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LO SGUARDO E LA RECIPROCITÀ

5 Giu 18

A cura di Giovanni Abbate Daga

Incrocio Paola nel corridoio dell’ambulatorio. Mi chiede di mettere in lista d’attesa una ragazza per il ricovero. Mi dice che la ragazza è motivata, anche se è preoccupata, ma lei ha fiducia che nelle prossime sedute possa essere maggiormente convinta a una cura intensiva come sono le terapie in un reparto di degenza. La ragazza a casa ha provato a combattere il sintomo, ma non riesce ad arginare il vomito e a vincere la paura di aumentare l’introito calorico. Il ricovero potrebbe rappresentare uno stop, ma anche uno stimolo. Apprezzo Paola, ha un modo attento di porsi in relazione, discreto, come si mettesse un poco da parte, per nulla seduttiva, poche parole dirette, capacità di ascoltare e di far comprendere che si è ascoltati. Piace ai pazienti: un ragazzo alla fine della cura mi disse che dopo la prima seduta con lei capì che non era impossibile “potercela fare”. Proprio questa espressione. Cose così, che succedono in terapia. Incontro di mondi inconsci.
 
Proseguiamo a parlare di altre situazioni, allarghiamo il raggio. Come altre volte parliamo della malattia anoressica. Paola condensa il pensiero in un’osservazione: “in fondo chi soffre di anoressia non si sente visto”. L’aforisma è potente, poggia su una delle categorie concettuali più intense del nostro mestiere: ciò che significano gli occhi, lo sguardo, vedersi e guardarsi, l’incrocio di due esseri, ed ancora l’oltre, l’orizzonte, il senso del mondo e di se stessi. Quanto abbiamo bisogno di un altro che ci guardi e ci veda? Quanto è abissale lo sguardo? E che cosa vediamo quando guardiamo un altro? E che cosa vediamo quando guardiamo noi stessi? Ricerca, aspirazioni, mancanza. Ed anche scostamento dall’immaginario, fraintendimento. Nell’immediato di uno sguardo corrono intense le emozioni, siano gioia o disillusione. Non è possibile non ripensare a Lacan, a Winnicott, a Mahler, a Stern e a tanti altri. Nella solita perfetta summa di Recalcati: “Lacan mostra come l’identità del soggetto […] dipende fondamentalmente dalla mediazione assicurata dallo sguardo di un Altro. […] Solo se il bambino si vede guardato dall’Altro, solo se si rivede nel volto dell’Altro, potrà autorizzarsi a guardare il volto del mondo.”
 
Il commento di Sartre sull’autoritratto di Tintoretto vicino alla morte è paradigmatico: “Si è dipinto di fronte e ci guarda […] che occhi immensi! Gli divorano il viso. Copriteli, e otterrete un’ammirevole mancanza di significato […] Scopriteli, ottenete l’uomo. […] quei due soli neri sono dei simboli […] manifestano la Potenza della visione. […] Ma mi vede? Con un occhio, forse: l’occhio sinistro. Quella pupilla scura interroga”. Quindi Sartre evoca il gigante dannato che si copre un occhio, dipinto da Michelangelo nella Cappella Sistina “quel gigante fruga nel mio cuore per vedervi quello che lui sente. E soprattutto per farmi sentire quello che lui vede. […] per rivelarmi meglio la sua dannazione pretende che io stia a guardare la sua […] ognuno di noi contemplerà la propria verità nell’anima guasta dell’altro” quindi ritorna a Tintoretto: “egli è riuscito nell’impresa prodigiosa di aprire il suo sguardo come un’ostetrica e di farlo penetrare nel nostro […]”
 
