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L’omosessualità e o l’omofobia degli psicoterapeuti

15 Giu 13

A cura di Rolando Ciofi

Ricorrendo all'aiuto di amici e colleghi, Fabio Borotto, Giudo Mazzucco e Paolo Migone, tra loro molto diversi sia per età che per formazione oggi toccheremo il tema dell'omosessualità.

Non parleremo dell'omosessualità in generale ma di come questa venga vissuta, nei giudizi, nelle valutazioni, nell'essere professionisti, dai colleghi psicologi e psicoterapeuti.Ciò naturalmente senza alcuna pretesa di generalizzazione, si tratta della esposizione di punti di vista e di studi sul tema.

Nel primo pezzo proposto Paolo Migone in un articolo datato 2006 ma ancora oggi estremamente attuale, risponde con grande acume ed in modo approfondito ad un lettore che pone il seguente, apparentemente banale per non dire sciocco, quesito: Può uno psicoanalista essere omosessuale?

Nel secondo pezzo Fabio Borotto e Guido Mazzucco in un lavoro del 2009 propongono una loro riflessione sul tema dell'omofobia tra gli psicologi.

Si tratta di utili spunti per una riflessione… Volutamente ho omesso, poichè ne farò oggetto in futuro di un ulteriore contributo, di affrontare qui il tema delle cosidette "terapie riparative".

Uno psicoanalista può essere omosessuale? a cura di Paolo Migone

Egregi Dottori, la mia domanda è un po’ scabrosa ma spero non offensiva: può un omosessuale (uomo o donna) intraprendere la professione di psicoanalista? E se sì, è consigliabile nascondere le proprie tendenze sessuali? Quanta libertà di essere se stessi c’è e quanta omertà (o ipocrisia) nell’esercizio di un lavoro così delicato come quello dell’analista? Grazie.

Risposta

La tua domanda non mi sembra scabrosa, casomai poteva esserlo anni fa. Il fatto però che tu oggi la poni, e soprattutto che temi sia scabrosa, indica che possono ancora esservi molti pregiudizi. È vero, anni fa la omosessualità veniva considerata una malattia, una “perversione”, e non è un caso che questa parola oggi non sia più politically correct: non si usa più parlare di perversioni, ma di “parafilìe”, cioè di diversi modi, tutti entro certi limiti legittimi, di concepire l’attrazione sessuale. Il termine parafilìe è stato introdotto dal DSM-III e DSM-IV, le ultime due edizioni, rispettivamente del 1980 e del 1994, del manuale diagnostico dell’American Psychiatric Association, un punto di riferimento che ha influenzato la psichiatria di tutto il mondo. Oggi non è più corretto tentare di curare un individuo per la sua omosessualità (per questo potrebbe denunciare il suo medico), a meno che ovviamente il “paziente” non la viva come indesiderata e richieda espressamente un aiuto (anche qui però occorre essere molto cauti, nel senso che il terapeuta deve valutare la correttezza della domanda, perché il desiderio di non essere più omosessuale potrebbe essere anche segno di grave patologia, allo stesso modo con cui ad esempio potrebbe essere segno di grave patologia la richiesta di cambiare sesso o di sottoporsi a un non necessario o discutibile intervento di chirurgia plastica; in altre parole, il problema potrebbe non essere la omosessualità, bensì la convinzione che essa sia un problema).

Ma le cose in America, e in tanti altri paesi avanzati, cambiarono ben prima del DSM-III del 1980, il quale semplicemente ratificò un cambiamento che era già avvenuto nel mondo civile e anche in quello della ricerca scientifica. Probabilmente fu la rivoluzione dei costumi avvenuta negli anni 1960, anche in termini di libertà sessuale, a segnare una svolta. A livello ufficiale, per lo meno negli Stati Uniti, la svolta avvenne nel 1972, quando un referendum tra i membri dell’American Psychiatric Association, proposto da Bob Spitzer (che diventerà poi il capo della task force del DSM-III), stabilì a maggioranza che l’omosessualità non era più una malattia. Oggi sono passati quasi 35 anni da quel referendum, e i pregiudizi contro l’omosessualità sono diminuiti ulteriormente. Basti pensare che tantissimi sono gli psichiatri, gli psicoanalisti e gli psicoterapeuti omosessuali che non lo nascondono e anzi spesso ne fanno un vanto. Nelle recenti elezioni presidenziali dell’American Psychiatric Association vi erano due candidati, una donna e un omosessuale dichiarato e molto attivo nella lotta per i diritti degli omosessuali. Questo omosessuale era Jack Drescher, che conosco sia perché ho lavorato alcuni anni negli Stati Uniti per cui conosco un po’ l’ambiente, sia perché nella rivista che dirigo – Psicoterapia e Scienze Umane (http://www.psicoterapiaescienzeumane.it) – abbiamo pubblicato vari suoi articoli sulla tematica dell’omosessualità. La mia rivista si è occupata dell’omosessualità da molti anni, fin da tempi non sospetti quando, almeno in Italia, i pregiudizi anti-omosessuali orano ancora estremamente diffusi (tra l’altro, nel n. 3/2006, che è un numero speciale con più di 400 pagine dedicato al quarantesimo anniversario della rivista, pubblicheremo un bel racconto autobiografico di Parin, già presidente della Società Psicoanalitica Svizzera, in cui parla apertamente e in modo poetico di una sua amicizia adolescenziale che aveva anche tonalità omosessuali). Drescher è un noto psicoanalista che ha scritto libri sul tema dell’omosessualità, dirige la rivista Journal of Gay & Lesbian Psychotherapy, si è occupato molto dei cosiddetti “sopravvissuti” ( survivors ), cioè di quei pazienti che erano andati incontro a enormi sofferenze causate da quei terapeuti che cercavano di cambiare la loro identità sessuale. Drescher non vinse le elezioni (la lobby femminista in questo caso si rivelò più forte di quella omosessuale, per cui vinse la donna psichiatra, Carolyn Robinowitz), ma fu una vittoria comunque per il solo fatto, inconcepibile anni fa, che un omosessuale è stato candidato alla presidenza degli psichiatri americani, la carica forse più influente al mondo in questo campo.

