IL DEMONE DI STAROBINSKI. Storia della cultura. Dall’impossibilità di vivere alla possibilità di dire: «L’inchiostro della malinconia», ultimo saggio dello studioso ginevrino
Il Diavolo fa il bagno nella malinconia», diceva il teologo alessandrino Origene agli inizi del III secolo. «L’inferno ha influenza su di noi, non tanto attraverso la voluttà, ma grazie soprattutto allo sconforto malinconico»; «I neri fumi dell’atrabile sono un piacevole soggiorno per il Maligno. Vi si insinua e vi si nasconde, senza che noi possiamo opporre resistenza. Nerezza per nerezza, l’incognito è preservato», commenta Jean Starobinski, uno dei più grandi critici letterari del XX secolo.
Superati i novant’anni d’età, dimostrando quanto avesse ragione Boccaccio quando sosteneva, nella Conclusione del Decameron, che si scrive soprattutto «per cacciar la malinconia»,
Starobinski raccoglie in un libro armonioso e raffinatissimo, L’inchiostro della malinconia (traduzione di Mario Marchetti, Postfazione di Fernando Vidal, Einaudi, pp. 563, euro 36,00) le tante riflessioni svolte in più di mezzo secolo di meditazione su quello che, come ha suggerito Yves Bonnefoy, è «forse l’elemento che più specificamente caratterizza le culture dell’Occidente».
Nera come l’Inferno e come l’inchiostro è la malinconia (il titolo deriva da un verso di Charles d’Orléans, da un’immagine di Francisco de Quevedo, da un’idea di Tommaso Campanella). Tinge l’anima e la carta, paralizza le emozioni e la parola. Il suo tempo verbale non è il presente, ma il passato; il suo modo non è l’indicativo, che fa i conti con il mondo, con quello che Eugène Minkowski in Le temps vécu definiva, nel 1933, «il contatto vitale con la realtà», ma il condizionale, che vorrebbe restituire potenzialità a ciò che è stato, e invece s’impaluda nell’immobilità del tempo esaurito.
Il malinconico pensa ossessivamente alla vita in termini di «se avessi» o «se non avessi» fatto questo o quello, fissandosi senza salvezza «su un passato che non può più modificare», come annotò acutamente il grande psichiatra Ludwig Binswanger, ricordato da Starobinski. Non a caso i suoi studi «fenomenologici» su Melancholie und Manie condividono di fatto i temi e la prospettiva analitica con le ricerche del malinconico più geniale del nostro tempo, Aby Warburg, il quale con Binswanger fu in terapia a Kreuzlingen: alla base dell’Atlante di Mnemosyne, altissima arte della memoria dell’era moderna, si ritrova proprio la dialettica fra «serena contemplazione» e «abbandono orgiastico», in un’altalena fra tendersi e rallentarsi del ritmo interno. La storia della rappresentazione artistica delle emozioni è anche una storia del diverso emergere o venire sublimata della potenza malinconica, che è lutto, negatività, allucinazione.
Per gli antichi l’atrabile che genera malinconia è un «carbone umorale», un osceno «catrame vischioso che brucia per lasciare un residuo ancora più scuro e più spesso: materia pesante che ottenebra lo spirito». La malinconia è densa, nera, velenosa come l’elleboro che i medici antichi somministravano ai «malati» per curare il tossico con il tossico, secondo il principio che Starobinski, in un magnifico saggio del 1989, definì le remède dans le mal. Scuro è il volto della Malinconia e nere sono le sue ali, nero è il sole, neri gli oggetti che la circondano, nella celebre incisione di Dürer del 1514 studiata da Raymond Klibansky, Erwin Panofsky e Fritz Saxl in uno dei libri, Saturno e la malinconia, del 1923, che rimane fondamentale sul tema, insieme con la grande ricerca di Rudolf e Margot Wittkower sul legame fra genio e malinconia negli artisti, Nati sotto Saturno, del 1963.
Collocandosi nel punto di snodo fra interno e esterno, fra pneuma e soma (o spiritus e corpus), la malinconia è dunque una malattia, e dovranno occuparsene i medici specialisti dei quattro umori: Starobinski è stato anche medico e storico della medicina, coniugando con rarissima finezza esperienze e saperi che solo un intellettuale del Rinascimento riuscì ad armonizzare. Galeno, maestro di tutti i medici dell’Antichità e del Medio Evo, la riconduceva a un eccesso della bile nera che circola nel corpo e ai «vapori» che generano le immagini fantastiche: «Come le tenebre ispirano paura a quasi tutti gli uomini, […]così il colore della bile nera, offuscando come il buio la sede dell’intelligenza, genera angoscia».
Accanto al medico interviene il filosofo, con la «consolazione» e l’«esortazione morale», a offrire una psicoterapia (ossia una therapéia della psiché, una «cura dell’anima»). «Il male che ci angoscia non è nei luoghi dove siamo, è in noi», intuì Seneca nel De tranquillitate animi anticipando l’analisi dell’inquietudinedell’uomo che «gira nella vita portandosi dietro la sua morte», con cui Agostino aprirà le Confessioni («Inquietum est cor nostrum»), e che molti secoli più tardi Fernando Pessoa, nel Livro do Desassossego, ripeterà alla lettera: «Non c’è quiete nel fondo del mio cuore, vecchio pozzo al confine del podere venduto»; «Io, proprio io, sono il pozzo senza pareti, ma dalle pareti viscide, il centro di tutto con il nulla attorno»; «Noi non ci realizziamo mai. Siamo due abissi: un pozzo che fissa il Cielo»: dove risuona il «compendio di atomo […], tra questi due abissi dell’infinito e del nulla» di Pascal.