Chi soffre di anoressia quindi non ha incrociato lo sguardo dell’altro, non è stato visto? Ripenso a chi ho conosciuto in questi anni. Ripenso a B.: non ha mai raggiunto il menarca, è seria, rigorosa, in difficoltà nelle relazioni con gli altri, tende ad evitare gli incontri sociali e a ritirarsi, rifugge dall’intimità, di cui non conosce le sorgenti ma soltanto le secche. Suo padre si arrabbia spesso con lei, non tollera il suo comportamento, perde le staffe e negli accessi di rabbia dà il nome di zoccola ad un’esistenza monacale. Ho ascoltato diverse volte il racconto di C., da piccola si ritirava sotto il tavolo, non per gioco ma per paura, e lì – nel ricordo – passava un tempo interminabile, lento e vuoto, prima che qualcuno si accorgesse della sua assenza. Anche adesso pare che voglia essere un fantasma che svanisce, sempre laconica, si scusa e si dispera di essere al mondo, sa rendersi visibile solo sottraendosi e facendosi rincorrere, e alla fine allontana tutti, nel tragico destino della coazione a ripetere il trauma. E che dire di F.? Un ragazzo timido ed educato, a suo modo volitivo, curioso di Storia e di storie. F. nella vita vorrebbe anche farcela, se non fosse preso da dubbi ed incertezze che gli sbarrano il cammino e che lo fanno fare e disfare i progetti, gli studi, le soluzioni abitative ed entrare ed uscire dalla malattia in quel calvario che è “la ricaduta” nell’attività fisica estrema e nella restrizione alimentare. Il padre se ne è andato quando F. era ai suoi primi passi nel mondo. Il padre che si pone con lui e con tutti come un marine, nessun tentennamento, i problemi si azzannano, le paure non esistono, i racconti di fantasy sono una fesseria da bambini. Per il padre la vita bisogna godersela senza remore, inclusi i piaceri del cibo. F. da adolescente ha cercato il padre alcune volte, ha vissuto con lui per alcuni periodi. Anche F. ama la buona cucina, ma anche la teme (i sintomi parlano). Dopo qualche mesi di convivenza con il padre si è sempre sentito ferito, deluso, non compreso, non atteso: il padre era sempre avanti, avanti, avanti, come un marine appunto, e mai in grado di stare al fianco del figlio, meno che meno qualche passo indietro.
Nell’ascolto durante la cura ciò che è visibile è il dolore dell’assenza.
 
Per questi racconti da anni rifletto sulla responsabilità di un genitore rispetto al proprio figlio. Non ho mai risposte definitive. E’ una riflessione difficile, largamente elusa dalla psichiatria contemporanea, per alcune buone ragioni come la complessità della questione e per altre meno buone ragioni come la scusa (la furbata?) di evitare polemiche. Ma proprio un padre di un paziente mi ha incoraggiato definitivamente a non aver paura del confronto. Mi disse una volta: “Sarò polemico con lei, ma non si crucci. Vengo da una cultura per cui la polemica era una bella cosa”. Da quel padre in seguito imparai lavorando insieme. E in effetti sull’argomento genitore-figlio nutro pensieri polemici, nel senso di divisi e divisivi rispetto ad altri e rispetto a me stesso. Credo che la riflessione sul ruolo della genitorialità non possa che essere nebulosa. Quando discussi alcune idee sulla famiglia con un noto psicoanalista, mi fece notare che le mie affermazioni si contraddicevano l’una con l’altra in un avvitamento logico. Non potevano portare ad alcuna teorizzazione. Aveva del tutto ragione, ma non riesco a vederla diversamente. Rimango dell’opinione che la nostra disciplina sia una scienza a posteriori – le traiettorie della patogenesi del disturbo si chiariscono nel lavoro terapeutico con quel paziente in quella situazione, quegli eventi, quei vissuti, quelle memorie – ma non sia una scienza a priori dove una volta per tutte si possano chiarire le determinanti del comportamento genitoriale.
Perciò seguo le mie contraddizioni. Di pancia mi chiedo dove erano allora i genitori dei figli che visito ora, che cosa è loro sfuggito, per quale motivo non si sono accorti delle sofferenze del loro bambino. Perché così miopi? Come hai potuto, padre o madre, come hai potuto? Poi penso che anche i genitori hanno una loro storia, una storia che un figlio comincia a leggere solo dopo che la metà dei capitoli sono già stati scritti. Un genitore può a sua volta avere alle spalle una vita scombinata, costellata da una serie di ascessi psichici che sono rimasti incistati. O può smarrirsi durante l’infanzia del figlio. Anche un genitore può non avere le forze e la capacità, non è mica una colpa. Forse avrebbe potuto farsi aiutare, ma non è facile dire “ ho bisogno di aiuto, non ce la faccio”. Non è facile per mille ragioni. E non è un caso che chi soffre di anoressia non riesca mai a dire a se stesso “sono stanco, posso fermarmi, posso concedermi un piacere. Farcela sempre a qualunque prezzo non è l’unica cosa che conta”. La verità è che ci sfuggono molte cose.
 
