La prima parte della rassegna è dedicata ai recenti fatti terroristici (L.R.)
INSEGUENDO IL BORDO VERTIGINOSO DELLE COSE
di Rosalba Miceli, lastampa.it, 15 luglio 2016
«Papa Francesco è solidale con le vittime e tutto il popolo francese dopo l’attentato di Nizza e condanna “nel modo più assoluto ogni manifestazione di follia omicida, di odio, di terrorismo e ogni attacco contro la pace”, afferma padre Federico Lombardi, in una dichiarazione all’Ansa (Città del Vaticano, 15 luglio 2016). Manifestazione di follia omicida, di odio, di terrorismo e ogni attacco contro la pace – in una parola – l’esternalizzazione dell’aggressività contro l’essere umano individuato come oppositore o nemico, unita alla volontà di rovinare in qualsiasi modo l’oggetto odiato, e alla percezione soggettiva (dal punto di vista dell’aggressore) della sostanziale “giustizia” del proposito di distruzione. Legittimazione della violenza che, per l’assalitore di Nizza, non fa distinzione tra adulti e bambini, passanti e forze dell’ordine, turisti e residenti del luogo, non distingue tra i volti delle vittime o potenziali vittime. Il volto dell’Altro, incrocio di immagini e sensazioni – il solo capace di attivare percorsi di risonanza interiore – è qui svuotato di ogni consistenza.
Seguendo l’interesse per «il bordo vertiginoso delle cose» – quei limiti che per alcuni sono invalicabili e che altri superano (la citazione è da un verso di Robert Browning in Bishop Blougram’s Apology) – percorrendo l’esiguo crinale tra il bene e il male, il senso e il nulla, la riflessione dello scrittore Graham Greene incontra il rapporto tra odio e immaginazione: «Considerando attentamente un uomo o una donna, si poteva sempre cominciare a provarne pietà… Era una qualità insita nell’immagine di Dio… Quando si erano vedute le rughe agli angoli degli occhi, la forma della bocca, il modo in cui crescevano i capelli, era impossibile odiare. L’odio era semplicemente una mancanza di immaginazione» (Il potere e la gloria, 1940).
Affrontare il problema del profilo psicologico di un aspirante terrorista è sempre molto complesso per gli addetti ai lavori. Tratti di personalità e motivazioni individuali si incrociano e si saldano con le ideologie che alimentano il terrorismo. Particolarmente interessanti e densi di informazioni sono i proclami che i terroristi stessi fanno in prima persona – spesso utilizzando i mezzi di comunicazione più avanzati – o i racconti dei loro più stretti familiari e amici. Esaminando questi racconti, talora è possibile capire perché il futuro terrorista intraprenda il percorso che lo porterà infine ad accettare di morire per uccidere meglio e a morire affinché viva meglio l’immagine che lo rappresenta.
Segue qui:
http://www.lastampa.it/2016/07/15/scienza/galassiamente/inseguendo-il-bordo-vertiginoso-delle-cose-ZbohivIdYyNgwVmKsYw29O/pagina.html
LA STRAGE DI NIZZA E L’ETÀ PSICOTICA
di Pietro Barbetta, doppiozero.com, 17 luglio 2016
Siamo in epoca psicotica, non è la prima e non sarà l’ultima, nessuna apocalisse. Cos’è un’epoca psicotica? Come insegna Paul-Claude Racamier (1924-1996), la psicosi – tra gli altri sintomi familiari – è la negazione di qualsiasi tipo di conflitto. Nei sistemi psicotici “conflitto”, per definizione, significa “distruzione”. Bisogna far sempre finta che tutto vada bene. Nei momenti in cui il conflitto “si mostra” – come direbbe Wittgenstein – si mostra in termini distruttivi, unica sua possibilità, giacché il resto deve essere “dialogo”. Sintassi dei sistemi psicotici. Non è questo ciò che i politici chiamano totalitarismo? Sembra che i sistemi psicotici e il totalitarismo siano un unico soggetto visto da dentro e da fuori.
Quando, di fronte a un conflitto, anziché aprire una discussione, ci si rivolge a un’istanza superiore, preposta, nella mente di chi lo fa, ad annientare la parte “altra” del conflitto, allora siamo ai capi scala della Germania Democratica, alla buca delle delazioni. Questo soggetto collettivo esiste e non è quel soggetto collettivo romantico che libererà l’umanità da ogni male. È narcisista e sadico. Però, questo soggetto, non è struttura patologica individuale, è sistema patologico. Non si tratta di cattiva educazione familiare; neppure di neurotrasmettitori in eccesso, o in difetto. Questa patologia è effetto di un contesto storico-sociale; un portato culturale antico, che di tanto in tanto riemerge, l’effetto di un brodo culturale.
Che differenza c’è tra Andreas Lubitz, 28 anni, Anders Breivik, 37, e Mohamed Lahouij Bouhlel, 31? Il primo aveva superato i test psicologici per diventare pilota – segno che la psicologia non è una sfera di cristallo per divinare il futuro – il secondo è di estrema destra e si spertica in saluti nazisti ogni vola che lo fotografano, del terzo ancora si sa poco, forse era un fondamentalista religioso, forse no, il suo gesto è stato rivendicato da Isis, ma è difficile pensare a una sua affiliazione ufficiale. Breivik si è inventato un soggetto collettivo che, almeno fino alla strage, era tutto nella sua testa, Bouhlel un soggetto collettivo di riferimento ce l’avrebbe avuto, ma a posteriori. Isis ha esultato per il suo gesto.
Tutti e tre, il tedesco Lubitz, il norvegese Breivik, il tunisino Bouhlel, sono nati sulla soglia di una crisi culturale epocale. I politologi, abituati a spiegare il mondo attraverso polarità, incominciano a confondersi. Quando non si capisce più da che parte stare, si sviluppano le più svariate teorie del complotto. Come non capire che la democratizzazione post-comunista non è passata attraverso la questione dei diritti, ma attraverso quella del mercato. Che il post-comunismo è guerra di tutti contro tutti e che, se non si fa un po’ di ricerca psicologica, di questi fenomeni è impossibile venire a capo con le categorie del politico?
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/rubriche/336/201607/la-strage-di-nizza-e-leta-psicotica
«Papa Francesco è solidale con le vittime e tutto il popolo francese dopo l’attentato di Nizza e condanna “nel modo più assoluto ogni manifestazione di follia omicida, di odio, di terrorismo e ogni attacco contro la pace”, afferma padre Federico Lombardi, in una dichiarazione all’Ansa (Città del Vaticano, 15 luglio 2016). Manifestazione di follia omicida, di odio, di terrorismo e ogni attacco contro la pace – in una parola – l’esternalizzazione dell’aggressività contro l’essere umano individuato come oppositore o nemico, unita alla volontà di rovinare in qualsiasi modo l’oggetto odiato, e alla percezione soggettiva (dal punto di vista dell’aggressore) della sostanziale “giustizia” del proposito di distruzione. Legittimazione della violenza che, per l’assalitore di Nizza, non fa distinzione tra adulti e bambini, passanti e forze dell’ordine, turisti e residenti del luogo, non distingue tra i volti delle vittime o potenziali vittime. Il volto dell’Altro, incrocio di immagini e sensazioni – il solo capace di attivare percorsi di risonanza interiore – è qui svuotato di ogni consistenza.
Seguendo l’interesse per «il bordo vertiginoso delle cose» – quei limiti che per alcuni sono invalicabili e che altri superano (la citazione è da un verso di Robert Browning in Bishop Blougram’s Apology) – percorrendo l’esiguo crinale tra il bene e il male, il senso e il nulla, la riflessione dello scrittore Graham Greene incontra il rapporto tra odio e immaginazione: «Considerando attentamente un uomo o una donna, si poteva sempre cominciare a provarne pietà… Era una qualità insita nell’immagine di Dio… Quando si erano vedute le rughe agli angoli degli occhi, la forma della bocca, il modo in cui crescevano i capelli, era impossibile odiare. L’odio era semplicemente una mancanza di immaginazione» (Il potere e la gloria, 1940).
Affrontare il problema del profilo psicologico di un aspirante terrorista è sempre molto complesso per gli addetti ai lavori. Tratti di personalità e motivazioni individuali si incrociano e si saldano con le ideologie che alimentano il terrorismo. Particolarmente interessanti e densi di informazioni sono i proclami che i terroristi stessi fanno in prima persona – spesso utilizzando i mezzi di comunicazione più avanzati – o i racconti dei loro più stretti familiari e amici. Esaminando questi racconti, talora è possibile capire perché il futuro terrorista intraprenda il percorso che lo porterà infine ad accettare di morire per uccidere meglio e a morire affinché viva meglio l’immagine che lo rappresenta.
Segue qui:
http://www.lastampa.it/2016/07/15/scienza/galassiamente/inseguendo-il-bordo-vertiginoso-delle-cose-ZbohivIdYyNgwVmKsYw29O/pagina.html
LA STRAGE DI NIZZA E L’ETÀ PSICOTICA
di Pietro Barbetta, doppiozero.com, 17 luglio 2016
Siamo in epoca psicotica, non è la prima e non sarà l’ultima, nessuna apocalisse. Cos’è un’epoca psicotica? Come insegna Paul-Claude Racamier (1924-1996), la psicosi – tra gli altri sintomi familiari – è la negazione di qualsiasi tipo di conflitto. Nei sistemi psicotici “conflitto”, per definizione, significa “distruzione”. Bisogna far sempre finta che tutto vada bene. Nei momenti in cui il conflitto “si mostra” – come direbbe Wittgenstein – si mostra in termini distruttivi, unica sua possibilità, giacché il resto deve essere “dialogo”. Sintassi dei sistemi psicotici. Non è questo ciò che i politici chiamano totalitarismo? Sembra che i sistemi psicotici e il totalitarismo siano un unico soggetto visto da dentro e da fuori.
Quando, di fronte a un conflitto, anziché aprire una discussione, ci si rivolge a un’istanza superiore, preposta, nella mente di chi lo fa, ad annientare la parte “altra” del conflitto, allora siamo ai capi scala della Germania Democratica, alla buca delle delazioni. Questo soggetto collettivo esiste e non è quel soggetto collettivo romantico che libererà l’umanità da ogni male. È narcisista e sadico. Però, questo soggetto, non è struttura patologica individuale, è sistema patologico. Non si tratta di cattiva educazione familiare; neppure di neurotrasmettitori in eccesso, o in difetto. Questa patologia è effetto di un contesto storico-sociale; un portato culturale antico, che di tanto in tanto riemerge, l’effetto di un brodo culturale.
