La post-verità tra informazione e complottismi
Inserire su Google i termini “vaccino” e “autismo” è un’esperienza che può dare le vertigini. Migliaia di articoli[1] si contendono l’attenzione del lettore cercando di far prevalere la propria verità, in un caleidoscopio di narrazioni, di dati, di retoriche strumentalmente costruite per convincere, per persuadere. Il primo contributo della lista disposta dall’algoritmo proviene da un sito intitolato “emergenza autismo”[2], ed è una difesa del nesso tra autismo e vaccini. Il sito afferma perentoriamente in apertura che «il danno da vaccini è una causa documentata di autismo». Di seguito fa riferimento ad una presunta «nuova revisione di studi sul Journal of Immunotoxicology» a cui viene associato il nome di Helen Ratajczak, «una ricercatrice della Boehringer Ingelheim Pharmaceuticals», secondo il sito in questione. La faccenda è già stata discussa – e decostruita – dal sito Butac[3], quindi non ci ritorneremo. Interessante, tra le altre possibili osservazioni, è che nel medesimo articolo di Butac viene espressamente chiarito che «la ricercatrice in questione [Helen Ratajczak] non lavora per la Boehringer da tempo, l’ultimo studio pubblicato è del 2011 ed è un paper teorico attaccato dalla comunità scientifica per la totale mancanza di dati e di metodo scientifico»[4]. Informazioni queste che fanno emergere qualche ombra sulla fisionomia di ricercatrice della dottoressa e che nel sito “emergenza autismo” non vengono menzionate. Tutto ciò non è senza conseguenze. Infatti, nel lettore che legge il nome della ricercatrice si apre un mondo legato al termine “ricercatrice”, alle associazioni che questo porta con sé, dato che, come ha insegnato il linguista George Lakoff, ogni individuo si esprime attraverso «frame», cioè cornici di riferimento, insiemi di immagini e relazioni tra concetti che strutturano il pensiero, fin dalla primissima infanzia. In questo senso ogni termine porta con sé un mondo e, nella fattispecie, induce più di un lettore a ritenere “scientifica” – cioè verificabile a determinate condizioni – la notizia e, dunque, il nesso sbandierato tra vaccini e autismo.
L’effetto è quello che si delinea nell’orizzonte della cosiddetta post-truth, il sintagma che indica la crisi del simbolico, vale a dire l’impossibilità di denotare in ultima istanza la realtà significata, poiché manca l’autorità garante del riferimento ultimo. Ciò ha prodotto la disseminazione delle narrazioni e, con esse, la diffusione di un mucchio di false notizie (fake news), spesso difficilmente verificabili perché basate su una costruzione retorica che mette insieme elementi verosimili e, appunto, fake news. Il regime di post-truth ha suscitato parecchio interesse, tanto che la parola che lo denota è stata eletta parola dell’anno dall’Oxford Dictionary[5] ed è riuscita a coinvolgere anche i linguisti dell’Accademia della Crusca che si sono interrogati sulla pregnanza e il valore del termine. Arginare la diffusione di false notizie non è semplice, se n’è accorto il dott. Burioni, medico e professore di microbiologia e virologia all'università San Raffaele di Milano, autore di un essenziale libro – Il vaccino non è un'opinione: Le vaccinazioni spiegate a chi proprio non le vuole capire[6] – che smaschera tanta pessima informazione sulla questione dei vaccini. Egli, da tempo, tiene su Facebook una pagina[7] in cui cerca di parlare di vaccini separando la scienza dalle opinioni. Più spesso la realtà dalle bufale. Una esemplare operazione di “verifica dei fatti” – o di fact checking[8]– tanto utile, quanto foriera di innescare gli interventi scomposti dei tanti agitatori del web. Roberto Burioni, muovendo da un caso specifico e criticando dati alla mano una delle più diffuse bufale di questo periodo, vale a dire la credenza che i casi di meningite siano dovuti alle migrazioni dall’Africa, ha così giustificato la prassi di cancellare diversi commenti dei tanti interlocutori che, più o meno a sproposito, intervengono sulla sua pagina:
