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Logica canaglia! Lacan e il metalinguaggio.

28 Set 13

A cura di Fabio Milazzo

La produzione teorica di Lacan, spesso, è stata incardinata sotto la cifra “etica”, quasi a volerne rimarcare una declinazione “pratica” altrimenti non immediatamente percepibile. Qualora qualcuno, ammaliato dalle circonlocuzioni verbali, dalle stranezze del personaggio, lo avesse dimenticato, prima di tutto Lacan è uno psicoanalista, un soggetto che prova a decifrare le costellazioni sintomatiche di quanti vanno in analisi perché lamentano il loro essere in questione, il loro vivere un rapporto conflittuale con l’universo delle pulsioni. L’essere in questione del soggetto è il baricentro attorno al quale si dispone ogni processo analitico, il che vuol dire che l’ontologia, intesa come sapere dell’essere, ha una declinazione patica che irrimediabilmente la dispone sul piano etico relativo al «cosa fare del sintomo». L’essere di quell’ente particolare che è l’uomo è una «quaestio»[1] , nel duplice significato di “problema” su cui il soggetto è chiamato a prendere posizione e di sentenza emessa da un giudice implacabile quale è l’inconscio. Questa duplice accezione, cui si può collegare quella della “tortura” che il soggetto infligge a se stesso per evitare di prendere contatto con questo “sapere”, non fa che sottolineare il carattere etico di questa ontologia che strisciante si fa largo lungo la produzione lacaniana.
 
Il “senso” dell’essere coincide con la messa in questione del soggetto e, quindi, con la costellazione sintomatica che ne organizza lo “stare al mondo”. L’onto-logia, come discorso sull’essere, è analitica della soggettività sofferente, questo secondo Lacan, l’assunto che dovrebbe rendere opaca ogni pretesa riguardante la “piena cattura” dell’essere, la possibilità di esaurirne il senso. Ma cos’è l’essere? In definitiva è questa la domanda che alberga alle spalle di ogni questione. Lacan, in Encore, risponde: «l’essere per me è l’essere della significanza»[2]. In altre parole è il processo attraverso cui viene denotato "qualcosa" attraverso un significato nella convinzione che essere e linguaggio coincidano e che “dire qualcosa” significhi predicarne l’essere. La tradizione filosofica, da Parmenide in avanti almeno, ha inteso con “essere” l’orizzonte ultimo entro il quale si determina, acquista “senso”, tutto ciò che c’è: dire l’essere vuol dire dimorare nello spazio della significazione, nel luogo dove ha origine la “verità”. Affermare che “Parmenide è bello” vuol dire predicarne una qualità e, allo stesso tempo, sottolineare che Parmenide esiste (in che forma e secondo quale grado è un’altra questione). Per i Greci, come sappiamo, la differenza tra la “è” copula e la “è” dell’esistenza non era chiara[3], né ben delimitata, quindi predicare un attributo e al contempo, implicitamente, evidenziare l’esistenza dell’ente cui la qualità verteva era parte dello stesso processo.  Da qui la conseguenza secondo la quale il “non-essere” è impossibile, anzi in-dicibile; infatti, contenerlo all’interno di un giudizio significava affermarne anche l’esistenza. La questione, come possiamo immaginare, era foriera di paradossi, incomprensioni, antinomie e confusioni varie: in esse Gorgia avrebbe sguazzato come una papera nello stagno. L’irruzione sulla scena di Platone avrebbe riportato un po’ di ordine nella questione.
 
Essere e linguaggio, fin dagli albori della filosofia si trovano avvinghiati in un abbraccio che rischia di diventare sempre mortale, ora per l’Uno, ora per l’Altro: «L’essere di qualunque cosa che è abita nella parola. Ha dunque senso l’affermazione: il linguaggio è la dimora dell’essere»[4]. La verità dell’essere, secondo quanto detto, è tale solo perché può essere detta, ma affinché ciò sia possibile, oltre al linguaggio e all’essere, è necessario introdurre un terzo, fondamentale, elemento: chi questa verità la dice. Lacan concettualizza questo “chi” attraverso il termine «parlessere».
 
