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Luglio 2013 II – Uomini e donne, difese e azzardi

21 Lug 13

A cura di Luca Ribolini

L’impulso *
di Angiolo Bandinelli, notizieradicali.it, 11 luglio 2013

Mia moglie è morta tre anni fa. Io continuo a vivere nella casa, nelle stanze che ho condiviso con lei per decenni. Fino a ieri, in quelle stanze nulla era stato da me cambiato; non solo i vestiti o i ninnoli e gioielli o il tavolo di lei, ma i mobili e soprammobili, le pentole o i vasi dei fiori, ogni cosa piccola e grande, di valore o di poco prezzo, era sempre lì dove era stata collocata, da lei o insieme a lei: abbiamo per decenni vissuto in completa armonia lo spazio familiare, avremmo potuto muoverci dentro le sue stanze a occhi chiusi, tanto intimamente le conoscevamo per averle create e sistemate in una intesa perfetta, fino nei minimi particolari: quel vaso su quel tavolo, quella fioriera in quell’angolo, i libri inglesi in quello scaffale, i libri di poesia nell’altro… Ma ecco invece che da qualche tempo mi sorprendo a spostare, a risistemare questo o quell’oggetto – un utensile, un soprammobile, un quadro, un libro – in una collocazione diversa e nuova. All’inizio l’ho fatto con riluttanza, dispiacendomene, poi via via con sempre maggiore confidenza e scioltezza. Nel suo complesso la casa, con le sue stanze, è quella di sempre, di ieri e di decenni fa, ma il mio occhio comincia a percepire differenze, anche non da poco. Me ne sono doluto ma alla fine mi sono accorto, con qualche sorpresa, che lo spostamento, il cambiamento, mi era indispensabile e doveva restare.
Cosa è successo? Anzi, cosa mi è successo? Ci ho pensato su un po’ prima di rendermi conto che questo o quel cambiamento mi veniva dettato non da una scelta ragionata, pensata, ma accadeva a seguito di un impulso, di cui sul momento nemmeno mi ero reso conto. Lo avevo accettato passivamente, senza resistenza. Sono poi riuscito a dare un nome a quanto mi stava accadendo. L’impulso proveniva – mi esprimo grossolanamente – dalle viscere, dal fondo oscuro della psiche che gli analisti di scuola freudiana (credo) chiamano “es” e, secondo gli analisti di scuola jughiana, è essenziale al formarsi del “principo di individuazione”: un grumo di pulsioni sul quale non c’è controllo o governo della ragione. Pian piano, arrivai a rendermi conto che, nella solitudine degli ultimi tre anni, il senso, il significato dello spazio a me più familiare, quello della mia casa, era gradatamente mutato, gli equilibri di quando c’era mia moglie non avevano più ragione d’essere, dovevano modificarsi, anzi si erano insensibilmente modificati. Ripeto, non a seguito di decisioni o scelte razionali ma sotto la spinta di oscuri impulsi: a parlar difficile, dell’”es”.
Che c’entra tutto questo, direte voi, che c’entrano queste fantasticherie con una rubrica che dovrebbe occuparsi di laicità? Penso che c’entrino e nemmeno poco: accettando l’ineluttabilità di quanto stava accadendo mi arrendevo a Freud, a una diffusa e forse oggi dominante concezione antropologica decisamente “laica”, che la chiesa non ha mai accettato. È stato Freud a dare organicità a riflessioni che certo non erano mancate, singolarmente prese, anche prima di lui ma che grazie allo scienziato viennese definirono per la prima volta un concetto di uomo – una antropologia – che si distaccava significativanente e potentemente dall’insegnamento secolare, se non millenario, della chiesa: per la quale non c’è impulso che non possa e non debba essere governato e, se necessario, negato e respinto. L’uomo, secondo la chiesa, deve governare se stesso e i propri impulsi con la ragione o in ultima istanza grazie alla fede e con l’assistenza della chiesa salvifica. L’impulso è per la chiesa, in definitiva, il Male, la chiesa ne diffida anche quando dà origine a qualcosa di positivo. Nelle cattedreali romaniche e gotiche venivano rappresentate figurazioni del Male diabolico, orride bestie o mostri ghignanti, figli della notte e nemici della luce. Per Freud il fondo dell’”es” è costituito dalla libido. Ebbene, nei complicati, anche se di per sé insignificanti, impulsi che mi stavano (e mi stanno) guidando nella riorganizzazione della casa, c’è qualcosa di ineluttabile che ha le stesse origini di quel male diabolico. Tutto – ricordi, affetti, emozioni e rimpianti – mi solleciterebbe a rifiutare qualsiasi cambiamento che possa erodere il ricordo di mia moglie. Ho deciso invece di lasciarmi andare, di abbandonarmi ad evenienze piccole e di minima importanza che non mi sono dettate dal Male luciferino, non hanno certo la dignità del peccato, però forse provengono dalle stesse lontane sorgenti. Ho pensato che valesse la pena registrarlo in questa rubrica; mi perdoni – o mi mandi al diavolo – chi trova stupide e inutili le mie osservazioni.
Carità cristiana: Questo papa ha scelto di chiamarsi Francesco, innovando profondamente nella tradizione ecclesiale. Non scrive sul tema della carità; francescanamente, però, la mette in atto. Il suo viaggio a Lampedusa mi ricorda di quando Papa Giovanni Paolo II, recatosi in visita al Parlamento italiano, invocò un gesto di carità per i detenuti, con chiaro riferimento all’amnistia. Non fu ascoltato, le carceri restano superaffollate. Chissà se stavolta le autorità italiane ascolteranno l’invocazione di papa Francesco alla carità verso il migrante?
 