Penso quindi al ruolo del figlio. Scrive Hillman “Non è tanto il trauma che crea il danno, quanto il ricordare in modo traumatico […] Mettiamo il caso che mio padre mi picchiasse con la cinghia o con la frusta, o venisse a letto con me, o mi pestasse a sangue spesso e volentieri. Qualche volta era ubriaco mentre lo faceva; qualche volta lo faceva perché era un miserabile figlio di puttana; qualche volta picchiava me perché non sapeva chi altro picchiare. E io continuo a ricordare queste violenze. Nella memoria rimango una vittima. La memoria […] continua a tenermi nella posizione di figlio. […] Ma posso riuscire a pensare la brutalità come un’esperienza di iniziazione. Le ferite dovute a mio padre hanno prodotto in me qualcosa per farmi capire la punizione, la vendetta, la sottomissione, la profondità della rabbia tra padri e figli […] Con la mia sofferenza sono entrato in un mondo immaginale, non in un mondo semplicemente traumatico […] La memoria è una forma di narrativa”. So che è vero da quando queste trasformazioni le ho viste in psicoterapia. E semplicemente si vivono in tutte le vite, con il trascorrere degli anni, si vivono nelle esperienze personali, o collettive, o ascoltando la narrazione di un maestro-sciamano che può indicare il sentiero. Allora anche un vincolo insormontabile, può diventare possibilità. Alla fine non ci resta altro che fare la torta con gli ingredienti che la vita ci ha dato.
 
Vi sono tuttavia anche traumi nei primi anni di vita, che nell’impatto devastante inibiscono lo sviluppo della capacità di leggere gli stati mentali altrui. In questi casi il genitore veicola stati mentali mortiferi troppo gravosi, danneggia lo sviluppo della “funzione riflessiva” (Fonagy), lascia allo stato grezzo l’”apparato per pensare” (Bion) ostacolando i processi metacognitivi in tutte le relazioni intime. La salvezza del figlio è fuggire lo sguardo, che può pietrificare come quello della Gorgone. Rifiutarsi di capire l’odio del tuo genitore verso di te può salvarti la vita. Il prezzo è quasi sempre altissimo.
E allora siamo al punto di partenza, bisogna essere lì ad ascoltare ogni individuo per capire qualcosa della sua storia e delle sue possibilità di cura. In questo discorso dove le carte si mescolano l’asso alla fine non c’è. Occorre cercare – spesso a tastoni – il varco che guidi agli occhi del paziente e provare a capire che cosa vedono i suoi occhi. Bisogna identificare il grado di responsabilità che il figlio può prendersi sulle spalle rispetto alla sua storia o le compensazioni che imparerà per mitigare i deficit.
 
Inoltre mi domando quanta avidità di essere visti fermenta nei ragazzi di oggi. Quei ragazzi cresciuti nel passaggio dalla società della colpa alla società della vergogna, che Pietropolli Charmet descrive con chiarezza. La conseguenza di tale rivoluzione della genitorialità è che vedere l’Altro oggi è più difficile. Ma se sei cieco all’altro, non puoi nemmeno vedere se sei visto. Le storie delle generazioni precedenti erano terribili. Maria e Elda, prozie che ho conosciuto, nacquero austroungariche, rimasero orfane a 7 anni e alla nascita, quando avevano 9 e 2 anni scoppiò la prima guerra mondiale. Il loro borgo italiano era sul fronte di guerra, così vennero deportate in un orfanotrofio viennese che una notte prese pure fuoco, capivano e non capivano il tedesco. Tornarono con le bandiere della retorica nell’Italia redenta, riunite al padre che si portava dentro quattro anni di guerra. Le conobbi da vecchie, cortesi e scherzose. Quale fortuna le cavò dal naufragare in tutto quel dolore senza bussola? Forse le salvò il fatto che quelle storie erano condivise. Potevano essere narrate in coro e la narrazione era vista da tutti e pazienza se la tua personale vicenda non era proprio in prima fila, aveva comunque un significato comune che si inseriva nello scenario tragico della storia e in una diversa weltanschauung del rapporto tra uomo e collettività e tra individuo e sofferenza. Da almeno sette secoli era dato per scontato che – ovvio – occorre farsi “ben tetragono ai colpi di ventura”.
Invece per un ragazzo del XXI secolo è a volte insopportabile non essere visti. Non vi è narrazione: se non sei visto, sei un loser e basta. A tredici, quattordici, quindici anni, nel nostro tempo liquido del riverbero delle immagini, per un adolescente essere visti è tutto. I ragazzi oggi utilizzano l’etichetta “popolare” per definire chi ha una vita social di successo. “Popolare”, curiosa curvatura semantica, uso individualistico e televisivo di un termine che nella tradizione ha spesso rappresentato una pars politica, un gruppo, un valore. Tanti saluti alle ideologie del passato. Per essere “popolare” devi apparire, metterti in mostra. All’inizio il palco è allestito in classe, nello sport, nei gruppi. Ma per arrivare a tanti altri ragazzi, magari sconosciuti, devi curare la tua immagine, diventare impresario di te stesso. Produrre immagine ed immagini: foto, foto, foto che rimbalzano su instagram e negli altri mille specchi della rete con una confusione pazzesca tra essere visti ed essere visualizzati. La visualizzazione ha la freddezza del numero, si conta, non è personale, è anonima. La visualizzazione si può comprare, pagando i like a qualche società. Ad un certo punto si guarda quanto sei stato visualizzato. Si guarda chi ti ha guardato. E’ la tua immagine che interessa o la tua visualizzazione, sei tu che interessi o il tuo pubblico? “Essere invidiati, ammirati non è un sentimento. E neanche la popolarità è un sentimento. […] Non credere alle fotografie. La popolarità non è l’uscita dalla gabbia” (Foster Wallace). Se le cose non portano con sé sentimento non bastano mai. Possiamo immaginare come può sentirsi il ragazzo ferito in un mondo che propone al posto di essere visti l’essere ammirati come valore assoluto e fondamentale. Ammirare deriva da ad-miror e non casualmente è un verbo che ha sempre a che fare con lo sguardo. Significa guardare verso, guardare a, con stupore. Ma è tutto un altro sguardo. Uno sguardo che crea distanza, perchè ammirato e ammirante sono in rapporto ma non in relazione. Sui social il bambino che nel passato è stato ferito dallo sguardo che non vede, rimane comunque invisibile, nel trionfo come nell’esclusione perché non inizia una relazione, rimane solo. E’ tutto così istantaneo nel mondo della visualizzazione, lo sguardo non si fissa, rimane pochissimo, passa oltre, senza continuità, senza costanza. Sei sorpassato da altre immagini di altri, devi sempre rincorrere in un gioco di apparizioni e scomparse che, aumentando la velocità di rotazione, rendono tutto uniforme, come nel moto dell’elica. Già è difficile sentirsi visti in adolescenza, e come è difficile essere ragazzi oggi, in un’epoca di esasperata spinta alla visibilità. Se non c’è costanza non c’è memoria, se non c’è memoria non puoi essere pensato. Non resti. Non resisti. Non esisti.
 