Mi viene in mente anche che l’attuale presidente dell’American Academy of Psychoanalysis (una delle più prestigiose associazioni psicoanalitiche americane) è un omosessuale. Lo so perché sono molto suo amico dato che era mio compagno di corso alla scuola di specialità in psichiatria, e anche della scuola di psicoanalisi, a New York (ricordo che allora – si era a cavallo degli anni 1980 – vi erano un po’ più di pregiudizi di oggi, per cui scelse di non dirlo pubblicamente, lo disse solo al suo analista didatta il quale era legato dal segreto professionale; riuscì quindi a diplomarsi in psicoanalisi, dopo di che fece tranquillamente il suo outing, e dato che era in gamba fece carriera politica fino a diventare presidente dell’associazione psicoanalitica). Moltissimi sono gli psichiatri, gli psicoanalisti e gli psicoterapeuti omosessuali oggi, e questo fatto viene considerato abbastanza normale da molti colleghi e sempre più anche dal pubblico.

Ci si può chiedere a questo punto come mai c’è stato questo cambiamento di opinione sulla omosessualità. Sono cambiati i costumi? È cambiato il concetto di “malattia mentale”? Sono state fatte delle scoperte scientifiche sulla omosessualità che hanno portato a questi cambiamenti? Queste sono problematiche complesse che non posso trattare dettagliatamente qui (per un approfondimento, rimando ad alcuni articoli sui concetti di “disturbo mentale” e di “malattia mentale” scritti da Wakefield e Vaillant, che sono tra i principali studiosi a livello internazionale su questo argomento, pubblicati nei numeri 4/2004 e 1/2005 di Psicoterapia e Scienze Umane ). Mi limito a dire, con parole semplici, la opinione che io ho sempre avuto, opinione che ovviamente può non essere condivisa da tutti.

Non è strano che l’omosessualità oggi non sia più considerata un problema. Sarebbe come considerare un problema essere donne, o avere la pelle nera: si tratta, in un certo senso, di “minoranze” che in determinati periodi storici e aree geografiche sono state perseguitate e ritenute “inferiori”. Meravigliarsi che gli omosessuali possano essere terapeuti sarebbe come meravigliarsi che le donne hanno il diritto di voto, o che i neri non sono più schiavi. Subito si obietterà che l’omosessuale è diverso “per natura”, perché l’uomo “normale” è attratto dalla donna con la quale genera i figli che permettono la prosecuzione della specie ecc. Indubbiamente l’argomento evoluzionistico è un argomento forte (è preso in considerazione ad esempio da Wakefield, uno dei due autori che ho citato prima), ma al limite si potrebbe argomentare, proprio su base evoluzionistica, che oggi la terra rischia l’autodistruzione per sovrapopolamento, per cui è proprio un aumento di omosessuali che potrebbe salvarla.

Ma a parte questi ragionamenti, che sono complessi (come è complesso, e anche pericoloso, utilizzare ragionamenti darwiniani), ci si deve chiedere in che cosa gli omosessuali sono diversi dagli eterosessuali a parte appunto la omosessualità stessa. Qui ci può venire in aiuto la ricerca scientifica. Una volta in effetti si credeva che gli omosessuali fossero diversi o con maggiori problemi degli eterosessuali (ad esempio disturbi di personalità, maggiore promiscuità sessuale ecc.), ma ricerche attente non hanno convalidato queste credenze, che si sono rivelate semplicemente pregiudizi. A parità di condizioni ambientali o di sviluppo, eterosessuali ed omosessuali sono proprio uguali: entrambi possono essere più o meno disturbati, schizofrenici o no, nevrotici o no, antipatici o simpatici, e, potremmo dire, belli o brutti, biondi o castani, ecc. Molti studi psicoanalitici, però a partenza di pochi casi singoli, hanno cercato di dimostrare che certe caratteristiche di tanti omosessuali, come forse la stessa omosessualità, erano causate da esperienze o traumi infantili. Ad esempio, il forte legame di affetto che tanti omosessuali hanno con la propria madre è stato ritenuto una possibile causa della omosessualità, come se fosse stato un eccessivo amore materno a bloccare un normale sviluppo in senso eterosessuale (tra i tanti esempi di amore di omosessuali per la madre, si pensi a un Pasolini, che scriveva lettere quasi quotidiane, e anche bellissime poesie, alla madre). In realtà si è scoperto che l’amore per la madre non è la causa della omosessualità, ma la sua conseguenza, nel senso che l’omosessuale, libero da confitti legati al genitore di sesso opposto, può meglio provare ed esprimere l’affetto per la madre, dalla quale probabilmente si sente capito più che da tanti altri. Ugualmente, tanti comportamenti “perversi” e tematiche personologiche degli omosessuali non erano dovute alla omosessualità ma all’ambiente oppressivo, discriminatorio e “razzista” in cui vivevano che li induceva ad assumere certi ruoli (questo è lo stesso discorso insomma che è stato fatto nell’Ottocento per le donne riguardo all’isteria, tanto da caratterizzarla una malattia femminile anche nell’etimologia [ isteron = utero ], mentre era condizionata dall’oppressione subita dalle donne, tanto è vero che oggi va scomparendo e che comunque è stato dimostrato che quella che può essere definita “isteria” è presente in ugual misura negli uomini e nelle donne).  