*da “Il Foglio” 
 
http://notizie.radicali.it/articolo/2013-07-11/editoriale/limpulso


Stato d’azzardo 
di Sarantis Thanopulos, ilmanifesto.it, 13 luglio 2013

Un muratore di 26 anni si è ucciso con un colpo di pistola in Brianza perché da alcuni mesi aveva perso il lavoro e non riusciva a trovare un altro impiego. Spesso ripeteva che non aveva neppure i soldi per le sigarette. Pochi giorni prima un ragazzo di diciannove anni, con un lavoro part-time, si era ucciso buttandosi dal muraglione di una chiesa a Ischia perché aveva perso 300 euro, tutti i suoi risparmi, nelle scommesse e nel video poker online. I soldi per pagare le sigarette o i pochi soldi faticosamente risparmiati possono racchiudere tutto il senso dell’esistenza di un essere umano. Questa sproporzione non designa un’assurdità (da spiegare nel modo più facile con la fragilità psichica dei due giovani): indica, piuttosto, uno spossessamento intollerabile del proprio destino a cui l’irrimediabile gesto estremo pone un argine (lungo una vita e un solo attimo). Niente misura meglio il declino dello stato che l’esposizione dei cittadini al gioco d’azzardo: la sottomissione, mascherata da sfida, alla fatalità, al caso. Lo spreco di potenzialità di cui si fanno garanti le stesse autorità che dovrebbero contenerlo – che sfocia, nell’immediato, nella morte dei più vulnerabili (per nulla inevitabile) – confluisce, al lungo andare, al suicidio del nostro avvenire. Vivere richiede il gioco: l’eccitazione generata dall’incontro con gli oggetti desiderabili che abitano il mondo, che non è cosa in sé, che non prende mai il sopravvento ma diventa coinvolgimento, preludio dell’appagamento. È nel gioco, che trasforma l’eccitazione del desiderio in ampliamento e profondità del sentire, che le combinazioni casuali diventano forma e finalità, personalizzazione dell’esistenza. L’azzardo è la negazione del gioco: l’eccitazione diventa scopo, lo scopo diventa caso, il caso rassegnazione. La paura di mettersi veramente in gioco e la rinuncia a padroneggiare l’imprevedibile, sfruttando la forza del suo disordine per costruire, dominano le nostre società globalizzate. La politica (sovranazionale) che pretende di salvaguardare il nostro futuro – il ricorso a tagli selvaggi – è un rigore senza progettualità: l’apoteosi del gioco d’azzardo. Che senso ha indignarsi per il fatto che l’attività imprenditoriale più in espansione nel nostro paese è il sistema delle scommesse legalizzate (o per l’indecente scontro tra lo stato centrale e i comuni sull’accaparramento degli introiti che provengono da questo giro d’affari) se la cultura dominante che governa le nostre vite è quella dei proprietari delle sale da gioco? Lo stato attuale (la mentalità che ne detta il funzionamento) è uno scommettitore che bara con se stesso illudendosi di ingannare il caso. Necessariamente spietato con i diseredati che smentiscono le sue illusioni somiglia a un guidatore cieco che travolge i passanti che attraversano la sua strada: finché non andrà a sbattere da qualche parte può pensare che la sua vista funzioni a dovere, che non ci sia nulla di cui preoccuparsi. Un burattino che si sente al sicuro nelle mani dei bari di professione che dominano i «mercati» : morti viventi (sul piano del desiderio), non comuni mortali sventurati.
 