«Il mio tempo in generale viene retribuito in quantità estremamente generosa – si legge nel suo post -. Il rendere accessibile i concetti richiede semplificazione: ma tutto quello che scrivo è corretto, e inserendo io immancabilmente le fonti, chi vuole può controllare di persona la veridicità di quanto riportato. Però non può mettersi a discutere con me. Spero di avere chiarito la questione: qui ha diritto di parola solo chi ha studiato, e non il cittadino comune. La scienza non è democratica»[9]
La risposta, dal tono piccato, risoluto, ha scatenato le prese di posizione di chi ritiene che tale atteggiamento sia anti-democratico e contrario allo spirito di discussione che dovrebbe animare le relazioni sui social network. L’idea di fondo che anima, e in un certo senso rende comprensibili, questi interventi può essere ricollegata al sintagma “Intelligenza collettiva”, reso celebre da Pierre Levy. Secondo lo studioso delle implicazioni culturali dell'informatizzazione «in primo luogo bisogna riconoscere che l'intelligenza è distribuita dovunque c'è umanità, e che questa intelligenza, distribuita dappertutto, può essere valorizzata al massimo mediante le nuove tecniche, soprattutto mettendola in sinergia. Oggi, se due persone distanti sanno due cose complementari, per il tramite delle nuove tecnologie, possono davvero entrare in comunicazione l'una con l'altra, scambiare il loro sapere, cooperare. Detto in modo assai generale, per grandi linee, è questa in fondo l'intelligenza collettiva»[10]. Una potenziale – e metafisica – intelligenza, secondo questa lettura, attende di essere risvegliata e sollecitata grazie allo scambio e alla messa in comunione delle singole intelligenze attraverso il web. In evidente, quanto paradossale, conflitto con questa presunta intelligenza, la pagina Facebook del dott. Burioni è stata invasa da commenti sulla questione “vaccini” – cancellati a detta dello stesso Medico – privi di qualunque argomento a supporto, violenti nei toni e arroganti come lo sono generalmente quelli mossi dalla convinzione di essere nella luce della Verità, quella con la maiuscola. Commenti confusi, molti disarticolati e ingenui, che ben poco spazio lasciano allo scambio, alla discussione produttiva e alla sinergia. E’ questo l’orizzonte della post-truth.
Il paradigma Napalm 51
Maurizio Crozza, in quello che forse è uno dei suoi personaggi più riusciti, volendo rappresentare queste situazioni e, soprattutto il tipo di internetnauta che c’è dietro, ha creato la maschera di «Napalm 51». Un personaggio a metà tra il troglodita e il sociopatico, che nel trucco evoca il Grande Lebowsky[11], e nell’etica rappresenta – prendendo in prestito e traslando le parole di Umberto Eco – la celebrazione dello «scemo del villaggio a portatore di verità»[12]. Napalm 51 sguazza nel clima eccitato ed esagitato di ogni discussione, anzi tende ad alimentarlo, proprio perché attraverso l’anonimato virtuale può dare sfogo a quell’aggressività che socialmente è disapprovata in quanto indice di mancanza di controllo. Contrariamente a quanto sostenuto da Levy, con l’idea di “intelligenza collettiva”, il confronto a cui prende parte Napalm51 non si giova del suo apporto ma diventa scomposto, polarizzato intorno a posizioni dicotomiche basate sul “pro” e sul “contro”. Il contenuto dell’intervento è divisivo e, quasi sempre, tende a presentarsi come risolutivo, definitivo, portatore di una verità che va oltre la verità e che ha lo scopo non tanto di informare, quanto di confermare lo status di chi se ne fa veicolo. Inoltre è spesso basato su informazioni dall’origine ambigua, confusa, non chiaramente verificabili e che afferiscono ad ambiti settari, quasi esoterici. Il ritratto è quello del presunto “controinformatore”, il “parresiasta 2.0”, una specie di moralizzatore del web che ritiene un imperativo categorico quello di smontare le verità ufficiali.