Che differenza c’è tra Andreas Lubitz, 28 anni, Anders Breivik, 37, e Mohamed Lahouij Bouhlel, 31? Il primo aveva superato i test psicologici per diventare pilota – segno che la psicologia non è una sfera di cristallo per divinare il futuro – il secondo è di estrema destra e si spertica in saluti nazisti ogni vola che lo fotografano, del terzo ancora si sa poco, forse era un fondamentalista religioso, forse no, il suo gesto è stato rivendicato da Isis, ma è difficile pensare a una sua affiliazione ufficiale. Breivik si è inventato un soggetto collettivo che, almeno fino alla strage, era tutto nella sua testa, Bouhlel un soggetto collettivo di riferimento ce l’avrebbe avuto, ma a posteriori. Isis ha esultato per il suo gesto.
Tutti e tre, il tedesco Lubitz, il norvegese Breivik, il tunisino Bouhlel, sono nati sulla soglia di una crisi culturale epocale. I politologi, abituati a spiegare il mondo attraverso polarità, incominciano a confondersi. Quando non si capisce più da che parte stare, si sviluppano le più svariate teorie del complotto. Come non capire che la democratizzazione post-comunista non è passata attraverso la questione dei diritti, ma attraverso quella del mercato. Che il post-comunismo è guerra di tutti contro tutti e che, se non si fa un po’ di ricerca psicologica, di questi fenomeni è impossibile venire a capo con le categorie del politico?
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/rubriche/336/201607/la-strage-di-nizza-e-leta-psicotica
GERMANIA FRANCIA, DALLA GUERRA REALE ALLA COMPETIZIONE SUBLIMATA NEL CALCIO
di Luciano Casolari, ilfattoquotidiano.it, 18 luglio 2016
Mentre guardavo la partita di calcio Germania-Francia mi veniva in mente che cento anni prima fra quelle due nazioni si stava consumando una guerra terribile con milioni di morti. Fortunatamente ora la competizione, sempre con alterni esiti – in quanto a volte vince l’una o l’altra – si è spostata sui campi di calcio. L’Europa unita così bistrattata è servita a qualcosa e chi la denigra non si rende conto di cosa potrebbe scatenarsi se si tornasse agli egoismi nazionalistici.
I semi dell’odio sono ancora dentro di noi. Basta poco perché le tifoserie si aggrediscano e ci scappi, come la sera della finale di Euro 2016, un morto. La paura dell’altro con l’istinto a chiudersi nel proprio egoismo per combattere l’estraneo incita gli animi e viene utilizzata dai nazionalisti per il proprio tornaconto elettorale. Distruggere le istituzioni europee, bruciare i trattati, chiudere le frontiere, fortificarci contro la contaminazione della povertà per cercare di conservare la ricchezza che la nostra nazione ha conquistato nell’ultimo secolo, paiono i nuovi desideri. La storia però non torna indietro.
Segue qui:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/07/18/germania-francia-dalla-guerra-reale-alla-competizione-sublimata-nel-calcio/2904978/
Mentre guardavo la partita di calcio Germania-Francia mi veniva in mente che cento anni prima fra quelle due nazioni si stava consumando una guerra terribile con milioni di morti. Fortunatamente ora la competizione, sempre con alterni esiti – in quanto a volte vince l’una o l’altra – si è spostata sui campi di calcio. L’Europa unita così bistrattata è servita a qualcosa e chi la denigra non si rende conto di cosa potrebbe scatenarsi se si tornasse agli egoismi nazionalistici.
I semi dell’odio sono ancora dentro di noi. Basta poco perché le tifoserie si aggrediscano e ci scappi, come la sera della finale di Euro 2016, un morto. La paura dell’altro con l’istinto a chiudersi nel proprio egoismo per combattere l’estraneo incita gli animi e viene utilizzata dai nazionalisti per il proprio tornaconto elettorale. Distruggere le istituzioni europee, bruciare i trattati, chiudere le frontiere, fortificarci contro la contaminazione della povertà per cercare di conservare la ricchezza che la nostra nazione ha conquistato nell’ultimo secolo, paiono i nuovi desideri. La storia però non torna indietro.
Segue qui:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/07/18/germania-francia-dalla-guerra-reale-alla-competizione-sublimata-nel-calcio/2904978/
IL NARCISISMO ESTREMO E IL TERRORISTA
di Ugo Morelli, doppiozero.com, 18 luglio 2016
L’irruzione improvvisa di una potenza ignota o la lenta e distillata penetrazione attraverso l’indottrinamento e l’addestramento: entrambe le vie mostrano di essere in grado di generare il desiderio di gloria che coinvolge e travolge le personalità dei terroristi suicidi. I Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l’attentatore di Nizza nel giorno anniversario della rivoluzione francese, il 14 luglio 2016, ha ricevuto una radicalizzazione rapida della sua scelta. Atta, il capo terrorista dell’attentato alle Torri gemelle aveva avuto una lunga preparazione. Percorsi diversi per esiti simili. La guerra cambia quando chi uccide non lo fa più per salvare se stesso. Tanto che se il terrorista suicida non muore si tende a considerare fallita l’operazione, come hanno già sostenuto Diego Gambetta e con lui Marco Belpoliti occupandosi del tema su doppiozero. L’azione terroristica suicida diventa allora una finalità trascendente basata sulla distruttività come fine ultimo. Uno dei suoi caratteri peculiari è la purezza che deriva dal compimento del sacrificio di se stessi. Dal mito dell’angelo vendicatore al narcisismo, le leve psichiche interiori, sollecitate dall’educazione, fanno parte della predisposizione delle personalità suicide. Forse, di conseguenza, non si può più neppure chiamarla guerra quella in corso, se non risponde a nessuno dei criteri con cui nel tempo è stato identificato quel fenomeno. Riprendendo quello che ha scritto Sergio Benvenuto: il vero fine del terrorismo non è vincere una guerra ma farci vivere nel terrore; se la guerra non è il fine, c’è da chiedersi se sia un fine a muovere il terrorismo suicida. Così come accade quando si vede qualcuno correre in motocicletta così all’impazzata viene da domandarsi se non stia sfidando la morte e se chi lo fa non abbia piuttosto paura di vivere. Era stato Lucio Battisti qualche anno fa a cantare: correre a fari spenti nella notte per vedere se è tanto difficile morire.
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/materiali/il-narcisismo-estremo-e-il-terrorista
L’irruzione improvvisa di una potenza ignota o la lenta e distillata penetrazione attraverso l’indottrinamento e l’addestramento: entrambe le vie mostrano di essere in grado di generare il desiderio di gloria che coinvolge e travolge le personalità dei terroristi suicidi. I Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l’attentatore di Nizza nel giorno anniversario della rivoluzione francese, il 14 luglio 2016, ha ricevuto una radicalizzazione rapida della sua scelta. Atta, il capo terrorista dell’attentato alle Torri gemelle aveva avuto una lunga preparazione. Percorsi diversi per esiti simili. La guerra cambia quando chi uccide non lo fa più per salvare se stesso. Tanto che se il terrorista suicida non muore si tende a considerare fallita l’operazione, come hanno già sostenuto Diego Gambetta e con lui Marco Belpoliti occupandosi del tema su doppiozero. L’azione terroristica suicida diventa allora una finalità trascendente basata sulla distruttività come fine ultimo. Uno dei suoi caratteri peculiari è la purezza che deriva dal compimento del sacrificio di se stessi. Dal mito dell’angelo vendicatore al narcisismo, le leve psichiche interiori, sollecitate dall’educazione, fanno parte della predisposizione delle personalità suicide. Forse, di conseguenza, non si può più neppure chiamarla guerra quella in corso, se non risponde a nessuno dei criteri con cui nel tempo è stato identificato quel fenomeno. Riprendendo quello che ha scritto Sergio Benvenuto: il vero fine del terrorismo non è vincere una guerra ma farci vivere nel terrore; se la guerra non è il fine, c’è da chiedersi se sia un fine a muovere il terrorismo suicida. Così come accade quando si vede qualcuno correre in motocicletta così all’impazzata viene da domandarsi se non stia sfidando la morte e se chi lo fa non abbia piuttosto paura di vivere. Era stato Lucio Battisti qualche anno fa a cantare: correre a fari spenti nella notte per vedere se è tanto difficile morire.
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/materiali/il-narcisismo-estremo-e-il-terrorista
VIOLENZA E ISLAM
di Adonis, 24ilmagazine.ilsole24ore.com, 19 luglio 2016
«Non esiste un islam moderato accanto a un islam estremista, né un islam vero accanto a un islam falso. C’è un solo islam. Abbiamo però la possibilità di cercare altre interpretazioni»
Pubblichiamo un capitolo da Violenza e Islam (Guanda 2016), una conversazione tra il poeta siriano Adonis e la psicoanalista Houria Abdelouahed. La pagine che abbiamo scelto sono tratte dal capitolo «Al di là degli interessi economici e geopolitici, il pulsionale»
«Non esiste un islam moderato accanto a un islam estremista, né un islam vero accanto a un islam falso. C’è un solo islam. Abbiamo però la possibilità di cercare altre interpretazioni»
Pubblichiamo un capitolo da Violenza e Islam (Guanda 2016), una conversazione tra il poeta siriano Adonis e la psicoanalista Houria Abdelouahed. La pagine che abbiamo scelto sono tratte dal capitolo «Al di là degli interessi economici e geopolitici, il pulsionale»
H: Si parla sempre più spesso di radicalizzazione.
A: Non si può comprendere questo fenomeno se non si fa lo sforzo di ripensare la nascita dell’islam. Come abbiamo detto, la violenza è intrinsecamente legata alla nascita dell’islam, che sorge appunto come potere. Questa violenza ha accompagnato la fondazione del primo califfato e attinge a certi versetti coranici e ai primi commenti al Testo.
H: L’Isis ci riporta a un’epoca in cui la gente o si convertiva all’islam o moriva.
A: Abbiamo citato alcuni versetti, ma il Corano ne contiene molti altri, non meno violenti. Questa violenza è stata istituzionalizzata, ormai fa parte della forma statuale. Si aggiunga che i musulmani hanno agito fin dall’inizio da conquistatori. Il secolo che seguì alla morte di Maometto fu molto sanguinoso e la guerra arabo-araba, o la guerra musulmano-musulmana, non è mai finita. Basta leggere le opere sulla storia degli arabi.
H: Ma perché l’islam ha resistito al cambiamento?