http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/ricerca/nocache/1/manip2n1/20130713/manip2pg/14/manip2pz/343123/manip2r1/thanopulos/

Speciale Psicoanalisi da il manifesto – Alias, 14 luglio 2013 

 
Psicoanalisi conosci te stessa. Il solo autentico nemico della psicoanalisi è la sua ombra, di Paulo Baroni
 
Pensare con Freud per Cortina. Nella sublimazione una risorsa vitale, di Franco Lolli
 
Su Lacan. Un lessico inafferrabile come lo è l’inconscio. Intervista a Di Ciaccia, di Alex Pagliardini
 
La psicologia archetipica di James Hillman, una terapia per la civiltà, di Luigi Zoja
 
Una ricerca di Gherardo Ugolini. Effetti di parentela fra il procedimento analitico e la catarsi tragica, di Federico Condello

Qui sotto il link per consultare i pezzi usciti

http://issuu.com/segnalazioni.box/docs/alias_domenica_14.7.13_sulla_psicoa
 


Il sesso delle donne. “Il desiderio femminile è come quello dei maschi”

di Elena Stancanelli, la Repubblica, 18 luglio 2013
 
Contrordine: non solo il desiderio femminile esiste, ma è potente almeno quanto quello maschile, non ha una propensione monogamica e, pensa un po’, non è neanche legato all’istinto riproduttivo. Non somiglia per niente a un languore romantico, non necessita di una storia intorno. Esattamente come sapevamo che accade agli uomini e agli altri animali, le donne desiderano punto e basta. Cosa? Sesso. Sono mesi che si gira intorno alla faccenda, le classifiche dei libri sono piene di romanzetti rosa virati hard, che esplorano voglie e vogliette, vizi e vizietti. Persino l’ultimo film di Lars Von Trier, Nymphomaniac (di cui cominciano a girare adesso alcuni spezzoni) ha per protagonista una donna che si concede del tutto al proprio desiderio sessuale, testandone i confini e le implicazioni. Protagonista Charlotte Gainsbourg, a dimostrazione che, forse anche più che per gli uomini, le donne considerano ormai il sesso esplicito un territorio non più proibito, quasi mainstream.
Sessant’anni fa Sigmund Freud scriveva all’amico e biografo Ernest Jones: «La vera domanda alla quale nessuno ha risposto, e alla quale io stesso non so dare una risposta nonostante i miei trent’anni di ricerca nell’animo femminile è: cosa vogliono le donne?». Sessant’anni dopo Daniel Bergner — giornalista del New York Times, già autore di un saggio sulle parafilie, Il lato oscuro del desiderio— risponde con un libro intitolato appunto What Do Women Want?, che uscirà in Italia, tra qualche mese, per Einaudi Stile libero (come il precedente). E contiene interviste a donne normali, ricerche sugli animali, teorie di psichiatri, scienziate, terapiste sessuali. Gli studi sul desiderio femminile sono in ritardo. Quando sono nate le scienze legate alla sessualità, si è dato per scontato che ci si dovesse occupare di disfunzioni/preoccupazioni/meraviglie dell’organo e dell’orgasmo maschile. Anche soltanto perché entrambi garantiscono la conservazione della specie. E quando Galeno sostenne, nel II secolo d. C., che senza il piacere femminile, mediante il quale immaginava che fosse rilasciato l’uovo da fecondare, non era data appunto fecondazione, fece assai peggio alle donne di quanto una teoria del genere farebbe presupporre.
Secondo Bergner infatti, l’idea imposta dal medico greco che i genitali femminili fossero uguali a quelli maschili ma nascosti e un po’ meno funzionali, ha condizionato la nostra visione del piacere. Questa genitalità femminile oscura e goffa, ha imposto per secoli l’idea che l’orgasmo delle donne, e quindi il desiderio, fossero una robetta insignificante, e soprattutto racchiusa in un istante e in un unico e impervio luogo: la vagina, appunto. Il primo passo per rivalutare intensità e potenza del piacere femminile è stato quindi allargare la zona preposta a un altro paio di robette là intorno, che, ben allertate, garantiscono un gran sollazzo. Tra queste il celeberrimo punto G, scoperto nel 1600 da un medico olandese, ma descritto per la prima volta nel 1950 da Ernst Grafenberg, ginecologo tedesco.
