore”, ma anche la forza icastica della metafora utilizzata. Sembra quasi di vederlo Stevenson, seduto sulle sue uova metaforiche in attesa che esse vengano fecondate: si vede, direi, soprattutto la presenza di un fantasma genitoriale che, con attitudini paterne, stia per fecondarle.
Ma veniamo alla chiosa finale di Stevenson: “Pensiero inconscio è il solo metodo”. Freud qualche decennio dopo avrebbe forse corretto così: “Pensiero preconscio è il solo metodo”. “Inconscio” cioè, riprendendo la metafora di Stevenson, è riferibile a quelle “uova” che sono dentro di noi, ma che difficilmente possono essere fecondate, mentre “preconscio” si riferisce a ciò che può “facilmente e frequentemente” (Kris) diventare conscio, e quindi accessibile ad un uso creativo o in ogni caso, produttivo.
Se noi ora entriamo più approfonditamente nel merito della prima topica freudiana, ci accorgiamo subito che, da una parte, nei processi inconsci è possibile notare l’assenza di tracce mnestiche verbali, la presenza di energia psichica mobile (cioè non legata a particolari catene associative verbali o non verbali che ne possano veicolare, ad esempio, l’uscita), e la presenza di modalità di scarica che avvengono secondo processi primari. Mentre quando i processi sono di natura preconscia intanto vi è nel soggetto la presenza di tracce mnestiche verbali (anzi sotto certi punti di vista si potrebbe definire la parola come un emblema del preconscio), in secondo luogo, e conseguentemente, l’energia psichica si presenta sempre come energia legata secondo catene associative che ne favoriscono l’uscita, ed infine la scarica avviene sotto il segno dei processi secondari.
Deve essere chiaro, a questo punto, che con il passaggio alla seconda topica freudiana (es io super-io) non si ha un superamento adialettico della metapsicologia della prima topica, ma al contrario una sua integrazione dentro una nuova metapsicologia che ridefinisce il mondo interno in maniera più precisa e con una nuova attenzione per i personaggi, frutto dei molteplici scambi ed introietti, che ci abitano.
Cosicché, ad esempio, in base alla seconda topica sarà possibile analizzare come funziona l’Io (o qualsiasi altra voce interna), ma ciò sarà fatto tenendo conto anche del fatto che nell’Io alcuni processi sono consci, altri preconsci, altri ancora inconsci.
In questo modo, riprendendo la prima parte di quello che nel capitolo precedente abbiamo chiamato il modello di Kris rivisitato, nel momento dell’ispirazione avremo:
  1. due tipi di energia, quella libidica e quella aggressiva, nonché due tipi di energia legata, quella libidica ed aggressiva neutralizzata e quella non neutralizzata. A partire dall’energia neutralizzata (libidica o aggressiva ch’essa sia) nascerà “il pensiero che risolve problemi”, cioè, ad esempio, il pensiero scientifico. A partire dall’energia non neutralizzata nasceranno invece le “asserzioni verbali logicamente coerenti”, cioè quelle che Stevenson chiamava “fantasie rappresentate”.
Dove:
  1. la natura dell’investimento dell’Io varia conseguentemente, cosicché nel caso del “pensiero che risolve problemi” avremo il prevalere di una funzione regolatrice dell’Io che non implica una vera e propria regressione, ma l’emergere di fantasie simil-oniriche, nel caso delle “asserzioni logicamente coerenti” la veicolazione attraverso la regressione controllata dell’Io di immaginazioni fantastiche.
Stevenson, nel descrivere come nascevano dentro di lui l’idea, i personaggi e la trama de “Lo strano caso del Dott.Jekill e di Mr. Hide” diceva:
“..a dire il vero mia è per lo più la parte morale, ohimè, poiché i miei Gnomi non hanno il più piccolo rudimento di ciò che noi chiamiamo ‘coscienza’” (p.40).