Questo modo di agire, a tratti caricaturale in alcuni personaggi, favorito dal senso di distanza e dal possibile anonimato offerto da un profilo a cui può non corrispondere nessuna identità reale, fa presa soprattutto su un ambito di persone, quelle convinte che dietro a un fenomeno e alla sua spiegazione ufficiale ci sia sempre dell’altro. Qualcosa di poco chiaro che un complotto perdurante, tenuto in piedi da misteriosi contropoteri globali, farebbe di tutto per tenere nascosto. Questa sindrome del complotto si giova di un meccanismo cognitivo comune secondo il quale si tendono ad accettare più facilmente le informazioni che risultano conformi al sistema di credenze dell’individuo. Come sintetizza Walter Quattrociocchi, autore di Misinformation. Guida alla società dell’informazione e della credulità: «Ovvero, una ricerca di informazioni utili a confermare proprie idee e posizioni che necessariamente implica una tendenza opposta di sminuire o ritenere meno credibile ciò che è divergente o dissonante»[13]. Un meccanismo di auto-alimentazione e auto-rafforzamento che viene definito “bias di conferma”[14] e che «consiste nel ricercare, selezionare e interpretare informazioni che confermano le proprie convinzioni o ipotesi»[15]. Il dato, dunque, non ha valore in sé ma viene inquadrato in una cornice che corrisponde alla particolare visione del mondo del soggetto. Tutto ciò, se da una parte rinforza la percezione identitaria dell’individuo, dall’altra mina ogni illusoria aspettativa sulle possibilità dell’intelligenza collettiva. Infatti il confirmation bias restringe l’attenzione del soggetto solo alle informazioni che supportano quanto da lui già dato per vero; da ciò ne consegue che ben difficilmente verranno accolti input in grado di mettere in discussione le certezze di fondo. Nessuno è al riparo dal “meccanismo di conferma” ma in determinati contesti e, soprattutto, su alcuni temi – come le cellule staminali embrionali, gli OGM, il cambiamento climatico, i vaccini, tanto per citarne alcuni –, sembra che questo “pregiudizio” si irrigidisca polarizzando e irrigidendo le posizioni secondo una logica di chiusura di tipo tribale[16]. E’ il meccanismo virale che anima il processo di diffusione della disinformazione o, come viene più spesso presentata, della “controinformazione”, vale a dire una informazione che per statuto ontologico va contro quella “ufficiale” ratificata in un discorso regolato da norme intersoggettivamente verificabili. In questo senso uno degli ambiti – ma non l’unico – in cui le “teorie alternative” esercitano la propria azione virale è quello scientifico e medico. Che si parli di medicina alternativa o di sempre attuali legami tra i vaccini e le patologie dello spettro autistico, la disinformazione prospera. Secondo il rapporto Censis del 2014[17] i genitori che «ricorrono al web per acquisire informazioni sulla salute sono il 32 per cento del campione»[18]. Di essi il 27 per cento ricorre a forum, blog e il 16 per cento ai social network. Il risultato è «che il 7,8 per cento dei genitori decide di non vaccinare il figlio sulla base delle informazioni reperite su internet. Si tratta di un fenomeno in crescita, e che tra qualche anno potrebbe trasformarsi in un serio problema nazionale di salute pubblica»[19]. Molti di questi genitori, è facile dedurlo, acquisiscono le loro “informazioni” da uno dei tanti Napalm51 che infestano la rete. In questo senso ha ragione Carlo Ginzburg quando afferma:
«internet […] è uno strumento di democrazia potenziale. […] Per navigare in internet, per distinguere le perle dalla spazzatura, bisogna avere già avuto accesso alla cultura – un accesso che di norma (parlo per esperienza personale) è associato al privilegio sociale. Internet, che potenzialmente potrebbe essere uno strumento in grado di attenuare le disparità culturali, nell’immediato le esaspera»[20].