In realtà, indagini ben condotte e su campioni molto grandi di popolazioni (sia di omosessuali che di eterosessuali) non sono riuscite a trovare correlazioni tra l’omosessualità e fattori ambientali. Omosessuali insomma si nasce o lo si diventa molto presto, per fattori ancora non ben conosciuti, ed è inutile trovarne la causa o la “colpa” in qualcuno o qualcosa (in alcuni casi può certamente essere causata da esperienze infantili, ma pare che sia una minoranza). L’omosessualità riguarda la propria identità sessuale, che è in genere abbastanza forte per chiunque e non può essere cambiata facilmente, e non si riferisce ad altri aspetti della personalità: in altre parole, l’omosessuale ha solo questo aspetto che è diverso dagli eterosessuali, il fatto che è attratto dal corpo di una persona dello stesso sesso, per il resto è uguale. Come si è detto, può essere migliore o peggiore di un eterosessuale, può sapere amare di più o di meno, essere più o meno fedele, avere maggiore o minore equilibrio psicologico e così via. Se è vero che un omosessuale può violentare un altro uomo o addirittura un bambino, è altrettanto vero che un eterosessuale può violentare una donna, una bambina, uccidere ecc., esattamente come un omosessuale, anzi, molti eterosessuali sono certamente “peggiori” di tanti omosessuali sotto tutti i punti di vista. Uno psicoanalista omosessuale può essere attratto da un suo paziente e, molto scorrettamente, mettere in atto manovre seduttive più o meno consapevoli od esplicite, ma allo stesso modo con cui uno psicoanalista eterosessuale può fare le stesse cose con una sua paziente (anzi, pare che siano tanti i casi di questo tipo, anche se è difficile avere statistiche affidabili). Per fare un esempio chiaro, a me piace dire che essere omosessuali è come avere gli occhi verdi: in che cosa questo influisce nel resto della personalità? Molto o niente, a seconda dell’ambiente in cui uno vive. Quello che conta non è certo l’orientamento sessuale, cioè non il contenuto della sua rappresentazione erotica, ma la sua modalità relazionale (la sua capacità di aver rapporti “oggettuali” e non “narcisistici”, si potrebbe dire col nostro linguaggio specialistico), cioè il tipo di rapporto che instaura con gli altri, il rispetto, la stabilità e lealtà nei rapporti, ecc., insomma la sua struttura di personalità.

Ecco perché per essere degli psicoanalisti non ha nessuna importanza essere o non essere eterosessuali: è importante invece essere empatici, affidabili, onesti, preparati ecc. Tra l’altro, certi terapeuti omosessuali possono essere più capaci di aiutare i pazienti omosessuali perché hanno più esperienza sui problemi della identità sessuale.

Questo è il modo con cui io preferisco vedere la questione della omosessualità. Naturalmente non intendo dire che non possano mai esservi delle cause psicodinamiche che, nel corso dello sviluppo, hanno influito sulla costruzione dell’identità sessuale (dopo accennerò ad alcuni esempi in favore di questa ipotesi), intendo solo dire che non sono d’accordo nel ritenere la omosessualità come sempre originata da esperienze infantili o ambientali. Ritengo che essa vada vista senza pregiudizi di sorta, come peraltro ogni comportamento o sintomo andrebbe visto e analizzato. Se vi sono dati di ricerca che depongono in favore dell’ipotesi che l’omosessualità nella maggior parte dei casi si instaura molto presto nello sviluppo, dobbiamo tenerne conto, e non partire dall’idea preconcetta che essa derivi sempre da esperienze traumatiche. Dovremmo mantenere un atteggiamento aperto, “analitico” e “critico”, in tutti i casi, sia quando ci troviamo di fronte a chi è omosessuale ed è contento di esserlo, sia quando ci troviamo di fronte a chi è omosessuale e non è contento di esserlo: entrambi i casi potrebbero essere “nevrotici” o “non nevrotici” (e la stessa cosa può essere detta per chi è eterosessuale).

Ovviamente queste idee non sono ancora accettate da tutti, sia all’interno che soprattutto all’esterno della professione, vi sono ancora sacche di ignoranza e di resistenza, ma è solo una questione di tempo. Occorre che sempre più persone e colleghi conoscano gli omosessuali, e questo è possibile nella misura in cui gli omosessuali possono nascondersi meno, non vergognandosi, è quindi un circolo vizioso, che però lentamente si sta modificando.

Per quello che io conosco dell’ambiente psicoanalitico, potrei raccontare tantissimi episodi divertenti (o dolorosi, per chi li ha vissuti e non ha saputo difendersi o ironizzare su di essi). Voglio cogliere questa occasione per raccontarne alcuni.