Cioè nel processo che conduce alla immaginazione fantastica vi è solo un minimo di neutralizzazione (..mia è per lo più..), mentre la regressione dell’Io è controbilanciata solo dalla confidenza che Stevenson aveva appreso ad avere con i suoi Gnomi (“l’università dei Edimburgo fu il luogo, credo, in cui lo incontrai”, egli dice a p.31, alludendo al fatto che, fino a quel momento egli era stato schiavo delle sue immagini, non avendo ancora incontrato i propri gnomi).
E dove infine
  1. il contro-investimento dell’Io implica una distinzione fra aspetti egosintonici ed egodistonici, e si definisce come movimento interno che avviene a livello preconscio che permette una immersione controllata, cioè di andar “giù” a cercare i contenuti egosintonici (cioè quelli che possono venir fuori facilmente poiché non antinomici rispetto ai contenuti “diurni”) e di distinguerli da quelli egodistonici (cioè quelli che ci metterebbero in crisi se uscissero subito, ora, poiché troppo distanti in questo momento da quelli “diurni”, consueti); tutto ciò in maniera tale da “aggiungersi (ai contenuti diurni) alla velocità, alla forza o alla intensità con cui si formano i pensieri preconsci” (Kris, b)
Nell’espressione “aggiungersi” c’è tutto il limite della funzione del controinvestimento dell’Io nella fase dell’ispirazione. E’ come se si trattasse di una entità “in corsa perenne”, che si muove secondo una cadenza, un passo velocissimo che non è stato da lei scelto e che a mala pena è in grado di tenere (vedremo come nella fase di elaborazione le cose stiano in termini rovesciati).
 
 
3.Cronaca di un massacro: l’ispirazione a scuola
 
Nell’accennare alle vicissitudini dell’ispirazione a scuola, così come poi avverrà anche per quelle dell’elaborazione, noi non faremo un quadro nosografico del problema, non cercheremo cioè di descrivere, in maniera discriminata ed esaustiva, una serie di sindromi che si vanno ad aggrumare in questo o quel tipo di “malattia” scolastica.
Non faremo neanche una descrizione di casi, ma utilizzeremo la nostra prassi come un contenitore di esperienze che a contatto del materiale teorico si ridestano ed entrano in circolo dentro di noi, così come d’altro canto, ed in termini più generali, si sono ridestate nel momento in cui abbiamo deciso di mettere ordine dentro di noi a quella serie infinita di stimoli che ci veniva dalla nostra prassi di consulenti scolastici e di proporci una indagine sui problemi affettivi connessi all’insegnamento e all’apprendimento.
Cosicché il nostro non sarà un procedere nosografico, ma un viaggio avventuroso del quale qui riferiremo, come in una specie di diario, le nostre impressioni, utilizzando, in prevalenza, le ricche ed allusive metafore di Stevenson.
“Trovare rifugio nella stanza calda e fantasmagorica del proprio cervello”: questa immagine stevensoniana ha una grande forza evocativa: a me fa venire in mente il concetto winnicottiano di oggetto transizionale e la linea di accumulazione che parte dall’oggetto transizionale e si espande nel gioco prima e nell’appartenenza culturale poi.
Si può infatti immaginare l’area intermedia (non interna e non esterna al soggetto) che intorno all’oggetto transizionale si forma come un luogo che all’inizio si innesca intorno ad una semplice cerimonia che permette la separazione, poi si articola e si complica in una molteplicità di connessioni che, se le cose sono andate sufficientemente bene, ci tengono uniti al mondo, e lo fanno sullo stampo di quella prima cerimonia che ci diede senso, e poi ancora, in base alle occasioni concrete di comunicazione e di scambio che l’individuo ed il gruppo sociale di cui fa parte hanno la ventura di sperimentare, diventa via via più fantasmagorico.
In questo modo, mano a mano che la linea secondo la quale si va definendo la propria appartenenza riesce a far sentire il soggetto in comunione con entità che nel gioco di in\lusione risultano non esterne e non interne ad esso, bensì eredi di una entità materna separante essa stessa originariamente vissuta come interna-esterna, è possibile, credibile ed accettabile per il soggetto accettare le molteplici separazioni e perdite che lungo il proprio sentiero di crescita personale dovrà affrontare.