A: Non abbiamo tenuto conto, o non abbastanza, della natura umana: il potere, il denaro e la violenza. L’islam ha risvegliato nell’essere umano l’istinto del possesso.
H: Vale a dire: aggiungere ai tentativi di risposta la dimensione psicologica e parlare del pulsionale. Il testo fondatore e i primi testi dei commentatori hanno permesso al maschio di soddisfare pienamente le proprie pulsioni, in particolare quella di possesso e quella sessuale. L’idea del paradiso come luogo di soddisfazione assoluta dove la nozione di mancanza non esiste è indice di una fantasia o di un rifiuto della castrazione. La fondazione ha colto l’essenziale nella natura della pulsione e della fantasia. Si può parlare di una malattia dell’islam, come ha fatto Abdelwahab Meddeb?
A: In La malattia dell’islam, Meddeb parla anche di un islam bello e vero.
H: Ma all’interno dell’universo musulmano ci sono la mistica, la filosofia, la letteratura…
A: Questi movimenti intellettuali non appartengono all’islam in quanto stato o istituzione. I mistici e i filosofi hanno usato l’islam come un velo o come un mezzo per sfuggire ai processi e alle condanne. Dal testo coranico non emerge alcuna filosofia.
H: Certo, la filosofia viene dalla Grecia e la mistica ha attinto a diverse fonti: il platonismo, il neoplatonismo, il cristianesimo, la lingua… Ma coloro che hanno forgiato questo pensiero vivevano all’interno della società musulmana. (…)
Segue qui:
http://24ilmagazine.ilsole24ore.com/2016/07/adonis/
H: L’Isis ci riporta a un’epoca in cui la gente o si convertiva all’islam o moriva.
A: Abbiamo citato alcuni versetti, ma il Corano ne contiene molti altri, non meno violenti. Questa violenza è stata istituzionalizzata, ormai fa parte della forma statuale. Si aggiunga che i musulmani hanno agito fin dall’inizio da conquistatori. Il secolo che seguì alla morte di Maometto fu molto sanguinoso e la guerra arabo-araba, o la guerra musulmano-musulmana, non è mai finita. Basta leggere le opere sulla storia degli arabi.
H: Ma perché l’islam ha resistito al cambiamento?
A: Non abbiamo tenuto conto, o non abbastanza, della natura umana: il potere, il denaro e la violenza. L’islam ha risvegliato nell’essere umano l’istinto del possesso.
H: Vale a dire: aggiungere ai tentativi di risposta la dimensione psicologica e parlare del pulsionale. Il testo fondatore e i primi testi dei commentatori hanno permesso al maschio di soddisfare pienamente le proprie pulsioni, in particolare quella di possesso e quella sessuale. L’idea del paradiso come luogo di soddisfazione assoluta dove la nozione di mancanza non esiste è indice di una fantasia o di un rifiuto della castrazione. La fondazione ha colto l’essenziale nella natura della pulsione e della fantasia. Si può parlare di una malattia dell’islam, come ha fatto Abdelwahab Meddeb?
A: In La malattia dell’islam, Meddeb parla anche di un islam bello e vero.
H: Ma all’interno dell’universo musulmano ci sono la mistica, la filosofia, la letteratura…
A: Questi movimenti intellettuali non appartengono all’islam in quanto stato o istituzione. I mistici e i filosofi hanno usato l’islam come un velo o come un mezzo per sfuggire ai processi e alle condanne. Dal testo coranico non emerge alcuna filosofia.
H: Certo, la filosofia viene dalla Grecia e la mistica ha attinto a diverse fonti: il platonismo, il neoplatonismo, il cristianesimo, la lingua… Ma coloro che hanno forgiato questo pensiero vivevano all’interno della società musulmana. (…)
Segue qui:
http://24ilmagazine.ilsole24ore.com/2016/07/adonis/
“L’ISIS CI IMPEDISCE DI VEDERE CHE LA QUESTIONE È PRINCIPALMENTE POLITICA”
da politis.fr, 21 luglio 2016 e lettera.alidipsicoanalisi.it (traduzione di Elena De Silvestri)
Roland Gori è psicoanalista e Professore emerito di Psicopatologia clinica all’Università di Aix-Marseille. Nel gennaio 2009 ha dato avvio all’Appel des appels – un coordinamento di movimenti e associazioni relativi all’ambito della cura, della ricerca, dell’educazione, del lavoro sociale, della cultura – il cui scopo è federare una pluralità di istanze che criticano l’ideologia neoliberale e le sue conseguenze, in particolare sui servizi pubblici. Gori è autore di numerosi saggi e libri tra cui segnaliamo: L’Appel des appels. Pour une insurrection des consciences(Paris, Mille et Une Nuits-Fayard, 2009) ; La Fabrique des imposteurs (Les Liens qui Libèrent, 2013) e, più recentemente L’Individu ingovernabile (Les Liens qui Libèrent, 2015).
Secondo lo psicoanalista Roland Gori, gli autori dei recenti attentati sono i mostri generati dal neoliberalismo. Egli considera Daesh un fenomeno alle cui spalle si nasconde una profonda crisi politica, senza via d’uscita immediata, ma che sarà necessario risolvere per sradicare il terrorismo.
Politis: Quale è la sua analisi di ciò che è accaduto a Nizza la scorsa settimana?
Roland Gori. Sarebbe prudente dire che ancora non si sa nulla. Che c’è bisogno di tempo per selezionare, attraverso delle indagini, i dati da raccogliere, il tempo per un’analisi multidimensionale, che mobiliti il pensiero. Abbiamo bisogno di tempo per pensare ciò sta accadendo e in quale modo siamo arrivati sin qui. Abbiamo bisogno di comprendere ciò che accomuna ciascuna di queste stragi e ciò che invece le differenzia le une dalle altre. Nel complesso reagiamo troppo alla svelta. Cosa che può essere giustificabile in materia di protezione, sicurezza, o assistenza, ma non lo è in termini d’informazione o di analisi. Ora, gli stessi dispositivi d’informazione e d’analisi sono stati raggiunti e corrotti dalle derive della “società dello spettacolo” e dei “fatti di cronaca”, che permettono la mercificazione delle emozioni e dei concetti. Questo non è accettabile, né moralmente né politicamente, perché distrugge le basi su cui si fondano le nostre società e contribuisce a generare le tragedie di oggi. È la risorsa economica dei nostri nemici, tanto dei loro alleati effettivi quanto delle loro comparse involontarie.
Qual è la responsabilità dei media?
G. I media hanno una grande responsabilità in questo caso: essi contribuiscono alla celebrazione mediatica, da Star Academy, dei passaggi all’atto criminale, passaggi talvolta immotivati –nel senso quasi-psichiatrico del termine commessi– da personalità più o meno patologiche, che non hanno alcun rapporto personale con le loro vittime. Ciò non significa che tutti questi omicidi rispondano ad una stessa logica, che siano tutti opera di psicopatici o di psicotici. Alcuni sono autenticamente politici, altri appartengono al fanatismo “religioso”, altri ancora a reti “mafiose” che hanno trovato nel terrorismo una nuova fonte di guadagno.
La maschera ideologica o religiosa può essere più o meno decisiva, un fattore determinante a seconda dei casi: il massacro di Charlie, quello dell’hypercasher, quello del Bataclan, di Nizza, o l’aggressione dei passeggeri di un treno in Baviera non hanno affatto le medesime motivazioni. Daesh “raccatta” tutto, e ciò favorisce la sua impresa di destabilizzazione dell’Occidente, colpendo il “ventre molle” dell’Europa, nella speranza di favorire gli attriti tra le diverse comunità. È l’appello alla guerra civile lanciato da Musad Al Suri nel 2005: un appello rivolto alla resistenza islamista mondiale, che mobilita tutte le popolazioni musulmane, al fine di colpire gli ebrei, gli occidentali, gli apostati, proprio là dove si trovano.
A partire da quel momento ogni crimine, ogni omicidio che si possa “marchiare” con un segno di appartenenza comunitaria, viene riciclato come “combustibile” made in Daesh. Fa parte della strategia del gruppo e della sua propaganda. Attribuendo un’unità e una consistenza a una miriade di azioni più o meno ispirate dal terrorismo djihadista, rischiamo di confermare esattamente la loro campagna terroristica.
Dichiarando immediatamente che l’assassino di Nizza era legato a Daesh, Francois Holland ha dunque commesso un errore?
G. Le dichiarazioni di Hollande (e del suo seguito) al momento dell’orrore di Nizza mi sono sembrate premature e pericolose. Hollande rischia di cascare in pieno nella trappola tesa da Daesh: in primo luogo sostenendo e confermando una propaganda per cui ogni strage sarebbe frutto di un’opera di reclutamento dell’organizzazione terroristica. La radicalizzazione di una personalità apparentemente così problematica come quella dell’assassino di Nizza, le sue dipendenze e le sue violenze, la sua bisessualità e il suo alcolismo, riducibili sbrigativamente al “radicalismo religioso” al servizio di un “terrorismo di prossimità”, mi lasciano perplesso.
In secondo luogo, annunciando che gli attacchi in territorio straniero sarebbero raddoppiati, Hollande fornisce un pretesto a tutti coloro che vogliano vendicarsi dell’arroganza occidentale e delle strategie di mantenimento dell’ordine dei vecchi colonizzatori. Così facendo conferma la propaganda dei salafiti, sostenitori della linea della djihad. Il fatto che un presidente, nel suo animo e nella sua coscienza politica, senta la necessità di ordinare delle operazioni militari, non ha nulla di scandaloso… dovrà rendere conto della sua decisione davanti al parlamento e al popolo. Ma che lo annunci così, con una dichiarazione ad effetto come risposta a delle stragi, non mi sembra un atto politico e tantomeno produttivo.
Cosa ha pensato della reazione degli (altri) politici?
G. È normale per noi, come vittime, parenti delle vittime, vox popoli, essere travolti dall’odio, dal desiderio di vendetta, dal dolore e dalla violenza di un’infinita tristezza che ha accresciuto la nostra sete di morte e di vendetta. Altra cosa è che i politici si lascino trascinare in ugual modo dall’emozione immediata.
Né i politici, né le dichiarazioni dell’opposizione –salvo rare eccezioni– si sono dimostrati all’altezza della situazione. I morti, le vittime e i loro familiari, meritavano di meglio. Ancora una volta è tra il popolo, tra coloro che sono stati là, anomini, discreti, umani, che essi hanno trovato il linguaggio, la presenza, l’amore di cui avevano bisogno. La celebrazione mediatica dei criminali (sono d’accordo con la proposta lanciata dal collega e amico Fethi Benslama su Le Monde di “anonimizzare” maggiormente gli autori delle stragi, o almeno di evitare di renderli “celebri”), così come ogni spettacolarizzazione, risulta inopportuna. Fanno l’interesse del nemico, se nemico vi è dietro ognuna di queste stragi.