Il padre dov'era. Le omosessualità nella psicanalisi

Ricordo ad esempio che il direttore della mia scuola psicoanalitica di New York, che era un vecchio psicoanalista pieno di pregiudizi, una volta a lezione ci disse esplicitamente che “gli omosessuali sono psicotici, in quanto confondono le donne con gli uomini, quindi hanno un disturbo delirante dell’immagine corporea”. La ilarità era grande per noi allievi nel sentire queste sciocchezze (o forse c’era qualcuno che non rideva e prendeva sul serio queste cose), e chissà cosa avrebbe pensato quel vecchio analista se avesse saputo che uno dei suoi studenti, omosessuale, sarebbe un giorno diventato presidente nazionale della sua tanto amata associazione psicoanalitica. L’idea che l’omosessualità sia sempre una malattia e debba essere curata peraltro non è del tutto scomparsa, anzi, ci sono eminenti psicoanalisti che ancora vi aderiscono: ad esempio Socarides, uno psicoanalista molto noto che ha scritto tanto su questo tema, si è addirittura dimesso dalla sua associazione psicoanalitica quando vi sono stati questi cambiamenti e ha voluto fondare un suo gruppo in cui le sue idee possono essere insegnate. In effetti il cambiamento è stato grande all’interno delle associazioni psicoanalitiche americane: è uscito ad esempio un numero monografico (il n. 4/2001), dedicato alla revisione della teoria psicoanalitica dell’omosessualità, del Journal of the American Psychoanalytic Association, che è la rivista forse più prestigiosa del settore, e colpisce constatare – oseremmo dire in modo divertente a livello di sociologia della conoscenza – la totale inversione di tendenza riguardo alla teoria psicoanalitica della omosessualità rispetto a solo pochi anni prima (questi improvvisi voltafaccia mettono un po’ a disagio, tanto forse da preferire coloro che sono un po’ più coerenti o che almeno riflettono maggiormente su cosa può aver significato credere in una teoria sbagliata per quasi un secolo).

Ricordo un altro episodio, altrettanto divertente. Un mio collega omosessuale voleva diventare psicoanalista, e doveva fare quindi domanda di ammissione alla scuola psicoanalitica per la quale erano necessari dei colloqui di ammissione. Anche se a livello ufficiale non dovevano esservi discriminazioni, a livello reale ve ne erano, poiché tanti analisti, sopratutto quelli della vecchia guardia, non avevano ben digerito questo cambiamento di opinioni sulla omosessualità e continuavano a vedere gli omosessuali ancora un po’ come delle persone poco “appropriate” per fare gli psicoanalisti, o da cui stare alla larga, per cui con una scusa o con l’altra non li accettavano al training psicoanalitico (in fondo, c’è anche una esigenza di conformismo nelle associazioni psicoanalitiche, se non altro per darsi una immagine presentabile e venire incontro ai gusti del pubblico o della maggioranza dei potenziali pazienti – sono ben lontani i tempi in cui la psicoanalisi aveva invece un carattere eversivo nei confronti di quella che Freud chiamava la “morale borghese”). Per questo motivo quasi tutti gli omosessuali che facevano domanda per diventare psicoanalisti si guardavano bene dal dichiararlo, e chi era fortunato lo diceva al proprio analista protetto dal segreto professionale, chi era meno fortunato invece doveva nasconderlo persino a lui (e possiamo immaginarsi che “analisi didattica” ne veniva fuori!). Ebbene, questo collega, che era particolarmente intelligente e preparato, decise che non avrebbe mentito al colloquio di ammissione, poiché i tempi ormai erano cambiati, i pregiudizi si erano attenuati, e poi comunque lui voleva essere onesto, incominciare bene il suo percorso di formazione. Durante il colloquio fece una ottima impressione, e si capiva che l’analista che lo intervistava (una anziana analista) era ben disposta verso di lui. Ad un certo punto, quando l’intervista toccò l’area dei rapporti affettivi, lui le disse tranquillamente che era omosessuale. Quella analista, visibilmente, trasalì un attimo, e di punto in bianco gli chiese, interrompendolo e in un modo che poteva sembrare fuori luogo: “Lei ha l’herpes?”. Questa domanda era motivata dal fatto che allora spesso si diceva che gli omosessuali avevano l’herpes, una infezione che era ritenuta causata dalla loro promiscuità sessuale (l’AIDS non si era ancora diffuso, o almeno non era ancora conosciuto). Quel mio amico non visse bene questa domanda, perché da una parte gli sembrava inappropriata, e dall’altra una malcelata forma di pregiudizio o un modo di mascherare l’ansia o la sorpresa di quella analista che forse aveva fatto quella domanda, apparentemente professionale, per evitare un silenzio che avrebbe tradito le sue emozioni. Allora lui ci pensò un attimo, non rispose a quella domanda, e guardandola negli occhi le chiese con molta calma e gentilezza: “Perché? Lei per caso ha la sifilide?”. A quel punto quella analista pensò bene di trincerarsi dietro il classico silenzio analitico, rimanendo immobile, con gli occhi sbarrati, e non rispondendo alla domanda di questo impertinente aspirante psicoanalista. Ovviamente non fu accettato per il training psicoanalitico, forse quella analista non era abituata a candidati così intelligenti o che non davano sufficienti garanzie di “docilità” (l’anno seguente comunque rifece domanda di ammissione, fu intervistato da un analista più giovane, con meno pregiudizi, e fu accettato).

Questo episodio, che continuo a trovare molto divertente, mi fa venire in mente un altro episodio riguardante i colloqui di ammissione al training psicoanalitico, questa volta di un altro mio collega che non era omosessuale, anzi, era una specie di dongiovanni a cui piaceva conquistare le donne, tante donne, senza mai instaurare rapporti affettivi stabili. Ci si può chiedere che attinenza ha questo con l’omosessualità, ma ritengo che il tema sia lo stesso, cioè quello del giudizio che si ha verso le persone che non corrispondono alla norma, che non sono “normali” secondo certi criteri standard.