Se al contrario questo luogo, se questa stanza interna-esterna non è stata costruita, se il soggetto non riesce a sentirsi inserito in un continuum culturale, erede del legame originario, che gli dà senso, se non è chiara la collocazione “spaziale” del soggetto all’interno di questo luogo, allora può intervenire un rischio, anche grave per il soggetto: rischio di psicosi, di essere troppo abitato da fantasmi troppo spesso egodistonici, etc.
Se poi noi entriamo più nello specifico, ed, invece che ad un soggetto generico, pensiamo al docente ed al discente, ecco che questo movimento di trovare e ritrovare continuamente rifugio nella stanza fantasmagorica calda ed accogliente del proprio cervello diventa, sia per la lezione del docente che per la lettura del discente, una incessante operazione di ricerca di quei contenuti che confermano e arricchiscono la propria appartenenza.
Cosicché sulla scena scolastica la ricerca dei contenuti dell’insegnamento e dell’apprendimento diventa un continuo ri-tuffarsi in una stanza (culturale), calda (perché mia) e fantasmagorica (perché ricca di tutte le incrostazioni linguistiche ed extra-linguistiche che sono entrate dentro di me) che, oltre che procedere sul piano delle materie e dei contenuti più formali ed espliciti, mi permette, docente o discente che io sia, di ribadire e di arricchire la mia appartenenza, trasformandola in itinere sulla base di un feeling con il resto della classe che presenta tutte le gioie ed i dolori delle grandi passioni.
Cosa avviene però quando la stanza che uno dei protagonisti presenti sulla scena scolastica, o una parte di essi abita una stanza che non è uguale o assimilabile a quella degli altri? Cosa accade, in particolare, quando questo scollamento avviene nel discente, e cioè in un quadro basato sulla sproporzione di forze fra se stesso e il docente? Cosa accade, inoltre, quando uno degli attori non ha avuto modo di definire con continuità e credibilità una propria area intermedia? Cosa accade infine quando una patologia del docente sul piano della definizione dell’area intermedia (e, sia pur in misura infinitamente meno probabile, una patologia di un discente o di un gruppo di discenti), invece di essere assunta dal soggetto in prima persona, si diffonde per la classe?
E’ il problema del docente immigrato e della sua difficoltà di entrare in sintonia con l’area gruppale intermedia tipica dei discenti.
E’ il problema dei bambini immigrati e della compatibilità fra la loro stanza interna-esterna, la loro area intermedia socio-specifica che, fino al momento dell’arrivo nel luogo dell’immigrazione ha dato loro senso e quella degli altri.
E’ il pericolo che corrono tutti, e non solo i discenti o docenti immigrati, che tale luogo – in base ad una non chiara definizione di questo luogo o ad un interdetto che su di esso proviene dalle imago parentali interiorizzate, etc. – o sia vissuto come una vicinanza troppo pericolosa che potrebbe far entrare il soggetto stesso in rapporto con contenuti considerati egodistonici ogni volta che il soggetto compie, o si appresta a compiere, o ha appena compiuto una immersione dentro se stesso per ispirarsi.
L’istituzione scolastica, poi, spesse volte sembra fare di tutto perché a questi interdetti, che rendono egodistonici i luoghi che, invece, potrebbero divenire terreno di feconde coniugazioni interne al soggetto, se ne aggiungano altri che o scoraggiano le immersioni, o le rendono addirittura impossibili tabuizzando l’idea stessa dell’immersione, rendendola socio-distonica, vietata, off limits.
La presenza dentro di noi, nel momento dell’ispirazione, dei due introietti madre seno appagante o padre pene-pneuma fecondante, apparentemente risolve in termini banali e biunivoci il processo di esteriorizzazione dell’ispirazione. In effetti, però, anche in questo caso la varietà dei modi attraverso i quali dentro ciascuno di noi può avvenire, nel tempo, l’esteriorizzazione è, a ben vedere, infinita. In primo luogo poiché le modalità concrete che ciascuno di noi ha di accedere al “teatro della notte” sono strettamente legate al modo con cui concretamente nella nostra storia personale e nella nostra cultura (Arieti) siamo stati educati ad introiettare ed a trasformare in itinere i due personaggi (quello materno e quello paterno), diciamo così, archetipici che ci sospingono all’esteriorizzazione. In secondo luogo può accadere che, sempre in base a vicissitudini personali e sociali (Arieti) tali personaggi possono essere introiettati solo parzialmente ed instabilmente, oppure possono non essere introiettati affatto.