Per non perdersi nell’oceano dell’adolescenza postmoderna devi aver imparato a guardare. A guardare in fondo alle persone, ad acuire la vista per distinguere, a saper guardare oltre. Le malattie di oggi – disturbi alimentari, disturbi narcisistici, disturbi borderline di personalità, dipendenze – sono disturbi in cui l’agito, il corpo, i mondi artificiali delle droghe occultano il bisogno di comunicazione. Sono disturbi della solitudine, una solitudine connessa all’espansione terrifica del proprio universo, senza il contenimento che deriva dallo spazio-presenza dell’altro. La cura risiede nell’altro, ma la tragedia è che dell’altro spesso non si conosce la lingua, a volte nemmeno l’alfabeto. Solo chi avrà la costanza di iniziare a lallare con te, si prenderà cura di te. Nel romanzo fiume di Knausgård “La mia battaglia”, più di duemila pagine che scorrono irruente e diseguali sulla propria caleiodoscopica vita, vi è un bellissimo passo su che cosa significa apprendere un linguaggio interumano. Knausgård crebbe negli anni ’70 accanto ad un padre cupo, sadico e ossessivo, e quando il padre prese a ubriacarsi andò peggio. Per Knausgård fu la presenza della madre a salvargli la vita. “Lo avevo preso da mia madre, fin dai tempi delle scuole medie facevo con lei lunghe conversazioni sulle persone che avevamo incontrato o conoscevamo, quello che avevano detto, perché potevano averlo detto, da dove venivano, chi erano i loro genitori, in che tipo di casa vivevano, il tutto intrecciato a domande […] Questa conversazione che era ancora in atto aveva dato una direzione al mio sguardo, che era rivolto a ciò che si creava tra le persone che vedevo sempre ed era ciò che io cercavo di spiegare, a lungo avevo anche creduto di essere bravo a vedere gli altri, ma non lo ero, vedevo soltanto me stesso ovunque mi voltassi, ma forse non era neppure quello ciò su cui vertevano in primis le nostre conversazioni, era qualcosa di diverso, riguardavano la mamma e me, era lì, nel linguaggio e nella riflessione, che ci avvicinavamo l’un l’altra, era lì che eravamo uniti.”

Risuonano le parole di una madre che racconta: “volevo far contenta mia figlia. Facevamo molte cose insieme, io proponevo e lei sembrava contenta. Io le chiedevo di dirmi che cosa preferiva fare e lei sceglieva. Sembrava tutto armonico e positivo. Mi avesse detto una volta che non era d’accordo, che voleva qualcosa di diverso”. Sembrano parole di giustificazione, ma nel racconto della madre c’era invece amarezza per le occasioni perdute e un’ombra di colpa che sentiva come un peso. L’anoressia nervosa fu per quella famiglia una possibilità. Gli sguardi si cercarono a lungo prima di incrociarsi. Genitori e figli tuttavia vedevano – pur separati – lo stesso desiderio, il desiderio di trovarsi.
Lo sguardo allude al mistero della reciprocità.

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