Infatti per decenni, nel corso del secolo scorso, si è discusso in psicoanalisi quali possono essere i criteri di selezione dei candidati in psicoanalisi. Fiumi di inchiostro sono stati spesi per discutere di questo problema, infatti è una scelta che ha grosse ripercussioni sia per i futuri pazienti, sia sui candidati (che devono impiegare molti anni nella formazione e investire una enorme quantità di denaro per l’analisi didattica), sia sui docenti (che potrebbero sentirsi costretti a dire a un candidato, già in fase avanzata del suo training, che non è adatto a questo lavoro, col risultato – come è successo in varie occasioni – che il candidato può poi denunciare la scuola psicoanalitica che gli ha fatto spendere tanti soldi e anni inutilmente). Una delle linee che era prevalsa era quella di selezionare i candidati che fossero appunto i più “normali” possibile secondo dei criteri di buon senso, come ad esempio che fossero sposati o con una fidanzata appropriata, che avessero avuto una famiglia unita, che avessero fatto una vita regolare e così via. Ma dopo aver utilizzato questi criteri per decenni, il bilancio fu negativo, si scoprì cioè che spesso e volentieri i “candidati normali” era i peggiori, nel senso che erano conformisti, poco creativi, poco empatici, soprattutto interessati al guadagno economico e poco motivati a curare e ad avvicinarsi alla sofferenza dei pazienti (forse perché non ne avevano fatto esperienza), ecc. (si pensi al libro di Oliver Sacks Risvegli, da cui è stato anche fatto un film con Robert De Niro e Robin Williams, che tratta bene questo tema: l’unico medico che ha interesse per i malati e che riesce a curarli è il protagonista, Sacks/Williams, appunto perché è disturbato in un certo senso un po’ come loro [“Io adesso sono sveglio, ma tu dormi!”, dice a un certo punto De Niro a Willaims nel film], mentre gli altri medici, “sani” e “normali”, hanno ben poco interesse per i pazienti). Gitelson, un importante analista di Chicago, definì “normopati” questi candidati “normali”, cioè “ammalati di normalità” (vedi ad esempio il suo importante lavoro del 1954, intitolato «Problemi terapeutici nell'analisi del candidato “normale”», tradotto nel suo libro Psicoanalisi: scienza e professione, Torino: Boringhieri, 1980). Si incominciò a capire che i migliori analisti forse erano invece quelli che avevano sofferto, perché potevano meglio identificarsi coi pazienti e avere più motivazione per questo lavoro.

Chiusa questa parentesi, torno a parlare del colloquio di ammissione di quell’altro mio collega, eterosessuale ma senza una vita affettiva regolare. Era stato istruito dai suoi colleghi più anziani che se voleva avere una chance di essere accettato al training psicoanalitico doveva fare il possibile per dare una buona impressione di sé, magari mentendo un po’ al colloquio. Lui quindi, che non aveva molti scrupoli, si preparò bene, e il colloquio fu praticamente una recita, senza che l’analista anziano se ne accorgesse minimamente. Mentì come mentivano quegli omosessuali che volevano nascondere la loro omosessualità. Quando gli fu chiesto di parlare della sua vita affettiva, se era sposato, se aveva una ragazza, che tipo di rapporti aveva avuto in passato ecc., lui disse che al momento non era fidanzato (non poteva mentire su questo perché la cosa si sapeva), ma che il suo sogno era quello di trovare presto un’anima gemella e di sposarsi per fare una bella famiglia con tanti figli. Dato che però aveva quasi trent’anni, l’analista gli chiese come mai non si era sposato prima, e se aveva avuto una fidanzata. Lui rispose che sì, aveva avuto un lungo e importante fidanzamento con una bravissima ragazza, figlia di amici di famiglia, con cui era stato molto felice e con la quale avevano fatto progetti di matrimonio (cosa per niente vera). Allora l’analista gli chiese come mai non si era sposato con quella brava ragazza. Lui a questo punto si atteggiò ad una espressione dolorosa, come se non volesse parlare del suo passato. Quel vecchio analista insistette per voler sapere, e quel mio collega ancora mostrava una resistenza (era un attore perfetto, e anche molto furbo, era un italiano emigrato dal Sud Italia l’anno prima), poi in una smorfia di dolore, esclamò “Oh, che terribile incidente stradale!”, e si coprì gli occhi con le mani come se stesse per piangere. Quel vecchio analista con gli occhi umidi rispose: “Sei accettato al training, figliuolo!” (questo mio collega entrò poi nella scuola psicoanalitica, si mise in analisi, e col tempo lavorò sui propri problemi con le donne e migliorò).

Questo aneddoto può essere divertente, ma è anche molto triste se si pensa a questo tipo di inganni, per di più all’interno di un istituto psicoanalitico che dovrebbe invece essere modello di correttezza e onestà. Eppure non sono pochi i problemi del training psicoanalitico, i più o meno velati ricatti e le falsificazioni cui devono a volte sottostare molti candidati. Tanto è stato scritto su questo, non posso qui parlarne per mancanza di spazio, rimando ad esempio ai coraggiosi articoli di Cremerius (che fu presidente della Società Psicoanalitica Tedesca), di Kernberg (che fu presidente della Società Psicoanalitica Internazionale), e altri, che abbiamo pubblicato su Psicoterapia e Scienze Umane nel corso di tanti anni (cito solo un articolo di Kernberg del 1996, che è anche in rete, dal titolo molto esplicito “Trenta metodi per distruggere la creatività dei candidati in psicoanalisi”.