I rischi di una faticosa e difficile convivenza con i fantasmi materni o paterni che sono alla base dell’opera di esteriorizzazione sono molteplici.
Nel momento della virata, cioè nel momento della trasformazione dell’attività in passività, può accadere, ad esempio, che in scuola, allorchè i docenti sono costretti ad un confronto con i fantasmi formativi della propria formazione (e noi sappiamo che lo sono quotidianamente) siano costretti, in effetti, ad un raffronto che a volte può essere penoso.
Ed allora occorre vedere come sono andate le cose nella bottega frequentata da me, docente, quando io ero l’allievo? come mi sono impadronito, se ho potuto farlo, del latte materno e del pene paterno? e cosa ne faccio oggi, qui, in questa classe, di fronte a questi allievi che continuamente mi riportano al raffronto con miei personaggi interni e con le loro attitudini e con le loro idiosincrasie nei confronti di quel latte o di quel pene? li metto o no a disposizione dei discenti, e cosa provo quando li metto in comune con essi? Cosa mi spinge invece ad astenermi da quest’opera di distribuzione di cibo e di lievito ? le mie idiosincrasie ? oppure il fatto che un’avarizia, più o meno accentuata, mi impedisce di dispensare il mio sapere ? oppure ancora un personaggio interno particolarmente svalutante mi fa temere di non avere alcun pane da sparire con essi ?
Ricordiamo il significato di paidos-agogòs che sta per accompagnatore di fanciulli, cioè, proseguendo con le assonanze prodotte dal gioco dell’etimo, gioco che mai come in questa occasione si rivela come portatore di significati ampi e allusivi, per colui che mette il proprio pane in comune con i propri allievi.
Mettere il proprio pane in comune con gli allievi implica affrontare la prospettiva di una comunione che può significare anche farsi derubare, farsi fare a brani, etc. –
Per i discenti il problema, simmetricamente, sarà: come impadronirsi del latte e del pene simbolici che provengono dai docenti? quali echi interni provoca dentro di loro l’attività di imitare (Gaddini), di incorporare (E. Jacobson), di mordere (Abraham), di derubare (Mendel), etc.? a quali confronti con i primi introietti che su questo piano si vanno addensando dentro di loro, in base ali loro precedenti rapporti significativi (con i genitori e con le educatrici della prima e della seconda infanzia), il rapporto con i docenti attuali li obbliga?
E il tentativo di Imbasciati di definire una panoramica della patologia della creatività ha in questo il proprio limite: nel tentare una impossibile lista delle modalità creative e delle patologie; lista che ha il pregio di farci vedere la estreme complessità del fenomeno, ma che non può presa, a mio avviso come un prontuario diagnostico poiché le possibilità combinatorie che sono alla base della patologia dell’ispirazione, e più in generale della creatività, sono infinite.
 
 
Abbiamo parlato nei paragrafi precedenti di desessualizzazione e di eccitamento dell’Io, e avevamo affrontato il tema della desessualizzazione anche nei capitoli precedenti, ed in particolare in quello sulle passioni sublimate che prendono vicendevolmente i docenti ed i discenti. Ritorniamo ora per un momento, in questi appunti disordinati di viaggio, sull’argomento poiché le considerazioni generali fin qui fatte sul processo di ispirazione riaprono in certo qual modo il discorso sulla sublimazione e si spingono ad un approfondimento.
