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L’ordine delle cose, o la tragedia dell’immigrazione

12 Ott 17

A cura di matteo.balestrieri

Andrea Segre ci propone (ancora, dopo Io sono Li e La prima neve) un film sull’immigrazione dai toni ambivalenti, capace di attivare le coscienze e di far muovere grandi dubbi su come si sta muovendo il mondo e su cosa sia giusto fare. Corrado (Paolo Pierobon) è un funzionario del Ministero degli Interni che si occupa da lungo tempo di mediazioni internazionali in tema di immigrazione clandestina. Ha già lavorato in Ucraina ed ora viene inviato in Libia con il compito di arginare l’ondata di migranti che attraversa il canale di Sicilia. Il suo compito è molto difficile, perché porta soldi del governo italiano per pagare chi dovrebbe regolare l’immigrazione all’interno del Paese libico. Molti sono quelli che lucrano sul traffico e i diversi responsabili degli interventi non sono disposti a dialogare tra loro. Il referente italiano in Libia (interpretato da un ottimo Battiston) è a sua volta abituato a barcamenarsi tra interessi privati e velate minacce degli stessi responsabili libici.

Corrado ha una moglie con la quale ha un dialogo essenziale, ha due figli grandi e vive – quando non è in missione – in una bella casa di un quartiere residenziale di Padova. É una persona chiusa, parla poco, è piuttosto anancastico e riflessivo. È un ex-schermidore di livello e conserva questa passione allenandosi giornalmente. La sua scherma è una metafora del suo approccio al mondo, tra attese e stoccate per colpire l’avversario. Il Ministro gli sta però col fiato sul collo, vuole risultati subito, poco importa che ciò avvenga senza aver garantito il rispetto dei diritti umani.


Corrado si pone alcuni problemi di carattere etico, ma ha comunque una missione da assolvere e soprattutto un risultato da ottenere che sia spendibile a fini elettorali. Tutto questo deve essere ottenuto senza entrare nel dettaglio delle singole storie di migranti. Capita però che Corrado entri in contatto con una esule somala ospitata nel ghetto di un centro accoglienza libico (del tutto simile a un carcere sovraffollato) che lo coinvolge nel tentativo di fuggire da quel luogo per raggiungere il marito in Finlandia.
Dopo averla aiutata, accade purtroppo che il successo ottenuto da Corrado sul piano diplomatico- politico abbia come conseguenza il ritorno della giovane nel ghetto del centro di accoglienza. Corrado, incapace di gestire i rapporti umani, si dibatte sulla possibilità di usare la corruzione (cioè la norma in Libia) per liberarla, oppure lasciarla al suo destino. La scelta che fa è la peggiore possibile, aggravata da un comportamento irresponsabile.

Il film pone diversi problemi su quali siano le strategie ottimali di uno Stato come l’Italia nell’affrontare l’emergenza del mondo africano. È giusto cercare di bloccare l’immigrazione sulle coste libiche relegando gli emigrati africani ad una condizione equivalente al carcere sulla terraferma? Come intervenire per garantire il rispetto dei diritti umani da parte di affaristi senza scrupoli? È giusto e inevitabile fare affari con delinquenti, secondo il principio che il fine giustifica i mezzi? Come si può conciliare l’esigenza di Stato con i bisogni espressi dalla realtà tragica di ogni singola esistenza umana?

Corrado, pur dotato di una sensibilità superiore a quella dei suoi capi ministeriali, non è in grado di rispondere a queste domande e si chiude nell’egoismo del “non vedo, non sento e non parlo”. La sua difesa è la fedeltà ai compiti del suo ufficio. Ha l’occasione di compiere un gesto umano fuori ordinanza, ma preferisce l’”ordine delle cose”, la routine tranquilla della sua vita al sicuro nelle pareti domestiche.

La grandezza di un film sta spesso nella capacità di descrivere realisticamente le situazioni senza dare facili risposte. L’amaro in bocca che avvertiamo alla fine della storia è il segno che questo film ha raggiunto lo scopo di farci riflettere sul mondo e sulle nostre scelte etiche.

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