C’erano quindi anche questi pregiudizi, ma c’era anche molta sensibilizzazione verso i diritti degli omosessuali. Ricordo ad esempio che una volta a un mio collega (quello stesso che aveva nascosto il suo dongiovannismo al colloquio di ammissione) durante un litigio scappò detto un epiteto molto offensivo ad un altro collega che per caso era omosessuale. La parolaccia che gli uscì dalla bocca significava appunto “omosessuale” ma era molto offensiva (qualcosa come “frocio”, anzi ben più offensiva). Non l’avesse mai detto. Subito il litigio si fermò, tutti percepirono che era stato oltrepassato il segno per cui scomparve ogni animosità, ci fu solo silenzio e da lì a mezzora l’intero dipartimento era riunito nella sala riunioni di fronte a lui che doveva chiedere pubblicamente scusa, a testa china, e promettere di non offendere mai più gli omosessuali in vita sua. Si era attorno al 1980, e vi era già questa sensibilità nei confronti dei diritti degli omosessuali. Offendere un omosessuale in quanto omosessuale era insomma un po’ come offendere un collega di colore solo per il colore della sua pelle. Questo mio collega aveva fatto una certa fatica ad adeguarsi ad una cultura, come quella americana, in cui gli omosessuali erano accettati come gli altri. Ricordo che dopo pochi mesi che abitava a New York gli fu presentato un collega omosessuale a un party, e lui d’impulso si ritrasse, rifiutandosi di stringergli la mano: mai aveva conosciuto omosessuali prima di allora, e li considerava persone da non frequentare, di cui vergognarsi. Col tempo cambiò moltissimo, grazie anche al fatto che ebbe occasione di conoscere personalmente tanti omosessuali e col tempo divenne amico con molti di loro (erano in tanti nel nostro ospedale i colleghi omosessuali, in certi reparti noi eterosessuali eravamo addirittura in minoranza, e questo è forse dovuto al fatto che molti omosessuali si trasferiscono nelle grandi città americane, soprattutto New York e San Francisco, dove sono meno discriminati).

Mi rendo conto di essermi perso in varie digressioni, lasciandomi prendere dai ricordi. Per tornare alla domanda di partenza, cioè alla questione della omosessualità e delle cosiddette perversioni, ripeto che a mio parere non è assolutamente facile trovare una causa psicodinamica della omosessualità, e che occorre essere prudenti nel fare ricostruzioni psicogenetiche troppo facili. Questo naturalmente vale per tutte le parafilie, si pensi ad esempio al sadomasochismo, al feticismo, ecc. Ognuno ha una sua fantasia erotica preferita, e l’importante non è il tipo di fantasia in quanto tale, ma il modo con la si mette in atto, la relazione che si instaura col partner mentre essa viene agita. Certe coppie che praticano il sadomasochismo, ad esempio, possono avere un rapporto di amore e di reciproco rispetto, con la massima attenzione ai bisogni dell’altro, che certe coppie “normali” neppure si sognano. Le pratiche “perverse”rimangono ben confinate al rito, al gioco, con un limite ben netto tra la fantasia e la realtà. Certo, come ho detto prima, non voglio dire che non vi sia mai una psicodinamica, a volte molto importante, che può spiegare la formazione di queste fantasie erotiche, e quando è possibile essa va indagata.

Una mia paziente ad esempio rappresenta per me un caso estremamente interessante, anche a livello teorico. Aveva avuto una bassa autostima praticamente tutta la vita, era stata poco rispettata e non capita dai genitori e si era fatta coinvolgere in relazioni, fonte di grande sofferenza per lei, in cui era abusata in vari modi, inclusa una lunga psicoterapia precedente che consisteva in una dipendenza da una terapeuta molto disturbata che continuamente la faceva sentire inferiore, a volte ridicolizzandola o addirittura umiliandola apertamente. Durante la psicoterapia con me migliorò sempre di più, e gradualmente riacquistò sicurezza e autostima, fino a provare dei sentimenti di vero e proprio benessere e la sensazione di sentirsi realizzata nella vita. Io non feci niente di straordinario, semplicemente la accettavo per quello che era. In una fase della terapia ero colpito dal fatto che diceva sempre “grazie” quando usciva dallo studio, e non capivo perché. Capimmo in seguito che mi era grata solo per il fatto che non la criticavo, la accettavo così com’era, lei poteva dire in seduta tutto quello che le veniva in mente senza sentirsi criticata, una esperienza per lei abbastanza nuova. Ebbene, la cosa per me molto interessante, a mio parere con grosse implicazioni teoriche, fu che questa paziente, mano a mano che migliorava, gradualmente si lasciava andare a fantasie erotiche di tipo sadomasochistico sempre più intense, che mi raccontava e che io ovviamente non ho mai scoraggiato. Diventando sempre più sicura di sé, incominciò anche a praticare rapporti sadomasochistici, a volte anche abbastanza estremi, nei quali però coi partner aveva una relazione di massimo rispetto reciproco. Si faceva umiliare in tutti i modi, sia fisici che psicologici, da partner che sceglieva e coi quali manteneva un rapporto di massima fiducia reciproca. Ed era attentissima alle piccole mancanze di rispetto che potevano a volte presentarsi nella relazione, che non era disposta a tollerare, facendole notare al suo partner. Finalmente era felice, realizzata, esprimeva e soddisfaceva i suoi veri desideri: prima, quando il sadomasochismo non faceva parte della sua vita, era a tutti gli effetti una “perversa”, adesso era “normale”. Prima insomma “era normale ma era perversa, adesso era perversa ma era normale” (spero che il lettore riesca a capire quello che voglio dire con questo gioco di parole).