La metafora del «pozzo profondo della malinconia» Starobinski la porta alla luce studiando i testi di quel «certosino di malinconia» che fu Charles d’Orléans, poeta francese del Quattrocento, in cui, «per la prima volta forse nella letteratura occidentale, la malinconia viene legata all’immagine della profondità». L’arte è movimento, «memoria iniziatrice» che crea dinamismo negli individui e nelle civiltà, secondo la formula del poeta e critico russo VjaceslavIvanov con cui Ernst Robert Curtius concludeva Letteratura europea e Medio Evo latino (libro non a caso dedicato a Aby Warburg): nel 1933 Curtius, in crisi depressiva, era andato in analisi da Jung; e nel 1948, attraverso il suo capolavoro storiografico, di fronte alle macerie della guerra riscattò il valore terapeutico della speranza collettiva offerta dalla letteratura contro l’oblio e l’abbandono, dichiarando che «nella odierna situazione spirituale non v’è alcuna esigenza che appaia tanto imperiosa come quella di ristabilire la “memoria”».
La stessa idea Starobinski la lega alla figura allegorica del pozzo: nella tenebra d’inferno della malinconia «la speranza è ciò che zampilla nella profondità: ogni sorgente è la figura di una speranza». Come scrisse altrove a proposito di Freud, anche alla base della terapia psicoanalitica c’è un movimento di discesa e di ascensione: «un movimento fisico e un intreccio drammaturgico», un flusso di energia che emerge zampillando dalla profondità oscura e trasformandosi in destino di salute.
In questo libro eruditissimo, che spazia sull’arcata di tutta la cultura scientifica e letteraria occidentale,Jean Starobinski non ricorda Pessoa: ma l’immensa mole di ricostruzioni storico-ideologiche che accumula per capire le faglie fra i sistemi di saperi, e di analisi testuali che svolge su Robert Burton, Cervantes, Hoffmann, Kierkegaard, Madame de Staël, Roger Caillois, Pierre Jean Jouve, soprattutto Baudelaire, ci aiutano a capir meglio, fra tanti classici,anche il Libro dell’Inquietudine, e a riconoscere in questo grande pascaliano e agostiniano senza grazia che dichiara di stare «scrivendo le sue Confessioni», in cui «non dice nulla perché non c’è nulla da dire», il perfetto modello del malinconico del nostro tempo, quello che un altro malinconico ironico, Guillaume Apollinaire, definiva il guetteur mélancolique.
Immobile «alla finestra» della vita per osservare e ascoltare «il passaggio di tutte le cose in una sfilata attraverso di me» (A passagem das Horas), attraverso la malinconia Pessoa costruisce un’«estetica dell’indifferenza». «Argonauta della sensibilità dolente» che proclama: «sentire e necessario, ma vivere non lo è», «vive così, di pura visione, l’esterno inanimato dalle cose e dagli esseri, indifferente, come un dio d’un altro mondo, al loro contenuto spirituale». Il mondo è deglutito nello spazio che nel Libro dell’Inquietudine Pessoa definisce il «dentro di me»: la scrittura è il suo riscatto fantasmatico.
Molte pagine di Starobinski sono dedicate all’ennui, allo spleen, alla «morte vivente» che Baudelaire, «il supremo esperto di malinconia», incastona nel cuore delle Fleurs du mal, descrivendo l’immobilità pietrificata dello sguardo malinconico che osserva il frenetico trasformarsi, intorno, della città moderna: «Paris change! Mais rien dans ma mélancolie / n’a bougé»; e la rima con malinconia è, con straordinaria e allusività, allegoria: «tout pour moi devient allégorie» (Le Cygne, che per Starobinski è «uno dei paradigmi più intensi della malinconia riflessiva»). Con quale precisione Walter Benjamin, nel gigantesco <CW-26>abbozzo di libro mai giunto a compimento, che Giorgio Agamben ha scoperto e pubblicato – Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato (Neri Pozza, 2012), individuava nell’«inquietudine irrigidita» la formula perfetta per la biografia spirituale di Baudelaire, aggiungendo che quel grande pensatore poetante, l’ultimo allegorista nel cuore della modernità, è «un incomparabile rimuginatore»: e il Rimuginatore, nuovissima figura del Malinconico, «è di casa fra le allegorie».Mi sembra significativo che Benjamin rinomini il Malinconico «Rimuginatore». Uno degli epicentri degli studi starobinskiani sulla malinconia è il tema del nome che le civiltà hanno assegnato a questa realtà fisico-spirituale, per circoscriverla e renderla visibile dandole consistenza verbale: «la storia dei sentimenti e delle “mentalità” solleva una questione di metodo che concerne il rapporto fra sentimenti e linguaggio». Già negli anni venti del Novecento Marcel Granet e Marcel Mauss, nel Linguaggio dei sentimenti, avevano posto il problema di una «grammatica» e di una «sintassi» delle espressioni emozionali.
Scavando nell’idea di nostalgia, nel saggio su L’invenzione di una malattia, Starobinski mette a fuoco come «un sentimento si inscriva in un nome», e «la storia dei sentimenti non possa essere […] altro che la storia delle parole tramite cui l’emozione si è enunciata»: l’oggetto della ricerca si configura solo a partire dal momento in cui si verbalizza il «nome dell’emozione», del «sentimento», della «malattia». Definire Rimuginatore il Malinconico è un ulteriore scalino nella storia del progressivo decadere della Malinconia nella modernità. L’ultimo passo è, credo, la terribile diagnosi che lo stesso Baudelaire affidò agli appunti di Mon cœur mis a nu e di Hygiène: «Della vaporizzazione e della centralizzazione dell’Io. Tutto è là»; «Ho coltivato la mia isteria con godimento e terrore. Ora ho sempre le vertigini, e oggi 23 gennaio 1862, […] ho sentito passare su di me il vento dell’ala dell’imbecillità».