Cosa vuol indicare con questo neologismo? Ciò che Lacan nell’ultima parte del suo insegnamento definisce parlessere (“parlêtre”) indica proprio che la costituzione di un mondo, come effetto di senso, si produce per la soggettività come scarto dell’azione del linguaggio, resto di un gioco pulsionale tra significanti che si origina nello spazio lasciato vuoto dall’evaporazione della Cosa. Il soggetto “dice l’essere” godendo, questa la tesi di Lacan che sutura inscindibilmente i tre elementi appena elencati con un quarto: la jouissance. Questa dimensione rimanda al campo di tensioni entro cui le pulsioni prendono vita e senso (direzione). La jouissance, o il «j’oui-sens», è la tensione ineliminabile tra il sentire (“viscerale”) il piacere, «io g-odo», e il sentire (“udire”) la voce del senso che fu, «io odo».[5] Il soggetto rincorre il senso, e quindi significa l’essere, andando dietro alla propria forma di godimento, alla propria organizzazione sintomatica. Ne deriva che il soggetto è sempre alienato da se stesso, lontano dal centro organizzatore della propria vita pulsionale: «il godimento è sbarrato a colui che parla in quanto tale»[6]. Questa distanza da se stesso rende opaco, come dicevamo, ogni processo di significazione che risulta essere lo scarto della personale fuga del godimento. La verità sul senso dell’essere risulterà sempre mancante, non-tutta, subordinata alle esigenze pulsionali del godimento. Ogni interrogativo sull’essere dell’ente, in ultima istanza, si presenta come un’analitica sul soggetto che pone la quaestio. Un soggetto che interrogando(si) sta rincorrendo il proprio godimento, la propria soddisfazione pulsionale. L’enigma della significazione è, quindi, il mistero dell’essere in questione, del parlêtre che domandando chiede, in ultima istanza, conto del proprio sintomo, della propria, particolare, forma di godimento. Mancando il punto di osservazione privilegiato – abbiamo appena detto che il soggetto è barrato- ciò che viene meno è la possibilità di ogni meta-linguaggio, cioè di un discorso in grado di dire il “vero del vero”.  
 
Quanto detto dovrebbe aver implicitamente chiarito anche la diffidenza lacaniana verso la “logica”. Lacan, a dirla tutta, nei seminari non sembra esser mai stato molto chiaro su quale logica abbia in mente ma possiamo desumere che si riferisca a quella "classica" organizzata intorno ai tre principi di Aristotele. Che cosa lamenta Lacan? La possibilità da parte di questa di poter affermare la “verità della verità”. La logica è una  canaillerie perché promette più di quanto è in grado di garantire essendo indimostrabile almeno uno dei suoi principi: quello di identità. A è sicuramente diverso da A nel caso del parlêtre, del soggetto che parlando insegue il proprio godimento. Il soggetto è sempre opaco nei confronti di se stesso, quindi impossibilitato a dire la verità che lo riguarda, il senso dell'essere. Implode, quindi, il sogno delirante di chiudere il cerchio della significazione intorno ad un punto di osservazione privilegiato. L’etica della psicoanalisi comincia da qui.
 



[1] Cfr. Quaestio in Treccani.it. L’enciclopedia italiana al seguente indirizzo: http://www.treccani.it/enciclopedia/quaestio/
[2] Cfr. J.Lacan, Il Seminario XX. Ancora, Einaudi, Torino 1975, p. 71.
[3] Vedi le simpatiche e penetranti riflessioni sul problema dell’esistenza sotto il piano logico sviluppate da F.Berto in L’esistenza non è logica. Dal quadrato rotondo ai mondi impossibili, Laterza, Roma-Bari 2010.
[4] Cfr. M.Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Torino, p.132.
[5] Cfr. N. A. Braunstein, La jouissance.Un concept  lacanien, Point hors ligne, Paris 1992, pp. 18 e segg.
[6] Cfr. J. Lacan, Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio in Scritti, trad.it. a cura di G. B. Contri, Einaudi Torino 1974, p.825.

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