Dunque, siamo prudenti: Daesh tenterà di fare propri tutti gli omicidi che potrebbero contribuire, più o meno indirettamente, al suo progetto, e alimentare la sua propaganda, chi l’ha organizzata, chi l’ha ispirata… e gli altri. Non facciamogli trovare la pappa pronta.
Mi viene in mente un’analogia che vorrei condividere con voi: nel decorso della schizofrenia, talvolta, si assiste alla comparsa di un particolare delirio, quello della “macchina influenzante”. Si tratta della convinzione delirante, nel paziente, che quello che accade al suo corpo (sensazioni, eruzioni, dolori, erezioni…) sia “fabbricato” da una macchina manovrata dai suoi persecutori per farlo soffrire. La comparsa di questo tipo di delirio è spesso amplificata dalle scoperte tecnologiche, alle volte contemporanee ad essa. In questo caso va accusata la macchina o la malattia mentale? L’ideologia è molto spesso un “macchinario” che permette a tanti di “funzionare”, e di colmare il vuoto dell’esistenza. Non basta eliminare le “macchine” per cancellare l’uso che ne facciamo. Ma vi sono alcune macchine più pericolose di altre, quelle di cui dobbiamo prioritariamente preoccuparci, per sapere quali bisogni esse facciano nascere e perché, proprio oggi, trovino il “personale” necessario a farle funzionare.
Cosa fare allora?
G. Trattare politicamente il problema, e non reagire immediatamente all’emozione. Lasciandosi trascinare dall’emozione, dalla vox populi, Hollande firma le dimissioni della politica: è un fatto molto grave. Fare politica non significa lasciarsi trasportare dall’onda di un’opinione pubblica terrorizzata, piuttosto illuminarla, aiutarla a pensare queste tragedie.
Per questo è necessario lasciare tempo ad un’indagine e tentare di comprendere ciò che sta accadendo. Anche se Daesh rivendica gli attentati – a Nizza, oppure in baviera, con questo ragazzo di 17 anni che ha aggredito i passeggeri di un treno con un ascia–, nulla ci porta ad escludere che si tratti di una rivendicazione opportunista. Daesh ha tutto l’interesse a “raccattare” ogni crimine in cui si possano ravvisare, anche in minima parte, delle tensioni tra comunità, poichè questa lotta djihadista, di genere del tutto nuovo, auspica una sorta di guerra civile interna all’Occidente, in particolar modo in Europa. È la sua principale risorsa economica.
Daesh sfrutta le armi dell’avversario: i media, i video, i siti dei giovani… E’ la sua forza, ma anche la sua debolezza, perché spinge i terroristi a rivendicare azioni compiute da personalità poco “ortodosse” e che agiscono in contraddizione con i valori da loro sostenuti.
L’arcipelago “terrorista” trae forza dal suo sparpagliamento, dalla sua mobilità, dal suo carattere proteiforme e opportunista, ma con il tempo questa potrebbe diventare la sua debolezza. Come tutti gli arcipelaghi rischia la dispersione, la frammentazione, l’erosione. Spieghiamolo alle popolazioni martirizzate da Daesh – a volte amministrate con rigore e abilità, ma sempre con opportunismo affarista ed estrema crudeltà – che a Mossoul si gettano gli omossessuali dal balcone-tetto, e che a Nizza li si trasforma invece in “soldati” del “califfato”! Che ascoltare musica è sacrilego a Raqqa, ma necessario ai soldati per la propaganda finalizzata al reclutamento dei giovani!
Tutte le ideologie finiscono per screditarsi nel momento in cui i loro più entusiasti funzionari non agiscono come predicano e non predicano come agiscono. Inutile richiamarsi alla ragione per “de-radicalizzare” (detesto questa parola, un falso-amico, decisamente!)… E’ necessario mostrare, e mostrare una volta ancora, queste contraddizioni. E non dimenticare, come scriveva Marx, che “essere radicali significa afferrare le cose alla radice”. Dunque: siamo radicali!
Lei ha parlato di “teofascismo” per designare Daesh, che cosa intendeva dire?
G. È la tesi che difendo con forza: io credo che i teofascismi siano mostri creati da noi. In questo momento il nostro modello di civiltà è in panne. La notizia buona è che la visione neoliberale dell’umano è agonizzante, moralmente in rovina, non più credibile. Quella cattiva è che questa sua agonia perdura. È esattamente la definizione che Gramsci dà della “crisi”: “è quando il vecchio mondo sta per morire, e il nuovo mondo tarda a nascere. In questo chiaroscuro nascono i mostri”. Ci troviamo proprio lì.
L’ideologia neoliberale di un universale uomo “imprenditoriale”, guidato dalla ragione tecnica e dall’interesse economico, orientato dal mercato e da un diritto occidentale globalizzato, non ha più presa fra le masse. Questo vecchio mondo le ha impoverite, le ha fatte soffrire ogni giorno di più. Il neoliberalismo si sostiene unicamente su strutture istituzionali di potere, su attività interconnesse in maniera sistemica, e politiche di governo allineate alla medesima causa. Ma i popoli non ne possono più.
Come alla fine del XIX secolo, come nel periodo tra le due guerre, oggi rinascono dei “movimenti” di massa, nazionalisti, populisti, razzisti… che cercano disperatamente un’alternativa al mondo “liberal-universale dei diritti dell’uomo-del progresso-della ragione” di questa “religione di mercato” ai cui riti vengono sottomessi i cittadini e i popoli. Ma non ne possono più.
Oggi siamo governati, lo diceva anche Camus, da macchine e fantasmi. È in questo chiaroscuro che nasce ogni forma d’angoscia. Angoscia del caos, dell’annientamento reciproco, di roghi universali. Così nasce anche ogni genere di miseria, economica, simbolica, di declassamento, d’invisibilità. In sintesi, tutte le passioni generate dall’odio e dalla paura. Hollande ha ragione sul fatto che vi è un rischio di smembramento. Non soltanto della società francese, ma di molte regioni del mondo, in particolare d’Europa. È da queste faglie sismiche che emerge Daesh, così come così come i populismi, i razzismi, FN e così via…
Segue qui:
Nizza, l’Isis e il neoliberalismo
Roland Gori è psicoanalista e Professore emerito di Psicopatologia clinica all’Università di Aix-Marseille. Nel gennaio 2009 ha dato avvio all’Appel des appels – un coordinamento di movimenti e associazioni relativi all’ambito della cura, della ricerca, dell’educazione, del lavoro sociale, della cultura – il cui scopo è federare una pluralità di istanze che criticano l’ideologia neoliberale e le sue conseguenze, in particolare sui servizi pubblici. Gori è autore di numerosi saggi e libri tra cui segnaliamo: L’Appel des appels. Pour une insurrection des consciences(Paris, Mille et Une Nuits-Fayard, 2009) ; La Fabrique des imposteurs (Les Liens qui Libèrent, 2013) e, più recentemente L’Individu ingovernabile (Les Liens qui Libèrent, 2015).
Secondo lo psicoanalista Roland Gori, gli autori dei recenti attentati sono i mostri generati dal neoliberalismo. Egli considera Daesh un fenomeno alle cui spalle si nasconde una profonda crisi politica, senza via d’uscita immediata, ma che sarà necessario risolvere per sradicare il terrorismo.
Politis: Quale è la sua analisi di ciò che è accaduto a Nizza la scorsa settimana?
Roland Gori. Sarebbe prudente dire che ancora non si sa nulla. Che c’è bisogno di tempo per selezionare, attraverso delle indagini, i dati da raccogliere, il tempo per un’analisi multidimensionale, che mobiliti il pensiero. Abbiamo bisogno di tempo per pensare ciò sta accadendo e in quale modo siamo arrivati sin qui. Abbiamo bisogno di comprendere ciò che accomuna ciascuna di queste stragi e ciò che invece le differenzia le une dalle altre. Nel complesso reagiamo troppo alla svelta. Cosa che può essere giustificabile in materia di protezione, sicurezza, o assistenza, ma non lo è in termini d’informazione o di analisi. Ora, gli stessi dispositivi d’informazione e d’analisi sono stati raggiunti e corrotti dalle derive della “società dello spettacolo” e dei “fatti di cronaca”, che permettono la mercificazione delle emozioni e dei concetti. Questo non è accettabile, né moralmente né politicamente, perché distrugge le basi su cui si fondano le nostre società e contribuisce a generare le tragedie di oggi. È la risorsa economica dei nostri nemici, tanto dei loro alleati effettivi quanto delle loro comparse involontarie.
Qual è la responsabilità dei media?
G. I media hanno una grande responsabilità in questo caso: essi contribuiscono alla celebrazione mediatica, da Star Academy, dei passaggi all’atto criminale, passaggi talvolta immotivati –nel senso quasi-psichiatrico del termine commessi– da personalità più o meno patologiche, che non hanno alcun rapporto personale con le loro vittime. Ciò non significa che tutti questi omicidi rispondano ad una stessa logica, che siano tutti opera di psicopatici o di psicotici. Alcuni sono autenticamente politici, altri appartengono al fanatismo “religioso”, altri ancora a reti “mafiose” che hanno trovato nel terrorismo una nuova fonte di guadagno.
La maschera ideologica o religiosa può essere più o meno decisiva, un fattore determinante a seconda dei casi: il massacro di Charlie, quello dell’hypercasher, quello del Bataclan, di Nizza, o l’aggressione dei passeggeri di un treno in Baviera non hanno affatto le medesime motivazioni. Daesh “raccatta” tutto, e ciò favorisce la sua impresa di destabilizzazione dell’Occidente, colpendo il “ventre molle” dell’Europa, nella speranza di favorire gli attriti tra le diverse comunità. È l’appello alla guerra civile lanciato da Musad Al Suri nel 2005: un appello rivolto alla resistenza islamista mondiale, che mobilita tutte le popolazioni musulmane, al fine di colpire gli ebrei, gli occidentali, gli apostati, proprio là dove si trovano.
A partire da quel momento ogni crimine, ogni omicidio che si possa “marchiare” con un segno di appartenenza comunitaria, viene riciclato come “combustibile” made in Daesh. Fa parte della strategia del gruppo e della sua propaganda. Attribuendo un’unità e una consistenza a una miriade di azioni più o meno ispirate dal terrorismo djihadista, rischiamo di confermare esattamente la loro campagna terroristica.