Viene infatti da chiedersi: e se, nel momento in cui il docente o i discenti possono tuffarsi dentro di sé andando a cercare i motivi più autentici che sono racchiuse nelle parti basse del proprio essere, il materiale con cui essi entrano in rapporto sono non è stato, o non può essere stato desessualizzato? Quali rischi corrono gli intrepidi argonauti, e cioè sia il docente che il discente, di definire il rapporto con il materiale incontrato nel viaggio di immersione in termini di equazione simbolica (cioè senza che un adeguato processo di desessualizzazione sia avvenuto), e non di simbolo desessualizzato? Ancora una volta, come è possibile intuire, molto (non tutto, fortunatamente) dipende da come è avvenuto dentro al nostro argonauta il processo di introiezione. In questo caso, anzi, ciò che pare assumere un significato preponderante è la fiducia, la coerenza, la persistenza nel tempo delle cure materne e paterne ; fiducia, coerenza e persistenza che sono alla base della sedimentazione (o meno !) nel soggetto di imago genitoriali che poi aiutano a discriminare e a distinguere, oppure sono improvvidamente portate a fare di ogni erba un fascio.
A questo proposito vorrei fare un esempio che penso ci permetta di comprendere anche il significato di quell’ottimistico “non tutto” : ho seguito in passato una bambina psicotica che, nell’approssimarsi alla crisi puberale tese ad accentuare i suoi sintomi che la portavano a compiere spesso delle equazioni simboliche. Per lei il racconto di una fiaba era, nonostante l’imperfetto che ai bambini permette di non essere ingoiati nella trama, una terrificante trappola nella quale spesso si andava ad aggrovigliare. Ebbene, con l’arrivo in prima media, e di fronte all’argomento del mito che la sua insegnante di lettere proponeva, come da curricolo, a tutta la classe, la mia paziente, che chiameremo Debora, era presa da continui terrori che derivavano dalle sue equazioni simboliche che la portavano a sentirsi sempre troppo coinvolta nella storia, ed in special modo negli aspetti aggressivi e distruttivi spesso presenti nei miti.
Debora, in una parola, non era in grado di desessualizzare la storia e di fruirne in termini sublimati. Per cui spesso chiedeva alla sua insegnante di rileggere i passi iniziali dei miti che l’insegnante proponeva alla classe e, di fatto, immobilizzava tutti sul limitare della storia, per tema di andare avanti e di sprofondare all’interno di un materiale che, per lei, era terrificante.
L’insegnante la prima volta accettò di riprendere la lettura sempre da capo e, di fatto, di fermarsi sul limitare del racconto. Poi non accettò più gli inviti che Debora le faceva e andò avanti confidando sulle sue capacità di tenere insieme la classe, e Debora all’interno di essa, in una in\lusione gruppale che poneva in luce, più che il contenuto specifico dei miti, il fatto che si era tutti lì a godere insieme di questo stato di comunanza. Il risultato fu che sorprendentemente Debora accettò di ascoltare e rimase in classe, invece di fuggire, come minacciava di fare all’inizio, ogni volta che l’insegnante si accingeva a leggere un racconto mitologico.

Un altro spunto di riflessione può venire dalle considerazioni di Kris sul rapporto fra regressione controllata dall’Io ed energia legata. Cos’è che sfa si che l’energia in questione sia energia legata e non libera? innanzitutto la sua condizione di egosintonicità, per cui le tracce mnestiche, alle quali sono andati a collegarsi i contenuti che il soggetto ha raggiunto nel suo processo di immersione, hanno qualcosa di famigliare e di non terrificante che invita alla coniugazione l’Io regredito e liberamente disposto ad un raccordo con qualcosa che non sia troppo distonico.
Questo significa innanzitutto che se il materiale egosintonico presente nel soggetto è scarso, poiché il soggetto stesso non si è potuto mai permettere una confidenza sufficiente con quella parte del proprio mondo interno, mano a mano ch'egli procede lungo il proprio percorso di crescita personale, diventerà sempre più improbabile che ci sia molto da legare nel momento di ogni nuova immersione.
Da queste immersioni infruttuose, da questa pesca via via sempre più misera nasce nel discente la demotivazione e l’ulteriore inibizione alle immersioni, in una spirale autosvalutativa che può assumere le caratteristiche del disastro, soprattutto se accompagnata da un atteggiamento ulteriormente demotivante e svalutativo da parte del docente.
