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Lo schermo empatico, di Gallese e Guerra. Un’opera sui rapporti tra Cinema e Neuroscienze (parte II)

1 Nov 16

A cura di Matteo Balestrieri

  Nel mio post precedente (http://www.psychiatryonline.it/node/6479) scrivevo del volume di Gallese e Guerra “Lo schermo empatico. Cinema e neuroscenze”, che analizza il rapporto tra l’esperienza viva (cioè riguardante l’attivazione dei neuroni cerebrali premotori canonici e a specchio) della persona che osserva i movimenti delle persone circostanti e si immedesima (con la simulazione incarnata) in essi. Il volume affronta poi in maniera approfondita il tema della posizione dello spettatore che è seduto di fronte ad uno schermo per assaporare l’esperienza di un film. Per Gallese e Guerra tale tipo di esperienza viene descritto introducendo il concetto di simulazione liberata, che esprime l’esperienza della simulazione incarnata nel momento in cui ci stacchiamo dal mondo reale e ci poniamo in una dimensione dell’immaginario, attraverso il cinema. Tale simulazione liberata rappresenterebbe una situazione qualitativamente differente da quella dell’osservazione del reale ed è accentuata dalla condizione di immobilità dello spettatore.
 
  Questa immobilità in realtà non significa affatto che il nostro corpo non partecipa, ma anzi permette un coinvolgimento corporeo più profondo. Ciò che sostengono gli Autori è che l’immobilità, cioè un maggior grado di inibizione motoria, permette di allocare maggiori risorse neurali, facendoci aderire in modo più intenso a ciò che stiamo simulando attraverso i nostri neuroni a specchio.
 
  Per esemplificare questa teoria, viene preso ad esempio il famoso film Notorius di Hitchcock. La protagonista Alicia (Ingrid Bergman) è figlia di una spia tedesca che è stata indotta al suicidio, e sposa “per la causa” un vecchio amico di suo padre, a capo di un complotto filonazista. È tuttavia innamorata di Devlin (Cary Grant) agente segreto americano, che infine la salva. La nostra condizione cognitiva è quella di dover credere che i fatti si svolgono in un certo modo, anche se non vengono approfonditi i motivi ed i meccanismi della trama. Ciò che interessa ad Hitchcock è rendere lo spettatore angosciato dalla sensazione di pericolo che scorre in tutto il film. Ciò viene ottenuto attraverso l’uso di tecniche elementari di ripresa. Primi piani, movimenti di macchina, tagli di montaggio, soluzioni sonore sono tutte pratiche di immersione sensoriale cui rispondiamo a un livello preriflessivo, senza una elaborazione cognitiva. Ciò significa che la nostra risonanza motoria interna ha un ruolo importante nel processo di lettura del film.


  In una delle scene di Notorius, Alicia deve sfilare la chiave della cantina dal mazzo di chiavi del marito senza che lui se ne accorga. La scena è costruita attraverso un abile gioco di movimento di macchina che ci fa vedere il punto dove è il marito, gli sguardi di Alicia sul marito e sulle chiavi, e le chiavi stesse che sono poste sul tavolo. Il montaggio classico sarebbe stato quello di far vedere tutta la scena, che comprende la visione di Alicia che infine riesce a sfilare le chiavi dal mazzo. Ma Hitchcock aggiunge a tutto ciò un movimento di macchina che si avvicina al mazzo, e noi siamo indotti a pensare che quel movimento sia quello del corpo di Alicia.
 
  Si tratta di una falsa soggettiva, attraverso la quale i nostri neuroni sono attivati come se le chiavi fossero state afferrate e il compito di Alicia assolto. In realtà non è così, Alicia era ancora immobile in mezzo alla stanza. La simulazione motoria è stata così reale che quando ci rendiamo conto che Alice non si è mai mossa e che lo spostamento era solo nella mente di Alice stessa siamo piuttosto frustrati. Chi si è mosso in effetti è lo spettatore, non Alice, così che ci sentiamo impotenti di fronte a ciò che è accaduto. Gallese e Guerra ci stanno dicendo che noi abbiamo concretamente vissuto in prima persona, cioè abbiamo incarnato il (supposto) movimento di Alice attraverso la simulazione liberata (che è la simulazione incarnata dello spettatore immobile) prodotta dai neuroni a specchio, e abbiamo concretamente afferrato le chiavi attraverso i nostri neuroni canonici.
 
  Perché tutto questo avvenga deve esistere un certo grado di immedesimazione con i personaggi dello schermo, vale a dire una sorta di transfert con essi, come si rende evidente dall’esame di due altri film abbastanza sperimentali. Il primo, Una donna nel lago (1947) di Robert Montgomery, si regge quasi totalmente sullo sguardo soggettivo del protagonista, che non vediamo mai se non per brevi immagini quando si guarda allo specchio. È stato osservato che in questo film la mancanza completa della vista del personaggio non permettere l'immedesimazione, in quanto lo spettatore non è in grado di capire quali sentimenti e quali emozioni deve fare propri. Il secondo film, La fuga di Dalmer Daves, fu girato nello stesso anno dopo che i due registi si erano parlati della difficoltà di girare tutto in soggettiva. Però Daves ha utilizzato questo espediente solo nella prima ora del film, prima che al protagonista venga ricostruita la faccia e che lo spettatore scopra che ha le sembianze di Humphrey Bogart. Ciò attenua di molto lo spaesamento di un pubblico normalmente portato, in questo genere di film, ad identificarsi in un protagonista da cui ricavare certezze oggettive, con una chiara distinzione tra il bene dal male e il giusto dall'ingiusto. Riportando le parole di Casetti del 2009 (Filmic experience, in Screen 50, 56-66) Gallese e Guerra ci ricordano che l’esperienza filmica è caratterizzata dall’alternarsi di forme di “eccesso” e pratiche di “riconoscimento”, dove le prime hanno a che fare con un tipo di contatto che ci tocca direttamente ed eccede le nostre capacità di controllo razionale, mentre le seconde ci restituiscono non solo l’esatta idea di cosa stiamo esperendo, ma ci permettono di articolare e gestire la nostra esperienza. È quindi necessaria una dialettica tra eccesso e riconoscimento per ottenere una immedesimazione con il film.
 
  Il volume di Gallese e Guerra affronta diversi altri aspetti del processo di immedesimazione, cioè di simulazione incarnata nella prospettiva neurobiologica. Tra questi la necessità della chiara segregazione dello spazio filmico da quello occupato dallo spettatore, il ruolo dei movimenti della macchina, la simulazione incarnata ottenuta con le immagini di volti e mani rappresentati sullo schermo, il ruolo del montaggio del film per produrre processi di immedesimazione. Il tutto accompagnato da esperimenti scientifici effettuati con risonanza magnetica funzionale ed EEG. Per tutti questi aspetti rimando gli interessati direttamente alla lettura del volume
 
  In sintesi, il volume di Gallese e Guerra “Lo schermo empatico. Cinema e Neuroscienze” è di grande interesse per chi è interessato all’esperienza filmica dal punto di vista neuro-scientifico. La sua lettura richiede una rilevante attenzione, necessaria a comprendere sia gli esperimenti scientifici effettuati che i passaggi riguardanti i nessi tra neuroscienze cognitive e lo sviluppo delle diverse teorie sul cinema. È un’opera densa di nozioni, ma capace di dare emozioni in chi è appassionato di cinema. Certamente è un connubio riuscito.

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