Dichiarando immediatamente che l’assassino di Nizza era legato a Daesh, Francois Holland ha dunque commesso un errore?
G. Le dichiarazioni di Hollande (e del suo seguito) al momento dell’orrore di Nizza mi sono sembrate premature e pericolose. Hollande rischia di cascare in pieno nella trappola tesa da Daesh: in primo luogo sostenendo e confermando una propaganda per cui ogni strage sarebbe frutto di un’opera di reclutamento dell’organizzazione terroristica. La radicalizzazione di una personalità apparentemente così problematica come quella dell’assassino di Nizza, le sue dipendenze e le sue violenze, la sua bisessualità e il suo alcolismo, riducibili sbrigativamente al “radicalismo religioso” al servizio di un “terrorismo di prossimità”, mi lasciano perplesso.
In secondo luogo, annunciando che gli attacchi in territorio straniero sarebbero raddoppiati, Hollande fornisce un pretesto a tutti coloro che vogliano vendicarsi dell’arroganza occidentale e delle strategie di mantenimento dell’ordine dei vecchi colonizzatori. Così facendo conferma la propaganda dei salafiti, sostenitori della linea della djihad. Il fatto che un presidente, nel suo animo e nella sua coscienza politica, senta la necessità di ordinare delle operazioni militari, non ha nulla di scandaloso… dovrà rendere conto della sua decisione davanti al parlamento e al popolo. Ma che lo annunci così, con una dichiarazione ad effetto come risposta a delle stragi, non mi sembra un atto politico e tantomeno produttivo.
Cosa ha pensato della reazione degli (altri) politici?
G. È normale per noi, come vittime, parenti delle vittime, vox popoli, essere travolti dall’odio, dal desiderio di vendetta, dal dolore e dalla violenza di un’infinita tristezza che ha accresciuto la nostra sete di morte e di vendetta. Altra cosa è che i politici si lascino trascinare in ugual modo dall’emozione immediata.
Né i politici, né le dichiarazioni dell’opposizione –salvo rare eccezioni– si sono dimostrati all’altezza della situazione. I morti, le vittime e i loro familiari, meritavano di meglio. Ancora una volta è tra il popolo, tra coloro che sono stati là, anomini, discreti, umani, che essi hanno trovato il linguaggio, la presenza, l’amore di cui avevano bisogno. La celebrazione mediatica dei criminali (sono d’accordo con la proposta lanciata dal collega e amico Fethi Benslama su Le Monde di “anonimizzare” maggiormente gli autori delle stragi, o almeno di evitare di renderli “celebri”), così come ogni spettacolarizzazione, risulta inopportuna. Fanno l’interesse del nemico, se nemico vi è dietro ognuna di queste stragi.
Dunque, siamo prudenti: Daesh tenterà di fare propri tutti gli omicidi che potrebbero contribuire, più o meno indirettamente, al suo progetto, e alimentare la sua propaganda, chi l’ha organizzata, chi l’ha ispirata… e gli altri. Non facciamogli trovare la pappa pronta.
Mi viene in mente un’analogia che vorrei condividere con voi: nel decorso della schizofrenia, talvolta, si assiste alla comparsa di un particolare delirio, quello della “macchina influenzante”. Si tratta della convinzione delirante, nel paziente, che quello che accade al suo corpo (sensazioni, eruzioni, dolori, erezioni…) sia “fabbricato” da una macchina manovrata dai suoi persecutori per farlo soffrire. La comparsa di questo tipo di delirio è spesso amplificata dalle scoperte tecnologiche, alle volte contemporanee ad essa. In questo caso va accusata la macchina o la malattia mentale? L’ideologia è molto spesso un “macchinario” che permette a tanti di “funzionare”, e di colmare il vuoto dell’esistenza. Non basta eliminare le “macchine” per cancellare l’uso che ne facciamo. Ma vi sono alcune macchine più pericolose di altre, quelle di cui dobbiamo prioritariamente preoccuparci, per sapere quali bisogni esse facciano nascere e perché, proprio oggi, trovino il “personale” necessario a farle funzionare.
Cosa fare allora?
G. Trattare politicamente il problema, e non reagire immediatamente all’emozione. Lasciandosi trascinare dall’emozione, dalla vox populi, Hollande firma le dimissioni della politica: è un fatto molto grave. Fare politica non significa lasciarsi trasportare dall’onda di un’opinione pubblica terrorizzata, piuttosto illuminarla, aiutarla a pensare queste tragedie.
Per questo è necessario lasciare tempo ad un’indagine e tentare di comprendere ciò che sta accadendo. Anche se Daesh rivendica gli attentati – a Nizza, oppure in baviera, con questo ragazzo di 17 anni che ha aggredito i passeggeri di un treno con un ascia–, nulla ci porta ad escludere che si tratti di una rivendicazione opportunista. Daesh ha tutto l’interesse a “raccattare” ogni crimine in cui si possano ravvisare, anche in minima parte, delle tensioni tra comunità, poichè questa lotta djihadista, di genere del tutto nuovo, auspica una sorta di guerra civile interna all’Occidente, in particolar modo in Europa. È la sua principale risorsa economica.
Daesh sfrutta le armi dell’avversario: i media, i video, i siti dei giovani… E’ la sua forza, ma anche la sua debolezza, perché spinge i terroristi a rivendicare azioni compiute da personalità poco “ortodosse” e che agiscono in contraddizione con i valori da loro sostenuti.
L’arcipelago “terrorista” trae forza dal suo sparpagliamento, dalla sua mobilità, dal suo carattere proteiforme e opportunista, ma con il tempo questa potrebbe diventare la sua debolezza. Come tutti gli arcipelaghi rischia la dispersione, la frammentazione, l’erosione. Spieghiamolo alle popolazioni martirizzate da Daesh – a volte amministrate con rigore e abilità, ma sempre con opportunismo affarista ed estrema crudeltà – che a Mossoul si gettano gli omossessuali dal balcone-tetto, e che a Nizza li si trasforma invece in “soldati” del “califfato”! Che ascoltare musica è sacrilego a Raqqa, ma necessario ai soldati per la propaganda finalizzata al reclutamento dei giovani!
Tutte le ideologie finiscono per screditarsi nel momento in cui i loro più entusiasti funzionari non agiscono come predicano e non predicano come agiscono. Inutile richiamarsi alla ragione per “de-radicalizzare” (detesto questa parola, un falso-amico, decisamente!)… E’ necessario mostrare, e mostrare una volta ancora, queste contraddizioni. E non dimenticare, come scriveva Marx, che “essere radicali significa afferrare le cose alla radice”. Dunque: siamo radicali!
Lei ha parlato di “teofascismo” per designare Daesh, che cosa intendeva dire?
G. È la tesi che difendo con forza: io credo che i teofascismi siano mostri creati da noi. In questo momento il nostro modello di civiltà è in panne. La notizia buona è che la visione neoliberale dell’umano è agonizzante, moralmente in rovina, non più credibile. Quella cattiva è che questa sua agonia perdura. È esattamente la definizione che Gramsci dà della “crisi”: “è quando il vecchio mondo sta per morire, e il nuovo mondo tarda a nascere. In questo chiaroscuro nascono i mostri”. Ci troviamo proprio lì.
L’ideologia neoliberale di un universale uomo “imprenditoriale”, guidato dalla ragione tecnica e dall’interesse economico, orientato dal mercato e da un diritto occidentale globalizzato, non ha più presa fra le masse. Questo vecchio mondo le ha impoverite, le ha fatte soffrire ogni giorno di più. Il neoliberalismo si sostiene unicamente su strutture istituzionali di potere, su attività interconnesse in maniera sistemica, e politiche di governo allineate alla medesima causa. Ma i popoli non ne possono più.
Come alla fine del XIX secolo, come nel periodo tra le due guerre, oggi rinascono dei “movimenti” di massa, nazionalisti, populisti, razzisti… che cercano disperatamente un’alternativa al mondo “liberal-universale dei diritti dell’uomo-del progresso-della ragione” di questa “religione di mercato” ai cui riti vengono sottomessi i cittadini e i popoli. Ma non ne possono più.