Una perversione quindi può benissimo essere originata da determinate esperienze. Le fantasie e le pratiche sado-masochistiche di questa paziente erano forse un importante modo con cui lei rielaborava il suo passato, in un certo qual modo lo riviveva, questa volta però padroneggiandolo, non subendo umiliazioni ma giocando con esse, e tutto questo aveva una importante funzione psicologica.

Ricordo un altro caso clinico molto interessante, non mio ma che mi fu raccontato, di un feticista. Questo paziente si eccitava con l’odore dei piedi e amava le scarpe, un feticismo ben noto. Nella sua psicoterapia non fu facile capire la dinamica di questo sintomo perverso, quando tutto a un tratto al paziente venne in mente un ricordo infantile. I suoi genitori, quando alla sera uscivano ad esempio per andare a teatro, avevano l’abitudine, per essere più tranquilli, di chiuderlo nello sgabuzzino delle scarpe. Lui restava lì alcune ore, terrorizzato dal buio e dalla solitudine, fino la ritorno dei genitori. Si può fare l’ipotesi, in questo caso, che l’angoscia del bambino era talmente grande che mise in atto una difesa, peraltro ben studiata dalla psicoanalisi, che consiste nella erotizzazione di quella situazione per padroneggiarla, per difendersene. Si tratta anche del ben noto meccanismo della “identificazione con l’aggressore”, descritto da Anna Freud nel 1936. Mi piacerebbe parlare più approfonditamente di questa psicodinamica, ma la mia risposa è già fin troppo lunga e devo fermarmi.

Ringrazio per avere avuto l’opportunità di rispondere alla tua domanda. Come vedi, nel rispondere mi sono lasciato andare sull’onda di alcuni ricordi, in apparenza non direttamente connessi alla omosessualità, ma a ben vedere ad essa collegati: sarebbe riduttivo parlare della omosessualità in quanto tale, è molto più interessante discuterla inquadrandola all’interno di problematiche più generali, il che ci permette poi di capire molte più cose.
 
Paolo Migone
 
L'omofobia tra gli psicologi di Fabio Borotto, Guido Mazzucco

Leggendo l'articolo: "Coevoluzione, collusione o distruttività nei rapporti di coppia" di Mario e Riccardo Zannini, apparso sul numero 1 – anno 3 della rivista "Psicologi a Confronto" i due autori, iniziando a spiegare da cosa sono provocati i conflitti per cause interne al rapporto di coppia, parlano di “incapacità psichica al matrimonio”. In particolare, a pag. 95 scrivono: “Raggruppiamo sotto questa categoria tutte le forme di malattia mentale: nevrosi, psicosi (nota n. 21), psicopatie, sociopatie, perversioni sessuali (nota n. 22).”

Riportiamo dunque per esteso la nota 22: “Perversioni o deviazioni sessuali, (o manie):

"comportamenti sessuali aberranti, più o meno patologici, che mediante surrogati sostituiscono gli scopi e i mezzi normali dell'eterosessualità. Si distinguono: l'omosessualità, la pedofilia, la bestialità, la necrofilia, il voyeurismo, l'esibizionismo, il feticismo, il sadomasochismo. (Mucchielli R." Psicologia della vita coniugale," 1993, pag. 215.)”.

Vorremmo ricordare che la depatologizzazione dell'omosessualità è avvenuta nel 1973, anno in cui la categoria diagnostica, "omosessualità" è stata derubricata dal DSM. Decisione che sarà poi definitiva nel 1980 con la pubblicazione del DSM-III.

Nel 2000 l'American Psychiatric Association (APA) sostiene il riconoscimento legale delle unioni tra persone dello stesso sesso con i diritti civili, i vantaggi e le responsabilità che ne derivano.

La stessa posizione era stata presa, in anni precedenti, anche dall'American Psychoanalitical Association, dall'American Psychological Association e da altre importanti associazioni mediche e psicologiche.

Vi è quindi stato un progressivo abbandono, da parte della più utilizzata nosografia psicopatologica internazionale, di un modello preminentemente biologico -organicistico in favore dell'adozione di un modello “bio-psico-sociale” integrato, in cui l'omosessualità non è più considerata una caratteristica psicologica con un intrinseco significato psicopatologico.

Soltanto a partire dalla metà degli anni novanta in ambito psicoanalitico e psicodinamico inizia a prendere consistenza e a ricevere considerazione una letteratura sull'omosessualità non gravata dal pregiudizio.

Omosessuali moderni. Gay e lesbiche in Italia (Contemporanea)

Nonostante ciò, tuttavia, ancora oggi tocca leggere scritti che fanno riferimenti a dicotomie maschile/femminile associate ai concetti di attività e passività e a confusioni e sovrapposizioni tra i concetti di orientamento sessuale, identità e ruolo di genere: spesso presentati come degli “a priori”, questi concetti vengono “naturalizzati” e non letti come espressione di un ordine culturale stabilito. ( “…gli scopi e i mezzi normali dell'eterosessualità”- nota 22 dell'articolo di cui sopra).