Il primo capitolo del libro di Bergner, uno dei motivi per cui all’uscita negli Stati Uniti e poi in Inghilterra si è scatenato un putiferio, si intitola “animali”. E non soltanto perché le protagoniste degli esperimenti di Meredith Chivers, dell’Università di Ontario, sono le scimmie. Chivers ha studiato a lungo, e raccontato in un documentario, una particolare razza di scimmie chiamate Bonobo, note al mondo per due motivi: la mitezza e la libertà dei costumi sessuali. Le Bonobo fanno sesso continuamente, e quindi soltanto in rari casi per riprodursi, in tutte le combinazioni possibili: maschi, femmine, adulti, anziani, giovani… Ma gli animali che danno il titolo al capitolo non sono le scimmie, bensì le femmine della nostra specie. Selezionate alcune volontarie (etero e omosessuali) la professoressa le prepara applicando nella loro vagina un apparecchietto, “plethysmographry”, che registri turbamenti e movimenti. Poi mostra loro una serie di video pornografici, etero, lesbo e gay — e tra questi anche il documentario che illustra gli allegri accoppiamenti delle scimmie Bonobo. Quindi chiede, alle donne non alle Bonobo, di raccontare che cosa hanno sentito durante la visione, se abbiamo provato eccitazione e per cosa.
Collazionando i risultati ottenuti dalla macchinetta con quanto dichiarato, Meredith Chivers ha scoperto che le donne mentono, mentono moltissimo. Che il loro livello di eccitazione è molto più alto di quello che riescono ad ammettere. Cosa che non accade quando ripete lo stesso esperimento coi maschi. Ne deduce che negli uomini il cervello e i genitali stanno dalla stessa parte, sono alleati, nelle donne spesso no. Cioè le donne si vergognano di quello che provano, o peggio neanche se ne accorgono, talmente sono vincolate a quello che pensano dovrebbero provare. Quindi: il desiderio femminile esiste, è potente animale e vivissimo, ma società e cultura lo osteggiano con forza. Le nostre strutture politiche e di convivenza sono fondate su quel minimo di ordine garantito dalla famiglia, la quale, da un certo punto in poi, ha avuto bisogno di trasformarsi da vincolo utilitario a consesso basato sull’amore.
È lì che, spiega Bergner, ci siamo dovuti inventare un paio di bugie cruciali: che le donne desiderano tutta la vita lo stesso maschio (nonostante la natura gridi il contrario) e che l’unico momento in cui desiderano accoppiarsi è durante il periodo fertile. Qualche anno fa, racconta ancora Bergner, la dottoressa Marta Meana dell’Università del Nevada pubblicò un lungo articolo a proposito delle “fantasie di stupro” o di sottomissione, o di sospensione della volontà. È difficile, spiega la dottoressa, trovare un’espressione che tenga conto del risultato dei miei colloqui, senza offendere nessuno. Alcune donne, spiega, ritennero allora insopportabile l’immagine che lei aveva proposto come esercizio: una donna di spalle, in un vicolo scuro, un uomo che la prende da dietro, uno sconosciuto. Eppure intorno a quella scena si agita, spesso, il desiderio femminile. Altro che monogamia, altro che riproduzione: sottomissione, cinquanta sfumature di qualsiasi cosa. Un po’ di rischio, la possibilità di non dover scegliere e tanto, tanto testosterone. Di questo si compone il nostro desiderio, il desiderio di uomini e donne. Purtroppo, quando la biochimica si inceppa, la faccenda delle donne si fa più complicata. Un Viagra femminile lo stanno ancora sperimentando. Ma già possiamo dire che in ogni caso si tratterà di un bel frullato di testosterone, dopamina, serotonina… cose così. Non un documentario sul Principe Azzurro.
 
IL SAGGIO: What Do Women Want? di Daniel Bergner (Ecco Pr, pagg. 205 euro 15,80) sarà tradotto in Italia da Einaudi Stile libero
 
http://www.zeroviolenzadonne.it/rassegna/pdfs/18Jul2013/18Jul2013233c77dcdafc7c51dc3db94da8b388fe.pdf

 

Lo psicoanalista delle aziende. Per curare lo stress. Prima si interviene e meglio è 
di Roberto Giardina, italiaoggi.it, 19 luglio 2013  

Le squadre di calcio lo avevano già scoperto. Se le cose vanno male, e nessuno capisce il perché, si chiama uno psicoanalista da spogliatoio. Forse se il pallone finisce sempre contro i pali è colpa di un trauma infantile. E il portiere che fa autogol avrà un complesso edipico non risolto. 
Anche le grandi aziende in Germania ricorrono alla psicoanalisi per risolvere i problemi dei manager e dei dipendenti. Le loro crisi esistenziali possono mettere in pericolo il profitto