Oggi siamo governati, lo diceva anche Camus, da macchine e fantasmi. È in questo chiaroscuro che nasce ogni forma d’angoscia. Angoscia del caos, dell’annientamento reciproco, di roghi universali. Così nasce anche ogni genere di miseria, economica, simbolica, di declassamento, d’invisibilità. In sintesi, tutte le passioni generate dall’odio e dalla paura. Hollande ha ragione sul fatto che vi è un rischio di smembramento. Non soltanto della società francese, ma di molte regioni del mondo, in particolare d’Europa. È da queste faglie sismiche che emerge Daesh, così come così come i populismi, i razzismi, FN e così via…
Segue qui:
Nizza, l’Isis e il neoliberalismo
Testo originale:
http://www.politis.fr/articles/2016/07/daesh-nous-empeche-de-voir-que-la-question-majeure-est-politique-35183/
RIEMPIRE L’INFERNO. Dal Bataclan a Nizza, siamo davanti a uno stragismo ludico che lascia un segno imperituro
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 20 luglio 2016
La noia”, scrive Baudelaire, “l’occhio gravato da una lacrima involontaria, sogna i patiboli fumando la sua pipa”, e di pipe drogate l’annoiato Mohamed ne deve avere fumate tante. Ma sognare non gli bastava a cacciare la noia, nemmeno una scatenata bisessualità lo saziava, non lo avevano commosso i figli, le orge, l’alcool, così si guardò attorno e scoprì i jihadisti, gente che gli proponeva brividi ben più interessanti di una scopata a otto. Lo jihadista al quale interessa solo uccidere e morire, uccidere morendo, morire uccidendo, stuzzicò Mohamed e gli diede l’ispirazione per tagliare la corda dal mondo della noia. Mohamed colse al volo l’occasione e se il suo gesto fu un buon servizio all’Isis a sua volta l’Isis lo premiò, concedendogli l’occasione di una morte comme il faut, qualcosa di glorioso e risonante, la tragica caricatura d’una parata militare, di un’entrata trionfale, di un angelo sterminatore. Si può pensare che falciando i bimbi e le loro madri il mostro ridesse, un riso sempre amaro però, non la si fa franca con l’inconscio – che altri chiamano Dio. Mohamed era infelice anche facendo quella che aveva tentato di convincersi fosse la migliore delle azioni, che avrebbe cacciato la sua noia portandolo nel cielo delle uri, per poter felicemente dire “dammi le ciabatte stronza”. Niente da fare, noia su noia, ovunque tu sia, Mohamed, devi ammetterlo.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/07/20/nizza-strage-riempire-inferno___1-vr-144622-rubriche_c465.htm
IL SALOTTO TALEBANO DEI BENINTENZIONATI. Recalcati discolpa l’islam e trasforma la strage di Nizza in paranoia
La noia”, scrive Baudelaire, “l’occhio gravato da una lacrima involontaria, sogna i patiboli fumando la sua pipa”, e di pipe drogate l’annoiato Mohamed ne deve avere fumate tante. Ma sognare non gli bastava a cacciare la noia, nemmeno una scatenata bisessualità lo saziava, non lo avevano commosso i figli, le orge, l’alcool, così si guardò attorno e scoprì i jihadisti, gente che gli proponeva brividi ben più interessanti di una scopata a otto. Lo jihadista al quale interessa solo uccidere e morire, uccidere morendo, morire uccidendo, stuzzicò Mohamed e gli diede l’ispirazione per tagliare la corda dal mondo della noia. Mohamed colse al volo l’occasione e se il suo gesto fu un buon servizio all’Isis a sua volta l’Isis lo premiò, concedendogli l’occasione di una morte comme il faut, qualcosa di glorioso e risonante, la tragica caricatura d’una parata militare, di un’entrata trionfale, di un angelo sterminatore. Si può pensare che falciando i bimbi e le loro madri il mostro ridesse, un riso sempre amaro però, non la si fa franca con l’inconscio – che altri chiamano Dio. Mohamed era infelice anche facendo quella che aveva tentato di convincersi fosse la migliore delle azioni, che avrebbe cacciato la sua noia portandolo nel cielo delle uri, per poter felicemente dire “dammi le ciabatte stronza”. Niente da fare, noia su noia, ovunque tu sia, Mohamed, devi ammetterlo.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/07/20/nizza-strage-riempire-inferno___1-vr-144622-rubriche_c465.htm
IL SALOTTO TALEBANO DEI BENINTENZIONATI. Recalcati discolpa l’islam e trasforma la strage di Nizza in paranoia
di Redazione, ilfoglio.it, 22 luglio 2016
La strage di Nizza come una allucinazione dell’io malato, come una “paranoia”, come una “psicosi” che non ha nulla a che fare con l’islam, come il risvolto dell’“esistenza cinica e narcisistica che domina l’occidente”, il kamikaze come “travestimento ideologico di tipo illusionistico”, non il martire in nome di Allah, quanto “i fantasmi più oscuri della mente”. Mohammed Bouhlel come Hannibal Lecter. Forse Massimo Recalcati ha riversato su pagina tutta la propria impotenza intellettuale nell’analisi dell’attentato in Francia. Forse voleva soltanto esercitarsi con un po’ di bella scrittura. Perché quanto lo psicoanalista-letterato ha scritto su Repubblica venerdì testimonia lo stato pietoso della nostra cultura, questo salotto talebano dei benintenzionati, il fronte interno dello stile di vita che difendono a chiacchiere e che ama l’aspettativa di vita molto più della vita stessa, esorcizzando ogni tipo di pericolo come in un immenso centro di cure preventive e che pretende di rimanere ingenuamente inconcusso.
L’articolo di Recalcati è un esempio di perfetto depistaggio che distingue i nostri intellettuali, cosiddetti. Come quando, nello stesso giornale, dopo la strage di Tolosa, avevano già trovato i colpevoli perfetti ed erano i giovani neonazisti, i parà tatuati infarciti di letture hitleriane, la strage alla scuola ebraica come una trama dell’intolleranza. Tanta la delusione quando si scoprì che il terrorista era un musulmano di nome Mohammed Merah e dopo smisero di occuparsi della strage di bimbi ebrei. Per questi scrittori e redazioni di giornale, sempre pronti a parlare di “abisso” e “barbarie”, sarebbe sempre molto più facile se fossimo noi i colpevoli, i bianchi cattivi. E’ molto più difficile capire che la strage islamista ci riguarda. Sono i critici della democrazia che dopo l’11 settembre hanno detto: “Non dobbiamo imporre i nostri valori credendoli universali”. E che così facendo, credendosi invulnerabili, hanno lasciato che gli islamisti ci imponessero l’insicurezza.
Se Recalcati ha tempo gli consigliamo una intervista sul Figaro ad Alain Finkielkraut, “immortale” di Francia, intellettuale un po’ più corposo. “Per l’islam radicale, è giunto il momento, dopo secoli di espansione europea, della vendetta”, dice il filosofo francese. “Ciò che sperimentiamo è lo scontro di culture”. E ancora: “Sull’altare della lotta alla discriminazione hanno allegramente sacrificato l’identità francese”. Scontro? Identità? Culture? Di questo dovrebbero parlare gli scrittori. Quando gli hanno chiesto quali intellettuali stimasse, Finkielkraut ha risposto: “Elisabeth de Fontenay, Claude Habib, Philippe Raynaud, Jean-Pierre Le Goff, Jacques Julliard, Paul Thibaud, Pierre Manent e Michel Houellebecq”. Inutile cercare: Massimo Recalcati non è fra quelli.
http://www.ilfoglio.it/cultura/2016/07/22/nizza-jihad-salotto-talebano-dei-benintenzionati___1-v-144764-rubriche_c318.htm
L’articolo di Massimo Recalcati citato è qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6353
La strage di Nizza come una allucinazione dell’io malato, come una “paranoia”, come una “psicosi” che non ha nulla a che fare con l’islam, come il risvolto dell’“esistenza cinica e narcisistica che domina l’occidente”, il kamikaze come “travestimento ideologico di tipo illusionistico”, non il martire in nome di Allah, quanto “i fantasmi più oscuri della mente”. Mohammed Bouhlel come Hannibal Lecter. Forse Massimo Recalcati ha riversato su pagina tutta la propria impotenza intellettuale nell’analisi dell’attentato in Francia. Forse voleva soltanto esercitarsi con un po’ di bella scrittura. Perché quanto lo psicoanalista-letterato ha scritto su Repubblica venerdì testimonia lo stato pietoso della nostra cultura, questo salotto talebano dei benintenzionati, il fronte interno dello stile di vita che difendono a chiacchiere e che ama l’aspettativa di vita molto più della vita stessa, esorcizzando ogni tipo di pericolo come in un immenso centro di cure preventive e che pretende di rimanere ingenuamente inconcusso.
L’articolo di Recalcati è un esempio di perfetto depistaggio che distingue i nostri intellettuali, cosiddetti. Come quando, nello stesso giornale, dopo la strage di Tolosa, avevano già trovato i colpevoli perfetti ed erano i giovani neonazisti, i parà tatuati infarciti di letture hitleriane, la strage alla scuola ebraica come una trama dell’intolleranza. Tanta la delusione quando si scoprì che il terrorista era un musulmano di nome Mohammed Merah e dopo smisero di occuparsi della strage di bimbi ebrei. Per questi scrittori e redazioni di giornale, sempre pronti a parlare di “abisso” e “barbarie”, sarebbe sempre molto più facile se fossimo noi i colpevoli, i bianchi cattivi. E’ molto più difficile capire che la strage islamista ci riguarda. Sono i critici della democrazia che dopo l’11 settembre hanno detto: “Non dobbiamo imporre i nostri valori credendoli universali”. E che così facendo, credendosi invulnerabili, hanno lasciato che gli islamisti ci imponessero l’insicurezza.
Se Recalcati ha tempo gli consigliamo una intervista sul Figaro ad Alain Finkielkraut, “immortale” di Francia, intellettuale un po’ più corposo. “Per l’islam radicale, è giunto il momento, dopo secoli di espansione europea, della vendetta”, dice il filosofo francese. “Ciò che sperimentiamo è lo scontro di culture”. E ancora: “Sull’altare della lotta alla discriminazione hanno allegramente sacrificato l’identità francese”. Scontro? Identità? Culture? Di questo dovrebbero parlare gli scrittori. Quando gli hanno chiesto quali intellettuali stimasse, Finkielkraut ha risposto: “Elisabeth de Fontenay, Claude Habib, Philippe Raynaud, Jean-Pierre Le Goff, Jacques Julliard, Paul Thibaud, Pierre Manent e Michel Houellebecq”. Inutile cercare: Massimo Recalcati non è fra quelli.
http://www.ilfoglio.it/cultura/2016/07/22/nizza-jihad-salotto-talebano-dei-benintenzionati___1-v-144764-rubriche_c318.htm
L’articolo di Massimo Recalcati citato è qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6353
PAURA E INDIFFERENZA. LA CONCATENAZIONE PSICOTICA
di Pietro Barbetta, doppiozero.com, 25 luglio 2016
Quando un giorno sì e uno no accadono eventi di terrore per le strade, si crea indifferenza e paura. Si crea paura quando qualcosa ci minaccia, direttamente o indirettamente. La minaccia indiretta, quella della mafia, per esempio, pone chi è sotto minaccia in una condizione d’ansia incontenibile. Nei casi di questi giorni, non c’è minaccia, diretta o indiretta. Si sta creando però un’aspettativa che qualsiasi luogo possa essere pericoloso. Si può vivere così? Ci sono paesi dove da tempo questo è diventato “normale”. Invero, alla paura c’è rimedio, Marta Baggiani ce lo insegna. All’indifferenza no, l’indifferenza è paura celata dietro l’espressione assente, lo sguardo nel vuoto, la vita quotidiana che non si stacca dall’eccezione, dallo scandalo. L’indifferenza non è solo paura. Benché l’indifferenza si ammanti di paura, essa è composta anche da pigrizia e codardia. La codardia va oltre la paura, è sentimento che induce repressione: quando ci si abitua a non far emergere il conflitto, quando non si reagisce più, quando non ci si stupisce più di nulla. La codardia, a sua volta, si accompagna alla pigrizia: sono modi di reagire alla paura.