Per secoli gli uomini, cercando la «causa» di un male spirituale, l’hanno identificata in una disarmonia materiale, in un interiore dissesto degli equilibri fra corpoe anima, fra mente e carne. Come il gesto dello sciamano dei Cuna panamensi studiato da Claude Lévi-Strauss in uno dei saggi più acuti del testo fondativo della moderna etnologia, Antropologia strutturale, così anche il dito del medico antico e medioevale che indicava la «causa» della malinconia nel «carbone umorale», o dello psichiatra che nel nostro tempo la riconosce nel «blocco» causato dall’inconscio, ha un’immediata «efficacia simbolica», restituendo l’evento della malattia a un nuovo orizzonte di senso e di movimento dello spirito: «la formamitica precede il contenuto del racconto», e ogni mito è «una ricerca del tempo perduto». Guarire significa, allora, ritrovare il tempo perduto, «smarrito» dal malinconico nella sua fissazione che occupa l’intero lo spazio psichico impedendogli di fare anima, per usare la bellissima formula che l’analista junghiano James Hillman ha preso in prestito dal poeta John Keats. I poeti conoscono, come i filosofi e i medici, e forse anche come i critici e gli antropologi, l’arte di «trasformare l’impossibilità di vivere in possibilità di dire».
Una delle armi terapeutiche più forti per la malinconia nera come l’inchiostro è proprio l’inchiostro: la letteratura, la poesia, insomma l’arte, rovesciando le immense energie spirituali bloccate «dentro» dall’impietramento malinconico riescono a riavviare il ritmo del tempo. Il malinconico Robert Burton, nella sua strabocchevole Anatomy of Melancholy, che è «il festino di Sardanapalo dell’erudizione classica», dichiarava che il suo libro era nato da «un enorme caos e garbuglio di libri»: e ci invitava così a «interrogarci sul rapporto fra la malinconia e l’incessante inserimento, in seno al proprio, di un discorso preso a prestito».
Ha ragione Fernando Vidal, che nelle sue belle pagine conclusive sull’Esperienza malinconica nello sguardo della critica riconosce nel saggio la «forma specifica di pensiero e di scrittura» di Starobinski. Come il «suo» Montaigne en mouvement, anche Starobinski con l’essai intende «descrivere non l’essere, ma il passaggio», e indaga i testi proprio nel loro «essere “di passaggio”»: e così oppone alla malinconia, che è «il rovescio del saggio», sempre nuove origini e nuove partenze, e un’armoniosa, ben temperata inquietudine ermeneutica.
http://ilmanifesto.info/il-demone-di-starobinski/
RECALCATI: IL DONO DEL PERDONO. Quanti conflitti piccoli, grandi, a volte anche sanguinosi esplodono oggi nei rapporti di coppia. La cronaca non dà tregua. L’ultimo caso è di ieri a Perugia. Massimo Recalcati, psicoanalista ha scritto un libro dove rovescia la questione. E spiega che il perdono è la forza dell’amore
Quanti delitti imprevedibili, consumati all’interno di relazioni tranquille e normali, stanno segnando la cronaca recente. Rapporti di coppia che varcano la soglia dell’immaginabile e sfociano nelle violenze più terribili. Il male che è sempre stato per comodità attribuito potenzialmente ad altri, a chi è fuori o viene da fuori, in realtà abita dentro. È uno scenario che osserviamo con sconcerto e un senso di impotenza, come se si fosse incapaci di affrontare il nodo. E il nodo è innanzitutto quello della relazione di coppia, bombardata in questi anni da messaggi che la minano e che la deligittimano come esperienza. Andare controcorrente senza essere messi nell’angolo come moralisti o conservatori non è semplice. Ma la cosa non ha preoccupato Massimo Recalcati, psicoanalista, commentatore dalle colonne di Repubblica e dai microfoni della trasmissione di Fabio Fazio. Recalcati ha scritto un libro che è un’apologia dell’amore fedele: quanto fosse un approccio atteso, lo dimostra lo straordinario successo di vendite ottenuto. Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa, è un libro che parlando delle relazioni più importanti nella vita di una persona, quelle sentimentali, in realtà finisce con il parlare di tutte le relazioni che intratteniamo nei vari frangenti della vita. Massimo Recalcati, psicoanalista lacaniano, è un intellettuale che sta conoscendo in questi ultimi tempi uno straordinario successo mediatico. Ha scritto molto sul tema del padre, come nel caso di un altro recente, fortuniatissimo libro, Il complesso di Telemaco (Feltrinelli, 2013). Non ama le interviste, ma per Vita ha voluto fare un’eccezione.
“Un canto all’amore che resiste e che insiste nella rivendicazione del suo legame”. Così lei definisce il suo libro nell’Introduzione. Un amore oggi minoritario? Un amore in controtendenza?
L’amore è per sua natura in controtendenza, un po’ come l’arte, la poesia, la letteratura. Qual è la tendenza dei nostri giorni? È pensare che tutto sia sostituibile, destinato a logorarsi nel tempo. Questo varrebbe anche per l’amore come se fosse una merce tra le altre… Lo dicono anche i neuroscienziati: l’effetto della dopamina sul cervello – che è la causa dell’eccitazione del desiderio amoroso – è destinato a dissolversi nel giro di qualche mese. Le coppie si disfano, non resistono alla corruzione inevitabile del tempo. Questo libro sostiene un’altra versione dell’amore. L’amore è fatto di una sostanza che non si può consumare. Non entra nella catena delle sostituzioni ma è ciò che rende l’oggetto amato insostituibile.
Una parola chiave del suo libro è la parola “desiderio”. È una parola che oggi rischia un destino dissolutivo e che d’altra parte è parola chiave di ogni rapporto d’amore (lei parla di “desiderio di essere desiderato dall’Altro”). Come si salva l’esperienza del desiderio?
Oggi si pensa che esista un rapporto inversamente proporzionale tra l’intensità del desiderio e la durata del legame. Più un legame dura più il desiderio si affievolisce. Non è sempre così. Un amore grande è un amore dove il desiderio cresce nel tempo ed è in grado di erotizzare non solo i corpi ma anche il mondo. L’esperienza del desiderio si salva se si sottrae dall’ipnosi del Nuovo di cui si nutre il nostro tempo. Il desiderio che rincorre affannosamente il miraggio del Nuovo è un desiderio che si smarrisce, che perde se stesso. Per ritrovare il carattere fecondo, generativo del desiderio bisogna cogliere tutta la sua apertura all’Altro. Per questo Lacan afferma che il desiderio è sempre desiderio dell’Altro. Significa che gli esseri umani non sono autocentrati, non consistono di se stessi ma dipendono dal desiderio dell’Altro…
Nel rapporto d’amore, lei dice citando Lacan, l’Altro con la sua vita apre una mancanza in noi. È un equivalente dell’esperienza religiosa?