Lo specialista più richiesto è il dottor Hansjörg Becker, a disposizione dei clienti, anzi pazienti, 24 ore su 24. «Spesso mi chiamano in piena notte, e devo rispondere», ha raccontato alla Frankfurter Allgemeine, «magari il giorno dopo è in programma l'assemblea degli azionisti, e non c'è tempo da perdere». Il grande dirigente è preso dal panico. Se non interviene Becker, potrà compiere un errore, lasciarsi sfuggire una parola sbagliata, e provocherà un crollo delle azioni.
Una volta l'ha chiamato un dirigente finanziario, sui 40 anni. «Ho paura che salti tutto fuori», si è confidato. Non aveva paura che venissero scoperti i suoi trucchi in bilancio, le manipolazioni, o gli errori. «No, gli spiegò, i miei collaboratori vengono da me per chiedere consiglio. Sono il loro referente, ed io invece non so semplicemente cosa fare. Hanno fiducia in me, e io fingo sicurezza». Uno stress che molti non riescono a reggere a lungo.
Becker, 64 anni, è cresciuto al Sud, sul lago di Costanza, ha dapprima studiato germanistica e storia, poi è passato a medicina ed è diventato psicoterapeuta. A 40 anni aprì uno studio a Francoforte, la città delle banche, e si specializzò nello stress sul posto di lavoro. Adesso ha oltre 80 dipendenti, tra cui psicologici, medici, avvocati e sociologi. Tra i clienti annovera la Continental, la Henkel, la Procter & Gamble, tanto per fare degli esempi. In tutto ricorrono a lui 43 aziende, tra cui alcune dell'indice Dax alla borsa di Francoforte, per complessivi 140mila dipendenti. Non si paga un tanto a visita o a paziente: l'azienda sottoscrive una specie di abbonamento a forfait, da 20 mila a 30 mila euro all'anno per ogni mille dipendenti. In media dal 3 al 5% degli assicurati ricorre poi alle cure del terapeuta.
Un tedesco su cinque lamenta eccessivo stress, che è diventato una sorta di malattia sociale. Burn out, il totale esaurimento, è un termine conosciuto dalle casalinghe e dagli studenti liceali. Il 40% dei tedeschi lamenta lo stress eccessivo sul posto di lavoro, e le giornate di malattia a causa dell'esaurimento sono aumentate in dieci anni del 1.400%.
Troppo stress in azienda significa un aumento dei costi del personale, e un alto rischio per la produzione. Chi vuol farsi curare a spese della mutua, o anche privatamente, deve aspettare anche sei mesi per ottenere un appuntamento. Gli specialisti rischiano, a loro volta, di essere stressati per eccesso di lavoro.
Chi ricorre a Becker e alla sua squadra sarà ricevuto invece al massimo entro una settimana: «La velocità è essenziale», ha detto, «bisogna intervenire appena si manifestano i primi sintomi di esaurimento, dopo è più difficile uscire dal tunnel». Un normale funzionario potrà andare in malattia e venire sostituito da un collega. Un manager no, e negherà di avere problemi perché teme per la carriera. Non può dire semplicemente: non ce la faccio più. Nel 2002, Becker intervenne anche in un evento drammatico: i terroristi ceceni avevano preso d'assalto un teatro a Mosca, e tra gli spettatori si trovavano sei dipendenti di una grande impresa chimica tedesca.
Gli specialisti di Becker furono spediti a Mosca, senza visto, e per due giorni assistettero i 30 dipendenti della filiale tedesca, in angoscia per i colleghi in mano dei terroristi. Ci furono 130 vittime, i tedeschi rimasero illesi, ma sotto shock. Per due anni, Becker continuò ad assisterli e oggi nessuno lamenta ancora effetti negativi.
L'assistenza è riservata a chi lamenta problemi a causa dello stress aziendale? No, assicura, non si può distinguere tra vita privata e professionale. Chi ha un figlio che beve o si droga potrà compiere una mossa sbagliata in ufficio, o, al contrario, se il bilancio va in rosso, magari litiga con la moglie, rischia il divorzio, e diventa un manager inaffidabile.
 
http://www.italiaoggi.it/giornali/dettaglio_giornali.asp?preview=false&accessMode=FA&id=1835216&codiciTestate=1

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.it)

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