Il sistema psicotico fa paura perché, con quel sistema, non si può entrare in conflitto, l’altro non mostra il suo volto, il colpo ti arriva di sorpresa, quando meno te l’aspetti, senza ragione. Il sistema psicotico, visto dallo psicopatico che lo costruisce, si adegua a un’orribile battuta maschile, attribuita a un proverbio cinese: “quando rientri a casa picchia tua moglie, tu non lo sai perché, ma lei sì”. Qui, ogni gesto è assassinio della madre, del padre, dei fratelli. Ali David Sonboly spara sulla folla. Qualcuno gli grida qualcosa dal tetto, mentre lui uccide: “fatti vedere da uno psichiatra!”, lui risponde qualcosa: “sono bavarese, godo dei sussidi e sono in cura!”. Se è così, chiunque lo abbia diagnosticato depresso ha preso un grosso abbaglio. Ma, forse, la parola “depresso” esce dai media, è un modo per rassicurare tutti: se Sonboly è depresso, non c’è d’aver paura. Per favore riservate la paura ai gruppi terroristici organizzati, altrimenti qui non si capisce più nulla! Sonboly, si suicida. Questo diciottenne sembra non avere avuto rapporti con organizzazioni fondamentaliste religiose, neppure con gruppi nazionalisti, sembra, sembra, sembra.
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/materiali/paura-e-indifferenza-la-concatenazione-psicotica
Quando un giorno sì e uno no accadono eventi di terrore per le strade, si crea indifferenza e paura. Si crea paura quando qualcosa ci minaccia, direttamente o indirettamente. La minaccia indiretta, quella della mafia, per esempio, pone chi è sotto minaccia in una condizione d’ansia incontenibile. Nei casi di questi giorni, non c’è minaccia, diretta o indiretta. Si sta creando però un’aspettativa che qualsiasi luogo possa essere pericoloso. Si può vivere così? Ci sono paesi dove da tempo questo è diventato “normale”. Invero, alla paura c’è rimedio, Marta Baggiani ce lo insegna. All’indifferenza no, l’indifferenza è paura celata dietro l’espressione assente, lo sguardo nel vuoto, la vita quotidiana che non si stacca dall’eccezione, dallo scandalo. L’indifferenza non è solo paura. Benché l’indifferenza si ammanti di paura, essa è composta anche da pigrizia e codardia. La codardia va oltre la paura, è sentimento che induce repressione: quando ci si abitua a non far emergere il conflitto, quando non si reagisce più, quando non ci si stupisce più di nulla. La codardia, a sua volta, si accompagna alla pigrizia: sono modi di reagire alla paura.
Il sistema psicotico fa paura perché, con quel sistema, non si può entrare in conflitto, l’altro non mostra il suo volto, il colpo ti arriva di sorpresa, quando meno te l’aspetti, senza ragione. Il sistema psicotico, visto dallo psicopatico che lo costruisce, si adegua a un’orribile battuta maschile, attribuita a un proverbio cinese: “quando rientri a casa picchia tua moglie, tu non lo sai perché, ma lei sì”. Qui, ogni gesto è assassinio della madre, del padre, dei fratelli. Ali David Sonboly spara sulla folla. Qualcuno gli grida qualcosa dal tetto, mentre lui uccide: “fatti vedere da uno psichiatra!”, lui risponde qualcosa: “sono bavarese, godo dei sussidi e sono in cura!”. Se è così, chiunque lo abbia diagnosticato depresso ha preso un grosso abbaglio. Ma, forse, la parola “depresso” esce dai media, è un modo per rassicurare tutti: se Sonboly è depresso, non c’è d’aver paura. Per favore riservate la paura ai gruppi terroristici organizzati, altrimenti qui non si capisce più nulla! Sonboly, si suicida. Questo diciottenne sembra non avere avuto rapporti con organizzazioni fondamentaliste religiose, neppure con gruppi nazionalisti, sembra, sembra, sembra.
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/materiali/paura-e-indifferenza-la-concatenazione-psicotica
IL MORBO DEI KILLER PSICOTICI DALL’AMERICA SBARCA IN EUROPA
di Oscar Nicodemo, huffingtonpost.it, 25 luglio 2016
“Il contagio dei killer psicotici sbarca su questa sponda dell’Atlantico dopo essere stato per decenni un morbo tipicamente americano. Con la globalizzazione del terrore i virus si spostano rapidamente, prendono strade impensate fino a ieri, contaminano un’Europa abituata a crimini ideologici, non a macellerie individuali. Viene in mente quella che Ernesto De Martino chiamava “crisi della presenza”, in cui il linguaggio sociale si ammala, perde contatto con le sue radici, e l’uomo vive se stesso come oggetto tra oggetti non più riscaldato dai riti e miti che ne avevano fondato la presenza nel mondo. È una lettura meno individuale di quella che la psicoanalisi ci offre della psicosi. E vede l’individuo più fragile fluttuare in un anonimato senza storia senza passato né futuro. Che aveva caratterizzato fino a tempo fa l’anomia dei grandi aggregati suburbani americani.” È un post di Paolo Repetti, dirigente dell’Einaudi, che colpisce per l’immediatezza analitica.
Segue qui:
“Il contagio dei killer psicotici sbarca su questa sponda dell’Atlantico dopo essere stato per decenni un morbo tipicamente americano. Con la globalizzazione del terrore i virus si spostano rapidamente, prendono strade impensate fino a ieri, contaminano un’Europa abituata a crimini ideologici, non a macellerie individuali. Viene in mente quella che Ernesto De Martino chiamava “crisi della presenza”, in cui il linguaggio sociale si ammala, perde contatto con le sue radici, e l’uomo vive se stesso come oggetto tra oggetti non più riscaldato dai riti e miti che ne avevano fondato la presenza nel mondo. È una lettura meno individuale di quella che la psicoanalisi ci offre della psicosi. E vede l’individuo più fragile fluttuare in un anonimato senza storia senza passato né futuro. Che aveva caratterizzato fino a tempo fa l’anomia dei grandi aggregati suburbani americani.” È un post di Paolo Repetti, dirigente dell’Einaudi, che colpisce per l’immediatezza analitica.
Segue qui:
LA VIOLENZA CHE RESPIRIAMO. Il rischio più grave è quello di pervenire ad una visione normalizzata della violenza
di Giuseppe Maiolo, ladigetto.it, 26 luglio 2016
Tutta la violenza che respiriamo ogni giorno, da quella comune a quella del terrorismo, sta mettendo a dura prova la nostra psiche. È un continuo stato di allarme che ci assale e una ininterrotta dimensione di angoscia che le immagini di morte e di devastazione stanno producendo in noi. In particolare gli atti terroristici di questi ultimi tempi portano a galla le nostre assolute fragilità e un profondo senso di impotenza. Non vi è dubbio che questo denso terrore sia voluto proprio da quel terrorismo che si fonda sull’estremismo paranoico del fondamentalismo religioso, ma la consapevolezza di questo stato di cose, caso mai, aumenta la nostra prostrazione e fa emergere limitatezza delle nostre risorse.
Segue qui:
http://www.ladigetto.it/permalink/56347.html
Tutta la violenza che respiriamo ogni giorno, da quella comune a quella del terrorismo, sta mettendo a dura prova la nostra psiche. È un continuo stato di allarme che ci assale e una ininterrotta dimensione di angoscia che le immagini di morte e di devastazione stanno producendo in noi. In particolare gli atti terroristici di questi ultimi tempi portano a galla le nostre assolute fragilità e un profondo senso di impotenza. Non vi è dubbio che questo denso terrore sia voluto proprio da quel terrorismo che si fonda sull’estremismo paranoico del fondamentalismo religioso, ma la consapevolezza di questo stato di cose, caso mai, aumenta la nostra prostrazione e fa emergere limitatezza delle nostre risorse.
Segue qui:
http://www.ladigetto.it/permalink/56347.html
SADICI E VIOLENTI IN CERCA DI UN DIO. Due note sulla recente ondata di stragi ed attentati
di Maurizio Montanari, lettera43.it, 28 luglio 2016
L’indicibile mattanza perpetrata ai danni degli ignari passanti che transitavano sulla promenade des Anglais, il barbaro sgozzamento del sacerdote francese, la ferocia con la quale un ragazzo cerca di tagliare le gole su un treno, e altri episodi ancora, ripropongono l’antica questione dell’uso della ‘religione’ (o per meglio dire l’espunzione di quei paragrafi particolarmente violenti incisi in tanti libri sacri) come strumento per dare forma e sfogo a pulsioni umane violente ed ancestrali, sepolte negli anfratti della storia dell’individuo, che cercano in codici sociali riconosciuti uno sbocco per uscire dalle profondità e dare un senso, ancorché tragico, a vite banali e spesso disturbate, dedicate in gran parte alla ruminazione dell’odio. Il disturbo di personalità, tuttavia, è solo una piccola, infinitesima parte di quell’esercito multiforme e disomogeneo che oggi noi vediamo avanzare sotto il nome di ‘minaccia terrorista’, contro il quale schiere di neo conservatori affilano le loro armi davanti alle tastiere. Nella maggiora parte dei casi la ‘professione di fede’ è uno sgangherato, ma micidiale, carrozzone, noleggiato all’ultimo minuto, nel quale trovano un passaggio feroci e lucide personalità perverse, capaci di tramutarsi in micidiali macchine di morte qualora scorgano in qualche Dio, o qualche cattivo maestro eletto a guida spirituale quegli stessi inconfessabili desideri di distruzione che non erano sino a quel momento riusciti a sdoganare in nessun luogo.
Parliamo di un tempo nel quale la presenza del ‘fondamentalismo’, enorme contenitore ormai privo di contorni definiti tanto da poterci ficcare dentro ogni nequizia che l’animo umano possa produrre, non è solo funzionale all’autoassoluzione di tanti carnefici che cercano in un altrove un senso a vite disgraziate, ma al contempo serve alla società ‘civile’ per poter inquadrare dentro una cornice ben precisa espressioni dell’animo umano che inquietano per la loro ferocia e la loro inclassificabilità. ‘Ah!, si era radicalizzato nelle ultime due settimane, ecco!’…, frasario consolatorio, speso ovunque ed inflazionato proprio come l’adagio ‘ ha ucciso moglie e figli? Ma da tempo era in cura per qualcosa, da qualche parte…’ .