Il mistico come l’innamorato fa esperienza della propria insufficienza e, al tempo stesso, della nascita di un nuovo mondo che è il mondo visto dalla prospettiva del Due e non dell’Uno. L’amore porta con sé una cifra mistica in quanto è apertura, trascendenza, salto, esposizione verso l’Altro che noi non possiamo governare. L’esperienza dell’amore mostra che la vita senza l’Altro perde di senso, che è dall’Altro che io ricevo il mio senso. Questa verità contrasta con un altro idolo fasullo dei nostri tempi: quello che vorrebbe che l’uomo si facesse da sé, quello che esalta il valore dell’autonomia e della indipendenza. Il mondo dell’Uno solo è un mondo amputato, triste, avvitato su se stesso. Il mistico rompe il guscio dell’Uno. In questo senso ogni amore è a suo modo mistico.
L’amore salva la creatura dalla sua libertà infondata, lei scrive. Una libertà infondata nel senso che rifiuta il rapporto di dipendenza?
La vita umana viene alla vita senza essere padrona della vita. In questo senso la sua libertà è sempre infondata. Lo ricordano bene i filosofi dell’esistenza. Nell’amore però noi possiamo fare esperienza dell’incontro con qualcosa che sembra donare un fondamento alla vita. La mia vita che senza l’amore non era nulla, che era di troppo, insensata, una volta amata trova invece un senso, riceve un suo fondamento. Anche se questo fondamento è solo umano, quindi ontologicamente infondato. L’amore è esigenza di un fondamento nella consapevolezza che come umani, come esseri che abitano il linguaggio, siamo privi di fondamento…
L’esperienza del perdono è la ragion d’essere di questo libro. Lei lo definisce non un atto reattivo, ma un lavoro. In che senso è un lavoro?
Non esiste un perdono reattivo. Il perdono necessita tempo. Solo Gesù vive l’esperienza del perdono come simultanea: “Perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Diversamente il perdono è un lavoro che richiede tempo e dolore psichico. È simile al lavoro del lutto. Ma on una differenza sostanziale. Mentre nel lutto noi lavoriamo attorno ad un’assenza, ad un oggetto morto che ci ha irreversibilmente abbandonato, nel perdono noi siamo di fronte a qualcuno che ci chiede di essere perdonato e che è ancora vivo… Se possibile il lavoro del perdono è per questa ragione ancora più difficile del lavoro del lutto. L’altro che ci ha lasciati, che ha ustionato la nostra anima, è, al tempo stesso, vivo e morto nello stesso tempo… Il dono del perdono è restituire la vita a quell’amore che pareva morto. La sua gioia è la gioia misteriosa della risurrezione…
L’intervista integrale è sul numero di Vita in edicola o su web per abbonati
http://www.vita.it/societa/famiglia/il-dono-del-perdono.html
IL FIGLIO FOLLE, L’UNICO PROBLEMA CHE EINSTEIN NON SEPPE RISOLVERE
di Mario Baudino, lastampa.it, 8 luglio 2014
Albert Einstein, oltre a essere il genio del Novecento, fu un uomo di grande coraggio, che riuscì a sfuggire alla Gestapo, a contribuire alla creazione di Israele, e a spingere Roosevelt al progetto per la bomba atomica cercando però di fermarlo quando si trattò di lanciarla sul Giappone. Una cosa sola non riuscì a fare: visitare il figlio chiuso in un ospedale psichiatrico. Era il suo limite, «ma solo l’Universo non ha limiti», scrive Laurent Seksik inIl caso Eduard Einstein», romanzo-biografia appena uscito per Frassinelli.
In omaggio alla tradizione molto francese delle biografie che scavano nel sentimento, per concedersi solo in campo psichico la parte di invenzione romanzesca (basti pensare a quelle che André Maurois dedicò a un’infinità di personaggi, da Byron a Hugo, da George Sand a Balzac, o più di recente alla versione scabra e quasi reticente negli ultimi libri di Jean Echenoz), Seksik riporta così alla luce una scheggia di vita del grande scienziato ben nascosta nelle lettere o in pagine e note di altri lavori. La tragedia della sua vita: il figlio Eduard che a vent’anni fu rinchiuso nell’ospedale psichiatrico di Zurigo e di fatto lì abbandonato.
Una tragedia dimenticata. Nato nel 1910, secondogenito del matrimonio tra il padre e la scienziata Mileva Maric, ragazzino sensibile e malaticcio, Eduard è considerato un talento nella musica e negli studi. Cresce a Zurigo con la madre e il fratello Hans Albert, e gli anni dell’adolescenza sono gli unici sereni: il padre che vive a Berlino arriva spesso in visita, il ragazzo è in apparenza sereno. Si affaccia all’università per studiare medicina. Vuole diventare psichiatra, si appassiona alle opere di Freud, ma il suo male è in agguato, e deflagra nel 1930, quando ha vent’anni, in forma gravissima. Durante una crisi, il giovane aggredisce la madre.
Nel ’32 si rende necessario il ricovero al «Burghölzli», una clinica per malattie mentali di Zurigo, e da quel momento tutto cambia. Eduard ne sarebbe uscito qualche volta, ma lì era destinato a trascorrere gran parte della sua esistenza e a morire, nel 1965, dieci anni dopo la scomparsa del padre. In tutto questo periodo, in tutta questa vita, Albert e Eduard si incontrarono una sola volta, come documenta una fotografia. Fu nel ‘33, quando lo scienziato lasciò fortunosamente Berlino per riparare in America con la seconda moglie. Hitler era diventato cancelliere, e Albert Einstein fu il primo obiettivo dei nazisti.