Consideriamo ad esempio il discente immigrato di fronte al materiale, spesso per lui sociodistonico, che gli propone il maestro autoctono: se da parte del docente non c’è una disposizione alla comprensione ed alla valutazione dei motivi, sia pure distonici, di cui il discente immigrato è portatore, l’immigrato si sentirà sempre più autorizzato a inibire la sua voglia di immersioni e di ricerca dei propri motivi.

Una breve riflessione ora sul rapporto fra la funzione che la regressione dell’Io assume nel processo di ispirazione e le più ampie funzioni regolatrici dell’Io fuori della scuola ed in scuola. E’ noto che molteplici sono le funzioni dell’Io e che la regressione controllata dall’Io è solo, almeno in apparenza, un argomento marginale riguardante l’Io, specie in una civiltà ed in una cultura che esaltano la razionalità e la tecnica.
Eppure abbiamo visto che anche all’interno dei processi psicologici che conducono alle coniugazioni interne che permettono l’invenzione scientifica non solo ci si trova di fronte a processi di esteriorizzazione e di regressione dell’Io, ma che addirittura tali processi sono gli stessi che avvengono nell’artista e, sia pure in sedicesimo, nel comune mortale. Viene da chiedersi, però, dove fuori della scuola e dentro la scuola, vi è un luogo in cui la regressione dell’Io è autorizzata? dove il discente, e prima di lui il docente, possono sentirsi autorizzati a regredire sotto il controllo dell’Io e a saper riconoscere (nel senso letterale) la natura del materiale in cui ci si imbatte in questo processo di regressione controllata ? dov’è infine una scuola che ci insegni ad utilizzare tale materiale, a capitalizzarlo, ad investirlo nel nostro fare operativo?
Anche l’italiano spesso è visto, ad esempio, in scuola come il luogo di esercizio logico, più che come opportunità di immersione nei contenuti storici della nostra cultura e di innesco nonché di sviluppo della libera attività creatrice. per questa strada a volte la scuola diventa un luogo di uccisione della creatività.
Infine un accenno al contro-investimento (e al controinvestimento supplementare) dell’Io: è chiaro che, da una parte, se, invece di aggiungersi alla velocità dei fenomeni preconsci, il controinvestimento dell’Io è troppo forte il soggetto non si tufferà neanche a cercare nel proprio materiale quello egosintonico; se invece è troppo debole sarà, come Stevenson (prima del famoso “incontro” con i suoi Gnomi) e come la mia Debora alle prese con l’ascolto dei miti, sopraffatto dai fantasmi del teatro della notte.
 
Bibliografia

  • Abraham K., Ricerche sul primissimo stadio evolutivo pregenitale della libido, in: Opere, Vol. 1°, Boringhieri, Torino, 1975, pp. 258-285
  • Arieti S., Creatività – la sintesi magica, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1979
  • Cellini B., La mia vita, Einaudi, Torino, 1979
  • Gaddini E., Sulla imitazione, in: Scritti (1953-1985), R. Cortina, Milano, 1989
  • Käes R., Quattro studi sulla fantasmatica della formazione e sul desiderio di formare, in: AA.VV., Desiderio e fantasma in psicoanalisi ed in pedagogia, Armando, Roma 1981
  • Kris E., Ricerche psicoanalitiche sull’arte, Einaudi, Torino 1967
  • Imbasciati A., Sviluppo psicosessuale e sviluppo cognitivo, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1993
  • Jacobson E., Il Sé ed il mondo oggettuale, Martinelli, Firenze, 1974
  • Habermas J., La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Laterza, Bari 1979
  • Mendel G., La sublimazione artistica, in: AA.VV., Saggi sulla creatività, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1977, pp. 122 181
  • Stevenson R.L., Teatro della notte sogni e visioni; laboratorio dell’artista, Red Ed., Como 1987
  • Winnicott D. W., Gioco e realtà, Armando, Roma, 1974

 

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