Che le gravi forme di depressione vadano trattate anche con mezzi farmacologici, a me pare indiscutibile: la depressione, oltre che far soffrire terribilmente il paziente, a lungo andare produce danni permanenti di ordine psicologico, sociale, biologico; va, quindi fermata con i farmaci, che consentono di ottenere risultati in tempi relativamente brevi. Tuttavia la cura finisce per rivelarsi gravemente incompleta se non si è aiutato il paziente a fare un uso più razionale e più sano della sua aggressività e del suo amore.
Il depresso rivolge l’aggressività verso se stesso: questo è un fatto clinicamente evidente. Meno evidente è quando egli volge il suo odio verso ciò che costituisce un prolungamento, o una continuazione, o un complemento della sua esistenza soggettiva individuale. Può trattarsi dei suoi congiunti, o della comunità, o della cultura cui appartiene. Ciò equivale a dire che egli odia tutte le cose, o le persone, o i rapporti senza i quali la sua esistenza individuale (anche nella sua dimensione soggettiva) non sarebbe possibile. Vediamo, in particolare, il rapporto coi figli. Essi rappresentano il modo più naturale con cui possiamo lasciare, anche oltre i limiti della nostra esistenza individuale, qualcosa di noi stessi che sopravvive (non escludo che, in alternativa, questo qualcosa possa essere un nostro apporto alla cultura, o alla società, o a individui più giovani). Mettere al mondo i figli e prendersene cura è un modo per impiegare il nostro amore che soddisfa anche la forma più evoluta di narcisismo: quella che ci consente di amare noi stessi (l’equivalente di noi stessi) anche in qualcosa o qualcuno che rimarrà oltre la nostra fine corporea. Potremmo dire che si tratta di “egoismo” nella sua forma più evoluta ed altruistica.
In alcuni dei suoi sonetti, Shakespeare si rivolge all’amico che non si decide a mettere al mondo figli. In particolare, nel sonetto X, egli definisce in questo modo il rifiuto dell’altro di diventare padre:
Grant if thou wilt, thou art belov’d of many
But that thou none lov’st is most evident:
For thou art so possess’d with murderous hate,
That ‘gainst thyself thou stick’st not to conspire…
(Ammetti, se vuoi, che sei amato da molti, / ma che tu non ami alcuno è più che evidente: / poiché sei tanto pervaso d’odio omicida / che non smetti di cospirare contro te stesso)
Shakespeare, con la sua sensibilità di grande Artista, coglie qui nell’amico, al di là del suo apparente desiderio di godersi la vita da scapolo, lo stesso “morderous hate”, l’odio omicida-suicida che si manifesta nel grave depresso; odio rivolto, in questo caso, verso la futura progenie. Vede, in questo sentimento, il motivo del rifiuto dell’amico di dare vita alla sua discendenza. Comprende inoltre che quest’odio è rivolto, in ultima analisi, verso se stesso. Un terapeuta non saprebbe fare di meglio, anche nel trattare forme di depressione latenti. È, infatti, da sottolineare che Shakespeare non intende indottrinare l’amico, o rivolgergli un sermone moralistico: la sua è una semplice, acuta osservazione che, se sarà ascoltata, consentirà all’altro di rendere più acuta l’osservazione di se stesso, e di evitare di cadere in una forma di sofferenza che, da un certo momento in poi, sarà irreversibile.
Ovviamente, neppure il sottoscritto intende indottrinare il lettore riguardo alla necessità di mettere al mondo figli (anche perché, come dicevo più sopra, esistono scelte alternative che consentono di prolungare oltre la morte la propria esistenza individuale). Si tratta, piuttosto, di un invito a considerare una delle possibili direzioni che può assumere il “morderous hate” rivolto verso se stesso del depresso, e che questi ha bisogno di comprendere per poterlo superare. Naturalmente, occorrerà anche aiutare il paziente a comprendere come quest’odio è nato, i motivi per cui gli appare giustificato, ed il perché si è diretto verso di sé e verso ciò che lo completa.
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