Il successo e la diffusione del fenomeno presso gli utenti si giova della stessa condizione che ne favorisce l’emergenza: la semplicità. A differenza «delle spiegazioni scientifiche, in genere complesse e controintuitive,[21] le teorie alternative sono «più comprensibili, nel senso che riducono lo stress e la complessità, fornendo un disegno o una serie di responsabilità coerenti»[22]. Inoltre «si accordano con l’attitudine cognitiva (o bias) della percezione finalistica, che tende a creare connessioni tra dati casuali o privi di senso (apofenia)»[23]. Le teorie alternative, cioè, rispondono ad uno dei bisogni della nostra specie, vale a dire quello di avere a disposizione delle spiegazioni semplici in grado di offrire una cornice simbolico-immaginaria agli eventi dell’esistenza. D’altra parte «l’interpretazione animistica del reale è una delle più antiche e resistenti strategie di adattamento e contenimento dello stress ambientale della nostra specie»[24]. Le spiegazioni alternative sono non soltanto più affascinanti, poiché forniscono l’illusione dell’accesso ad un sapere altro, settario, ma sono soprattutto più accettabili perché tendono ad essere paradossalmente iper-razionali: gli avvenimenti, infatti, risultano essere spiegabili attraverso narrazioni semplici, intuitive e alla portata di tutti.[25] Narrazioni che, di solito, hanno un effetto rassicurante poiché tendono a scaricare la responsabilità dell’evento su un colpevole chiaramente individuabile (il grande vecchio, le aziende farmaceutiche, le potenze straniere, etc.). Tutto ciò offre una cornice di senso simbolico-immaginaria in grado di disinnescare il portato di imponderabilità che, invece, contraddistingue qualunque accadimento dell’esistenza. Spiegazioni semplici per persone che in fondo vogliono essere rassicurate, questa la formula vincente delle teorie alternative e del complotto. In questa ottica Napalm51 e gli utenti che accolgono le teorie alternative su temi quali il cambiamento climatico, le cellule staminali embrionali, gli OGM, condividono bisogni cognitivi che sono propri della specie, legati «a strategie di adattamento e contenimento dello stress ambientale»[26] primordiali. Se dunque tanto i cospirazionisti, quanto i sostenitori delle verità “scientifiche” condividono logiche proprie della specie, cosa li differenzia? I sostenitori delle teorie alternative evidenziano una maggiore rigidità cognitiva e una più evidente chiusura nei confronti di tutto ciò che non risulta essere in linea con le loro credenze. Sono cioè più inclini a esporsi a precisi contenuti informativi che rispondono ai propri interessi e alle proprie credenze. In altre parole, attraverso i suggerimenti di amicizia, l’adesione a gruppi, il seguito di ben precise pagine, questi soggetti – ma come abbiamo detto è una caratteristica condivisa, in misura diversa, da tutti – si costruiscono un perimetro di convenienza, cioè uno spazio chiuso frequentato solo da individui con i medesimi interessi e che, alla fine, riflette solo e sempre se stesso. Un clan, una tribù, una setta che pratica una liturgia codificata intorno alla narrazione di riferimento del gruppo. Questi spazi vengono definiti «echo chamber» e sono a tutti gli effetti dei recinti all’interno dei quali si produce «il rinforzo e la diffusione in rete di informazioni anche non corrette che, una volta che sono stare assunte come credibili, difficilmente vengono poi smentite o ricalibrate»[27].
Questo significa che gli utenti che prediligono ipotesi “alternative” sul valore dei vaccini o sulla natura delle cosiddette “scie chimiche” tendono ad interagire con gruppi che «confermano o in qualche modo aderiscono al loro sistema di credenze»[28]. Un modo, anche questo, per gestire la complessità del reale e, dunque, per evitare di entrare in contatto con versioni, ipotesi e teorie in grado di mettere in discussione le proprie teorie[29]. Il principale effetto di questo modo di agire, che – lo ripetiamo – è legato a bisogni cognitivi di tutta la specie, è la volontaria reclusione all’interno di costellazioni simboliche nelle quali si rafforza il senso di appartenenza della comunità intorno «a narrazioni o visioni della realtà condivise»[30]. Ne consegue lo strutturarsi, e il successivo consolidarsi, di «una rassicurante visione manichea della società – “noi” onesti e autentici vs. “loro” imbroglioni e corrotti” –»[31] anche questa in linea con una più generale e universale «tendenza di ogni individuo a conservare il proprio sistema di credenze»[32]. Tutto ciò, una volta ancora, ci allontana parecchio dall’assunto dell’uomo razionale figlio della speculazione umanista.
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