Riuscì a mettersi in salvo, e si precipitò a Zurigo per convincere il figlio a seguirlo. Senza riuscirci. Fu quello il loro ultimo incontro, al Burghölzli. Insieme suonarono il pianoforte; quanto al resto può solo essere immaginato. Seksik lo fa nella sua biografia-romanzo, dove Eduard dice al padre, con tono di sfida. «Venire con te? Meglio crepare». È del tutto verosimile, anche se non sapremo mai che cosa passò in quel momento tra i due. Il giovane restò affidato alla madre – e alle terribili cure di quegli anni, agli elettroshock, alla contenzione -, mentre per il grande scienziato cominciava una nuova vita.
E tuttavia anche dopo la guerra – e la scomparsa di Mileva – l’uomo che più ha impresso la sua impronta sul secolo non se la sentì mai di guardare ancora una volta in viso la follia del figlio. Fu una sorta di terrore, che filtra qua e là nelle varie corrispondenze: «Mio figlio – scrisse – è l’unico problema che rimane senza soluzione». Un terrore in qualche modo ricambiato. Nel manicomio o nelle case di famiglia che di volta in volta lo ospitavano, Eduard studiava, scriveva (per esempio poesie) e non faceva mistero del suo essere come schiacciato da un padre insopportabilmente geniale e da un oscuro passato famigliare, che emerse a poco a poco.
Scoprì per esempio dal fratello Hans Albert che prima di loro c’era stata una bambina, nata dall’unione dei genitori quando erano studenti, ancora troppo giovani e squattrinati, che la dettero a balia per perderla quasi subito. Si discute se sia stata successivamente adottata o sia morta di scarlattina – Seksik propende per la seconda ipotesi – ma la sostanza non cambia. Eduard non era forse l’unico «problema senza soluzione». In camera teneva un ritratto di Freud, forse un ambiguo simbolo paterno.
Albert Einstein ebbe infatti col padre della psicanalisi un rapporto complicato. All’inizio respinse le sue teorie, tanto che nel 1928 si oppose – senza successo – alla decisione dell’Accademia di Stoccolma di assegnargli il Nobel per la medicina. In seguito fu però in corrispondenza con lui. E, insieme, i due scrissero per la Società delle Nazioni un libro di lettere in cui discutevano sul tema Perché la guerra. Non solo: da parte dello scienziato venne infine un riconoscimento esplicito che le teorie sull’inconscio erano forse accettabili. Senza mai menzionare con lui – altro mistero in questa zona buia della sua esistenza – la malattia del figlio.
http://www.lastampa.it/2014/07/08/cultura/il-figlio-folle-lunico-problema-che-einstein-non-seppe-risolvere-btSexD6HEifNki9gHPzXLP/pagina.html
ALLERS, L’ALTERNATIVA A FREUD
Lo chiamavano l’anti-Freud. Ma i suoi meriti vanno al di là dell’aver messo spalle al muro la psicoanalisi. Verrà il giorno in cui l’austriaco Rudolf Allers (1883-1963), sarà finalmente riconosciuto tra i più grandi psicologi e psichiatri della storia. Per ora, però, è solo un illustre sconosciuto, almeno in Italia. Se è vero che la psicologia è stata spesso terra straniera per i credenti e campo di reciproci sospetti, Allers al contrario non ha mai taciuto la sua militanza cattolica. E non è un caso allora se negli anni è stato ignorato e dimenticato.
Onore quindi a padre Jorge Olaechea Catter e al coraggio di una piccola casa editrice, la calabrese D’Ettoris, per aver gettato un significativo sasso nello stagno con un saggio illuminante e scorrevole anche per i non addetti ai lavori: Rudolf Allers psichiatra dell’umano. Per una psicologia filosofica-antropologica della persona umana (pp. 194, euro 15,90). Catter, filosofo e teologo con specializzazione in psicologia alla Pontificia Università Lateranense di Roma, è quindi un pioniere degli studi allersiani in Italia insieme con Roberto Marchesini, psicologo che oltre a firmare la prefazione di questo libro ha già introdotto un altro volume essenziale di Rudolf Allers Psicologia e cattolicesimo sempre per D’Ettoris editori.
Per continuare vai al link:
http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/allers-alternativa-a-freud.aspx
GEORGES DEVEREUX, L’IMPORTANZA DI ATTRAVERSARE I CONFINI. Nella collana Scienze e salute di Franco Angeli Editore esce, quarant’anni dopo la prima pubblicazione, “Etnopsicoanalisi complementarista”, una raccolta di saggi di uno tra i più originali intellettuali del Novecento
di Antonello Colimberti, europaquotidiano.it, 9 luglio 2014
Forse molti appassionati di cinema avranno visto Jimmy P., film del 2013, scritto e diretto da Arnaud Desplechin, con protagonista Benicio Del Toro. A qualcuno poi non sarà sfuggito che il film è la trasposizione cinematografica del libro Psychotherapy of a Plains Indian di Georges Devereux.
Ma chi è Georges Devereux? La figura di Georges Devereux (1908-1985) è di quelle che più difficilmente si prestano a una collocazione critica, a causa di un originale progetto di ricerca che lo ha portato ad attraversare i più svariati campi del sapere.
Anzi, l’attitudine e il destino degli “attraversamenti” fu per lui una costante biografica, se si pensa che, nato in un paese dell’Ungheria, Lugoj (poi inglobato nella Romania), fu soggetto a cambiamenti di nome, di nazionalità, di religione e di lingue. Fra le scienze da lui coltivate si annoverano tanto scienze esatte come la fisica e la chimica (studiata con Marie Curie) che scienze umane come la letteratura greca e l’antropologia culturale (studiata con Marcel Mauss).
Divenuto nel corso del tempo anche psicanalista, approfondì i rapporti di questa nuova scienza e pratica con l’etnologia, ampliando le intuizioni del fondatore Sigmund Freud e del seguace Géza Roheim (anch’egli di nascita ungherese) in quella che avrebbe chiamato “etnopsicoanalisi complementarista”.