Come osserva argutamente Young-Bruel (1996), il discorso psicoanalitico sull'omosessualità ha implicato nel corso della storia un sistema di desideri, ansie e difese che lo ha reso simile ad un sintomo nevrotico: ciò è ancor più evidente se ci rendiamo conto di come, anche a livello teorico, il campo di indagine sia stato oggetto di pesanti rimozioni: lo rileva l'analisi parziale delle espressioni narcisistiche (considerate spesso dalla psicologia come condizione intrinseca, propria dell'essere omosessuale, e non come tentativo di risposta alla distruttività e al disprezzo che l'esterno esercita su di essi) ma anche il riduzionismo della prospettiva di indagine dell'omo-relazionalità, sempre declinata in mera omo-sessualità.

Sostenere dunque, come fanno gli autori dell'articolo, che l'omosessualità sia un comportamento più o meno patologico è un atto gravissimo, di ignoranza in primis.

Secondariamente, un messaggio di questo tipo – oltre che essere scorretto – può ingenerare confusione: se l'omosessualità è patologica è anche curabile? Di questo i due autori non hanno fatto cenno, poiché non era pertinente all'articolo, ma essi fanno spesso riferimento a Dio o al Vero Dio :"La mancanza di fede nel vero Dio e conseguente radicamento della vita di coppia familiare su falsi dèi (idoli) materiali o immateriali" (p. 97).

A questo punto ci domandiamo: a quale codice deontologico fanno riferimento gli Autori? Non certo quello degli psicologi italiani, per il quale, all'articolo 4: “Nell’esercizio della professione, lo psicologo… rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socioeconomico,sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità.”

Forse un'indicazione in merito la troviamo nei riferimenti bibliografici citati dagli Autori: Ricca P., Alle radici della fede, meditazioni bibliche, Claudiana, Torino 1987.

Dichiariamolo, quindi, il fondamento veterotestamentario degli autori, comune a quello dei propugnatori delle terapie riparative, in cui la dottrina della fede è l'unica fonte di verità, la scienza non ha autonomia propria ed in caso di difformità da essa deve adeguarsi.

Il posto dell'altro. Le persone omosessuali nelle chiese cristiane (Paginealtre)

Verità di fede di tale sorta, corroborate da altre più “scientifiche”, compongono manuali di base per la formazione di catechisti, confessori, operatori cristianamente informati, psicologi fedeli alla “verità” della loro interpretazione della Bibbia più che alla scienza, con un effetto devastante sulla vita delle persone omosessuali, che potrebbero venire sommersi da questa marea montante di disinformazione e negatività.

Conosciamo bene quanto la comunità scientifica internazionale – e americana in primis – abbia dovuto lavorare per prendere le distanze e denunciare i danni e la mancanza di scientificità propria degli approcci omofobi in voga presso i sostenitori delle terapie cosiddette 'riparative' (es. National Association for Research and Therapy of Homosexuality, cit. Nicolosi e Aardweg) e diffondere una cultura scientifica secondo la quale l'orientamento omosessuale non sia connesso in alcun modo a sintomi o sindromi psicopatologiche, né determini disturbi o conseguenze negative.

Anche solo offrendo terapie riparative, i terapeuti negano implicitamente che l'omosessualità possa essere sana e rinforzano, invece, gli stereotipi persecutori che essa sia deficitaria, inferiore e/o immorale.

La sofferenza psicopatologica – tutt’altro che intrinseca – è semmai procurata alle persone omosessuali dall'oppressione e dallo stigma sociale, dalle colpevolizzazioni indotte da visioni religiose intolleranti e da leggi discriminanti.

La spiritualità, che ciascun terapeuta è libero di vivere nel modo a sé più congeniale, non può, in nessun modo, scontrarsi con il proprio agire professionale.

 
Gay e lesbiche in psicoterapia (Psicologia clinica e psicoterapia)

Il sopra citato art. 4 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani, punto di partenza per l’individuazione di corrette prassi che lo psicoterapeuta contemporaneo è chiamato ad osservare, fa riferimento al rispetto di quei diritti fondamentali sanciti dalla stessa Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948.

L’ispirazione democratica irrinunciabile- di cui il codice deontologico nel suo insieme e l’art. 4 in particolare sono portatori- ci porta a sostenere la necessità di non incorrere in un relativismo ipocrita che sotto le mentite spoglie del confronto culturale “aperto” tra colleghi ponga sullo stesso piano posizioni ideologiche esplicite e prassi terapeutiche implicite (non sempre dichiarate, forse perché non sempre dichiarabili) che presentino evidenti ricadute antidemocratiche sul piano etico e deontologico.

Il confronto culturale non può prescindere dal rispetto di norme fondanti, democratiche e laiche, autonome cioè rispetto a condizionamenti ideologici, morali o religiosi, di qualunque segno essi siano.

Fabio Borotto, Guido Mazzucco

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1 commento

  1. manlio.converti

    Sono due articoli lunghi
    Sono due articoli lunghi messi insieme, tali da renderne impossibile la lettura…
    Ognuno contiene spunti di riflessione: casi personali il primo, anch’essi troppo numerosi, e dati tecnici il secondo, troppo alieni…

    Nessuno dei due articoli considera la realtà italiana dal punto di vista realistico, tranne la citazione del libro di Rigliano e Graglia, poco conosciuti al di fuori dell’ambiente LGBT.
    Esistono anche diversi testi e le linee guida per l’approccio all’utenza omosessuale del Prof. Valerio (che ha curato anche quelle per l’utenza transessuale).

    Di questi e della relazione medico-paziente parlerò in modo decisamente meno colto nel mio blog tematico.
    Spero tu voglia aiutarmi con le tue esperienze personali, qui assenti…ed anche con riferimenti, brevi, ad esperienze ulteriori di cui tu hai una migliore bibliografia.

    http://www.psychiatryonline.it/node/4380

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