L’occasione di avvicinare direttamente la lettura di un autore fra i più originali e stimolanti del Novecento viene dalla ripubblicazione in lingua italiana, dopo quarant’anni dalla prima uscita, di una raccolta di saggi intitolata appunto Etnopsicoanalisi complementarista (Franco Angeli Editore). Questa nuova edizione si avvale della traduzione e revisione della versione originale (uscita in Francia nel 1972) di Nicoletta Francesca Salvi, lei stessa psichiatra transculturale, e della cura di un altro psichiatra transculturale, Alfredo Ancora, che è anche l’autore di un’ampia e magistrale introduzione, che in una trentina di pagine offre al lettore tutto quanto merita di conoscere su Devereux e il significato della sua opera.
Al termine dello scritto, Ancora, che ha ben conosciuto Devereux a Parigi nei primi anni Ottanta del secolo scorso, pur rilevando alcuni limiti del maestro ungherese, soprattutto nell’interpretazione dello sciamanesimo (di cui Ancora è oggi uno dei più apprezzati studiosi), non esita a proclamarne l’attualità per il suo decentramento dell’osservazione: «Per questo ringraziamo Devereux, il migrante, l’indiano, lo psicoanalista, l’epistemologo, il nomade, il senza patria, l’inquieto, il maestro solitario, che ha fatto diventare centrali tanti pensieri e tante persone periferiche».
http://www.europaquotidiano.it/2014/07/09/georges-devereux-limportanza-di-attraversare-i-confini/
RECALCATI, SERRA E LA SARACENO AL FESTIVAL DELLA MENTE 2014. Al via l’undicesima edizione del Festival della Mente a Sarzana
Il Festival della Mente torna per l’undicesima edizione a Sarzana dal 29 al 31 agosto; 60 relatori e 39 incontri tra conferenze, spettacoli, workshop. Con la direzione scientifica di Gustavo Pietropolli Charmet l’iniziativa punta a esplorare la nascita e lo sviluppo dei processi creativi: scrittori, artisti, fotografi, designer, scienziati, psicoanalisti, filosofi e storici indagano i cambiamenti, le energie e le speranze della società di oggi.
«Il Festival della Mente è un cantiere aperto dove si produce un insolito tipo di cultura» dichiara Pietropolli Charmet. «Non quella che si trasmette nelle aule universitarie. A Sarzana scrittori e ricercatori narrano le cose più belle che hanno capito o scoperto».
Tra gli ospiti Mario Calabresi (che aprirà la manifestazione il 29 agosto con una lectio magistralis), Massimo Recalcati, Michele Serra, Chiara Saraceno, Alessandro Barbero, Fabio Geda, Luigi Zoja.
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/07/09/recalcati-serra-e-la-saraceno-al-festival-della-mente-201450.html?ref=search
SOLO UNA SINISTRA RADICALIZZATA PUÒ SALVARE L'EUROPA
di Slavoj Žižek, bulgaria-italia.com, 10 luglio 2014*
Dopo il trionfo elettorale dei partiti euroscettici anti-immigrati in Francia e nel Regno Unito a maggio, molti liberali hanno espresso il loro shock e preoccupazione. Tuttavia, c'era una sorta di ingenuità finta nella loro indignazione e stupore per le vittorie di destra. Ciò che ci si dovrebbe chiedere è perché ci sia voluto alla destra anti-immigrati così tanto tempo per fare un passo avanti decisivo.
Quando Jean-Marie Le Pen, fondatore del partito della estrema destra francese Fronte Nazionale che ha trionfato in Francia nelle recenti elezioni del Parlamento europeo – ha fatto una battuta di pessimo gusto sulla camera a gas circa un cantante pop francese di origine ebraica, la figlia Marine Le Pen, leader del partito, lo ha criticato pubblicamente, promuovendo in tal modo la sua immagine come volto umano di suo padre.
È irrilevante se questo conflitto familiare sia una messa in scena o reale – l'oscillazione tra le due facce, quella brutale e quella civile, è ciò che definisce la Destra populista di oggi. Sotto la maschera pubblica civilizzata si annida il suo vero volto brutale e osceno, e la differenza tra i due è solo il grado in cui il volto nascosto è apertamente esposto. Anche se questo sottostante rimane totalmente fuori di vista, è lì come presupposto silenzioso, come un punto invisibile di riferimento. Senza spettro di suo padre, Marine Le Pen non esiste.
Non c'è nessuna sorpresa nel messaggio di Marine Le Pen: è il solito patriottismo anti-elitario della classe lavoratrice che bersaglia i poteri finanziari transnazionali e la burocrazia alienata di Bruxelles. Lei rifiuta i non eletti tecnocrati finanziari di Bruxelles che brutalmente fanno rispettare gli interessi del capitale finanziario internazionale e proibiscono ai singoli Stati di dare priorità al benessere del proprio popolo. Lei perora quindi una politica che si collega con le preoccupazioni e gli affanni della gente comune che lavora. La Le Pen dà forma a un chiaro contrasto con i tecnocrati europei sterili: mentre gli sfoghi fascisti del suo partito sono una cosa del passato, lei riporta la passione nella politica. Anche alcuni esponenti della sinistra disorientati soccombono alla tentazione di difenderla. Ciò che unisce la Le Pen e i suoi simpatizzanti di sinistra europei è il loro rifiuto comune di un'Europa forte e il loro desiderio di un ritorno alla sovranità degli Stati nazionali.
Il problema con questo rifiuto condiviso è che, come si dice in una battuta, la Le Pen non cerca le cause delle angosce nell'angolo buio dove realmente sono, ma sotto la luce, perché ci si vede meglio lì. Invece di cercare di discernere gli antagonismi del capitalismo globale di oggi, si concentra su obiettivi facili come gli immigrati la cui presenza è visibile a tutti sulle nostre strade. Il messaggio della Le Pen inizia con la premessa di destra: il fallimento della politica di austerità praticata dagli esperti di Bruxelles. Quando lo scrittore di sinistra romeno Panait Istrati visitò l'Unione Sovietica negli anni '30, il tempo delle grandi purghe e dei processi farsa, un apologeta sovietico cercando di convincerlo della necessità di violenze contro i nemici dello stato evocò il proverbio, "Non puoi fare una frittata senza rompere le uova ". Al che Istrati laconicamente rispose:" Va bene. Riesco a vedere le uova rotte. Dov'è la vostra frittata? " Dovremmo dire lo stesso delle misure di austerità imposte dai tecnocrati di Bruxelles: "OK, state rompendo le uova in tutta Europa, ma dov'è la frittata che ci avete promesso?"
Il minimo che si può dire sulla crisi, che dura dal 2008, è che offre la prova che non è il popolo ma sono questi stessi esperti che, per la maggior parte, non sanno quello che stanno facendo. In Europa occidentale si assiste ad una crescente incapacità della classe dirigente; sanno sempre meno come governare. Guardate come l'Europa sta affrontando la crisi greca: facendo pressione sulla Grecia per ripagare i debiti, ma allo stesso tempo, rovinando la sua economia attraverso misure di austerità imposte e, quindi, assicurandosi che il debito greco non sarà mai ripagato. Nel giugno 2013 il Wall Street Journal fece trapelare documenti interni del Fondo Monetario Internazionale (FMI) che dimostrano che il danno economico alla Grecia derivante dalle misure di austerità aggressive può essere fino a tre volte più grande di quanto precedentemente supposto, annullando in tal modo le precedenti prescrizioni del FMI di austerità come soluzione alla crisi dell'Eurozona.
Ora, dopo che centinaia di migliaia di posti di lavoro sono andati perduti a causa di tali "errori di calcolo", il FMI ammette che costringere la Grecia e altri paesi oppressi dal debito a ridurre i loro deficit troppo in fretta sarebbe controproducente. La pressione in corso dell'UE sulla Grecia per implementare misure di austerità si sposa perfettamente con ciò che la psicanalisi chiama Super-Io. Il Super Io non è un agente morale corretto, ma un agente sadico che bombarda il soggetto con richieste impossibili, oscenamente godendo per il fallimento del soggetto nel conformarvisi. Tuttavia, il paradosso del Super-io è che, come Freud vide chiaramente, più obbediamo alle sue esigenze, più ci sentiamo in colpa. Immaginate un insegnante malvagio che dà ai suoi allievi compiti impossibili, e poi li deride sadicamente quando vede la loro ansia e panico. Questo è ciò che è così terribilmente sbagliato con i comandi UE: non hanno nemmeno dato una possibilità alla Grecia; il fallimento greco è parte del gioco. E' come se i prestatori e custodi del debito accusassero i paesi indebitati di non sentirsi abbastanza in colpa.
Ivi risiede il vero messaggio delle "irrazionali" proteste popolari in tutta Europa: i contestatori sanno molto bene ciò che non conoscono; non pretendono di avere risposte rapide e facili. Ma ciò che i loro istinti gli stanno dicendo è comunque vero: che anche quelli al potere non lo sanno. Oggi in Europa i ciechi stanno guidando altri ciechi. La politica di austerità non è in realtà scienza, neppure in senso minimale; è molto più vicina a una forma contemporanea di superstizione, una sorta di reazione istintiva ad una situazione complessa impenetrabile, una reazione cieca del tipo "le cose andavano male, noi siamo in qualche modo colpevoli, dobbiamo pagare il prezzo e soffrire, quindi cerchiamo di fare qualcosa che fa male e di spendere di meno." La politica di austerità non è "troppo radicale", come sostengono alcuni critici di sinistra, ma, al contrario, troppo superficiale, una messinscena per evitare le vere radici della crisi.
L'angolo buio
Può l'idea di un'Europa unita essere ridotta al regno dei tecnocrati di Bruxelles? La prova che non è questo il caso, è che gli Stati Uniti e Israele, due stati-nazione ossessionati della loro sovranità, a un certo livello profondo e spesso offuscato percepiscono l'UE come il nemico. Questa percezione, tenuta sotto controllo nel discorso politico pubblico, esplode nel suo sotterraneo doppio osceno.
In Israele, le storie folli circa il diritto del paese di buttare fuori i palestinesi sono radicate nell'Esodo, in particolare nel comando di Dio agli ebrei, mentre si avvicinavano alla loro terra dopo 40 anni di peregrinazioni in giro, di massacrare senza pietà le tribù che vivevano lì. Negli Stati Uniti, la visione è raddoppiata dalla visione politica fondamentalista della estrema destra cristiana con la sua paura ossessiva del Nuovo Ordine Mondiale, come esemplificato nelle opere di Tim LaHaye. Il titolo di un romanzo di Lahaye punta in questa direzione: The Europa Conspiracy. I nemici degli Stati Uniti non sono i terroristi islamici; essi sono soltanto burattini segretamente manipolati dai laicisti europei – le vere forze dell'Anticristo che vogliono indebolire gli Stati Uniti e creare il Nuovo Ordine Mondiale sotto il dominio delle Nazioni Unite.
In un certo senso, hanno ragione in questa percezione: l'Europa non è solo un altro blocco di potere geopolitico, ma una visione globale che è in definitiva incompatibile con gli stati-nazione, una visione di un ordine transnazionale che garantisca alcuni diritti (welfare, libertà, ecc) a tutte le persone di tutto il mondo. Questo è il motivo per cui l'UE ha la propensione a espandersi ben oltre i confini della vecchia Europa. Questo è il motivo per cui il sogno europeo ha ancora fascino universale. Questa dimensione dell'UE fornisce la chiave per la cosiddetta "debolezza" europea: c'è una correlazione sorprendente tra unificazione europea e la sua perdita di potere politico-militare globale.
La modalità di base della politica di oggi è una amministrazione depoliticizzata e il coordinamento degli interessi da parte di un corpo d'élite di esperti. L'unico modo per introdurre passione in questa zona franca-politica, di mobilitare attivamente le persone, è attraverso la paura: paura degli immigrati, paura della criminalità, paura della depravazione sessuale senza Dio, paura dello stesso Stato eccessivo (con il suo fardello di tassazione elevata), paura della catastrofe ecologica, paura di molestie (la correttezza politica è la forma liberale esemplare della politica della paura). I liberali progressisti sono, naturalmente, inorriditi dal razzismo populista.
Tuttavia, uno sguardo più attento rivela presto come la loro tolleranza multiculturale e il rispetto degli altri (religiosi, sessuali, etnici) condividono con anti-immigrati una premessa fondamentale: la paura degli altri come chiaramente distinguibile nella ossessione dei liberali verso le molestie. Molestie della salute quando sono turbato da un fumatore spudorato, molestie verbali quando sento per caso un tizio di classe inferiore raccontare una barzelletta sporca. … L'Altro va bene, ma solo nella misura in cui la sua presenza non è invadente, nella misura in cui questo Altro non è davvero altro.
Nessuna meraviglia che il tema dei "soggetti tossici" ha guadagnato terreno di recente. Il predicato "tossico" comprende una serie di proprietà che appartengono a livelli naturali culturali psicologici politici totalmente diversi. Un "soggetto tossico" può essere un immigrato con una malattia mortale che dovrebbe essere messo in quarantena; un terrorista i cui piani mortali devono essere prevenuti e deve stare a Guantánamo (una zona vuota esentata dallo stato di diritto); un ideologo fondamentalista che dovrebbe essere messa a tacere, perché si sta diffondendo l'odio; o un genitore insegnante o sacerdote che abusa e corrompe i bambini. Ciò che è tossico è in definitiva il Vicino straniero in quanto tale in modo che l'obiettivo finale di tutte le regole delle relazioni interpersonali è di mettere in quarantena o almeno neutralizzare e contenere questa dimensione tossica.
Sul mercato di oggi troviamo tutta una serie di prodotti privati delle loro proprietà maligne: caffè senza caffeina panna senza grassi birra senza alcool. E l'elenco potrebbe continuare. La dottrina di Colin Powell della guerra senza vittime (dalla nostra parte, ovviamente) diventa una guerra senza guerra; la ridefinizione contemporanea della politica come arte dell'amministrazione di esperti diventa politica senza politica; fino al multiculturalismo liberale tollerante di oggi che diventa esperienza dell'Altro privato della sua Alterità.
Non è questa disintossicazione dell'immigrato Altro il punto principale del programma dello United Kingdom Independence Party di Nigel Farage? Farage sottolinea ripetutamente che non è contro la presenza di lavoratori stranieri nel Regno Unito, che lui apprezza molto i laboriosi polacchi e il loro contributo all'economia britannica. Questa è la posizione della destra anti-immigrati "civilizzata": la politica del vicino disintossicato – polacchi buoni contro immigrati cattivi. Questa visione della disintossicazione del Vicino presenta un chiaro passaggio dalla barbarie abietta alla barbarie dal volto umano. In quali condizioni si manifesta?
La vecchia tesi di Walter Benjamin che dietro ogni ascesa del fascismo c'è una rivoluzione fallita non solo è valida ancora oggi ma è più pertinente che mai. Ai liberali di destra piace sottolineare analogie tra destra e sinistra "estremismi": il terrore e i campi di Hitler imitarono il terrore bolscevico _ il partito leninista è vivo oggi in al Qaeda. Ma questo non indica come il fascismo si sostituisce a una rivoluzione di sinistra fallita? La sua ascesa è il fallimento della sinistra ma allo stesso tempo la prova che c'era un potenziale rivoluzionario che la sinistra non è stata in grado di mobilitare. E non vale lo stesso oggi per il cosiddetto "fascismo islamico"? L'ascesa dell'islamismo radicale non è correlato con la scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani?
Oggi quando l'Afghanistan è raffigurato come il massimo paese islamico fondamentalista chi si ricorda che 36 anni fa era un paese con una forte tradizione secolare tra cui un partito comunista forte che ha preso il potere indipendentemente dall'Unione Sovietica? Come Thomas Frank ha dimostrato, lo stesso vale per il Kansas: lo stesso stato che era fino al 1970 la base fondamentale della populismo radicale di sinistra è oggi la roccaforte del fondamentalismo cristiano. E lo stesso vale per l'Europa: Il fallimento della sinistra alternativa al capitalismo globale ha dato i natali al populismo anti-immigrati.
Anche nel caso di movimenti chiaramente fondamentalisti bisogna stare attenti a non perdere la componente sociale. I talebani sono regolarmente presentati come un gruppo islamico fondamentalista che impone il proprio dominio con il terrore tuttavia, quando nella primavera del 2009 si erano impadroniti della valle di Swat in Pakistan il New York Times ha riferito che hanno costruito una rivolta di classe che sfruttava le profonde spaccature tra un piccolo gruppo di ricchi proprietari terrieri e i loro fittavoli senza terra.
Se sfruttando il dramma degli agricoltori i talebani stanno sollevando l'allarme sui rischi per il Pakistan, che resta in gran parte feudale cosa impedisce ai democratici liberali in Pakistan, così come agli Stati Uniti di analogamente "approfittare" di questa situazione e cercare per aiutare i contadini senza terra? La triste implicazione di questo fatto è che le forze feudali in Pakistan sono l' "alleato naturale" della democrazia liberale. E mutatis mutandis (cambiano solo le cose che devono essere cambiate) lo stesso vale per Farage e Le Pen: la loro ascesa è il rovescio della scomparsa della sinistra radicale.
La lezione che gli spaventati liberali dovrebbero imparare è questa: solo una sinistra radicalizzata può salvare ciò che vale la pena di salvare dell'eredità liberale. La triste prospettiva che cova, se questo non accadrà è l'unità dei due poli-il dominio dei tecnocrati finanziari senza nome che indossa una maschera di pseudo- passioni populiste.
* Questo articolo è uscito su New Statesman (Uk) e In These Times (USA)
http://www.bulgaria-italia.com/bg/news/news/04364.asp
http://www.newstatesman.com/politics/2014/06/slavoj-i-ek-only-radicalised-left-can-save-europe
http://inthesetimes.com/article/16905/broken_eggs_but_no_omelet
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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