Lasciamo per un attimo da parte Dio, Allah e l’Isis, e proviamo a leggere la questione usando la clinica, per quanto limitatamente possibile, come asse portante dell’agire umano. Una lettura preliminare delle vite di Omar Mateen, l’autore della strage di Orlando nella quale vengono falciati 49 uomini scelti per il loro orientamento omosessuale, e di Mohamed Lahouaiej Bouhlel alla guida del camion a Nizza, ci consegna due uomini banali: un livido manesco con la passione per la palestra e il suo viso autofotografato il primo, (la cui descrizione forse più veritiera è stata fatta dalla moglie, malmenata abitualmente, quando lo descrive come ‘bipolare’, capace di picchiarla anche solo ‘per il bucato fuori posto’), un uomo alle prese con problemi personali alle spalle, una vita destinata a fare capolino nel nulla, dopo una separazione e con precedenti penali il secondo. Per Mateen, che poco prima di imbracciare le armi chiama il 911 e dichiara fedeltà allo Stato islamico, era la femminilità, ma anche l’uomo che bacia un altro uomo, quell’indicibile che ha fatto detonare in lui qualcosa che giaceva sepolto da tempo. Qualcosa di inassimilabile, incollocabile. Per il carnefice nizzardo era forse la vita in sé, sfuggitagli di mano da tempo, quell’elemento da odiare. In entrambi i casi si tratta di crimini che possono essere letti sia come estrema deriva di animi paranoici capaci di colpire nemici resi minacciosi dal tempo e dalla ruminazione malmostosa, o come l’azione di un cuori sadici, per definizione pietrificati, finalmente felici di far vibrare d’angoscia e terrore quei mondi per loro fonte di enigma da chissà quanto tempo, la comunità omosessuale nell’un caso e la vita libera nel secondo, potendo contare su una loro personale interpretazione non di un testo sacro (Bouhlel era assai lontano dall’Islam, sappiamo oggi), ma sorretti dalle frasi ridondanti di un qualche autonominato califfo che incita a uccidere con qualsiasi mezzo qualunque cosa emani vita.
Segue qui:
http://www.lettera43.it/blog/la-stanza-101-lo-sguardo-di-uno-psicoanalista-sul-contemporaneo/legame-sociale/sadici-e-violenti-in-cerca-di-un-dio_43675255282.htm
L’indicibile mattanza perpetrata ai danni degli ignari passanti che transitavano sulla promenade des Anglais, il barbaro sgozzamento del sacerdote francese, la ferocia con la quale un ragazzo cerca di tagliare le gole su un treno, e altri episodi ancora, ripropongono l’antica questione dell’uso della ‘religione’ (o per meglio dire l’espunzione di quei paragrafi particolarmente violenti incisi in tanti libri sacri) come strumento per dare forma e sfogo a pulsioni umane violente ed ancestrali, sepolte negli anfratti della storia dell’individuo, che cercano in codici sociali riconosciuti uno sbocco per uscire dalle profondità e dare un senso, ancorché tragico, a vite banali e spesso disturbate, dedicate in gran parte alla ruminazione dell’odio. Il disturbo di personalità, tuttavia, è solo una piccola, infinitesima parte di quell’esercito multiforme e disomogeneo che oggi noi vediamo avanzare sotto il nome di ‘minaccia terrorista’, contro il quale schiere di neo conservatori affilano le loro armi davanti alle tastiere. Nella maggiora parte dei casi la ‘professione di fede’ è uno sgangherato, ma micidiale, carrozzone, noleggiato all’ultimo minuto, nel quale trovano un passaggio feroci e lucide personalità perverse, capaci di tramutarsi in micidiali macchine di morte qualora scorgano in qualche Dio, o qualche cattivo maestro eletto a guida spirituale quegli stessi inconfessabili desideri di distruzione che non erano sino a quel momento riusciti a sdoganare in nessun luogo.
Parliamo di un tempo nel quale la presenza del ‘fondamentalismo’, enorme contenitore ormai privo di contorni definiti tanto da poterci ficcare dentro ogni nequizia che l’animo umano possa produrre, non è solo funzionale all’autoassoluzione di tanti carnefici che cercano in un altrove un senso a vite disgraziate, ma al contempo serve alla società ‘civile’ per poter inquadrare dentro una cornice ben precisa espressioni dell’animo umano che inquietano per la loro ferocia e la loro inclassificabilità. ‘Ah!, si era radicalizzato nelle ultime due settimane, ecco!’…, frasario consolatorio, speso ovunque ed inflazionato proprio come l’adagio ‘ ha ucciso moglie e figli? Ma da tempo era in cura per qualcosa, da qualche parte…’ .
Lasciamo per un attimo da parte Dio, Allah e l’Isis, e proviamo a leggere la questione usando la clinica, per quanto limitatamente possibile, come asse portante dell’agire umano. Una lettura preliminare delle vite di Omar Mateen, l’autore della strage di Orlando nella quale vengono falciati 49 uomini scelti per il loro orientamento omosessuale, e di Mohamed Lahouaiej Bouhlel alla guida del camion a Nizza, ci consegna due uomini banali: un livido manesco con la passione per la palestra e il suo viso autofotografato il primo, (la cui descrizione forse più veritiera è stata fatta dalla moglie, malmenata abitualmente, quando lo descrive come ‘bipolare’, capace di picchiarla anche solo ‘per il bucato fuori posto’), un uomo alle prese con problemi personali alle spalle, una vita destinata a fare capolino nel nulla, dopo una separazione e con precedenti penali il secondo. Per Mateen, che poco prima di imbracciare le armi chiama il 911 e dichiara fedeltà allo Stato islamico, era la femminilità, ma anche l’uomo che bacia un altro uomo, quell’indicibile che ha fatto detonare in lui qualcosa che giaceva sepolto da tempo. Qualcosa di inassimilabile, incollocabile. Per il carnefice nizzardo era forse la vita in sé, sfuggitagli di mano da tempo, quell’elemento da odiare. In entrambi i casi si tratta di crimini che possono essere letti sia come estrema deriva di animi paranoici capaci di colpire nemici resi minacciosi dal tempo e dalla ruminazione malmostosa, o come l’azione di un cuori sadici, per definizione pietrificati, finalmente felici di far vibrare d’angoscia e terrore quei mondi per loro fonte di enigma da chissà quanto tempo, la comunità omosessuale nell’un caso e la vita libera nel secondo, potendo contare su una loro personale interpretazione non di un testo sacro (Bouhlel era assai lontano dall’Islam, sappiamo oggi), ma sorretti dalle frasi ridondanti di un qualche autonominato califfo che incita a uccidere con qualsiasi mezzo qualunque cosa emani vita.
Segue qui:
http://www.lettera43.it/blog/la-stanza-101-lo-sguardo-di-uno-psicoanalista-sul-contemporaneo/legame-sociale/sadici-e-violenti-in-cerca-di-un-dio_43675255282.htm
TRA TERRORISMO ISLAMICO E ATTENTATI IN FRANCIA UN DEPRESSO C’È, ED È HOLLANDE. Il presidente francese s’aggira come uno zombi tra una strage e l’altra: pensa che siccome è il presidente deve farsi vedere triste, e fa davvero paura. Deve mostrarsi più cadavere dei cadaveri dei morti, ma questa mise non cambia per niente la scarsissima considerazione di cui gode
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 27 luglio 2016
C’è qualcuno che paga qualcun altro affinché uccida un altro ancora. Ecco il sicariato, nei secoli in voga presso tutti i popoli, alcuni in particolare. L’offerta è sempre stata varia: denaro, stupri di ragazze rapite, a volte basta un’occhiata benevola del committente per riempire d’orgoglio, e di odio. I mandanti si mettono in osservazione e quando il crimine va in porto si fregano le mani tutti contenti. Una vecchia storia che continua nei secoli, non c’è granché da stupirsi né da tirare in ballo infanzie depresse o maturità incerte. Il problema piuttosto è come togliere di mezzo i committenti alacri e avidi di sangue, una volta tagliato questo filo sarà più semplice addomesticare e portare alla tranquillità anche i sicari, privati di ogni ricompensa; non solo non avranno i quattrini e il resto, ma neanche avranno più la voglia, perché un califfo che viene fatto fuori non suscita molto entusiasmo e un Allah sconfitto men che meno. Si tratta quindi di distruggere le teste dell’Idra come ben sapevano gli antichi e come fingono di non sapere i giornali e gli psicoanalisti che s’imbrodano nel cercare la ragione profonda e misterica delle miserabili gesta. C’è un tornaconto nell’uccisione, sempre. Allah, il Corano e compagnia bella sono solo pretesti per divertirsi da parte di giovanotti nullafacenti in cerca di emozioni; quante volte in Europa hanno sfilato gli uni contro gli altri, prendiamo ad esempio la Spagna degli anni Trenta, dove si scannavano a piacimento. Erano pazzi? Certo euforici, come i soldatini viennesi che ben volentieri lasciavano le fidanzate per correre a morire al fronte, scandalizzando Freud: disgraziati, così trattate le fanciulle? In ogni momento, epoca e circostanza trovate sempre l’occasione di sfuggire alle loro carezze per andare a fottervi l’un l’altro!
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/esteri/2016/07/27/terrorismo-islamico-attentati-francia-hollande___1-v-144890-rubriche_c399.htm
C’è qualcuno che paga qualcun altro affinché uccida un altro ancora. Ecco il sicariato, nei secoli in voga presso tutti i popoli, alcuni in particolare. L’offerta è sempre stata varia: denaro, stupri di ragazze rapite, a volte basta un’occhiata benevola del committente per riempire d’orgoglio, e di odio. I mandanti si mettono in osservazione e quando il crimine va in porto si fregano le mani tutti contenti. Una vecchia storia che continua nei secoli, non c’è granché da stupirsi né da tirare in ballo infanzie depresse o maturità incerte. Il problema piuttosto è come togliere di mezzo i committenti alacri e avidi di sangue, una volta tagliato questo filo sarà più semplice addomesticare e portare alla tranquillità anche i sicari, privati di ogni ricompensa; non solo non avranno i quattrini e il resto, ma neanche avranno più la voglia, perché un califfo che viene fatto fuori non suscita molto entusiasmo e un Allah sconfitto men che meno. Si tratta quindi di distruggere le teste dell’Idra come ben sapevano gli antichi e come fingono di non sapere i giornali e gli psicoanalisti che s’imbrodano nel cercare la ragione profonda e misterica delle miserabili gesta. C’è un tornaconto nell’uccisione, sempre. Allah, il Corano e compagnia bella sono solo pretesti per divertirsi da parte di giovanotti nullafacenti in cerca di emozioni; quante volte in Europa hanno sfilato gli uni contro gli altri, prendiamo ad esempio la Spagna degli anni Trenta, dove si scannavano a piacimento. Erano pazzi? Certo euforici, come i soldatini viennesi che ben volentieri lasciavano le fidanzate per correre a morire al fronte, scandalizzando Freud: disgraziati, così trattate le fanciulle? In ogni momento, epoca e circostanza trovate sempre l’occasione di sfuggire alle loro carezze per andare a fottervi l’un l’altro!
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/esteri/2016/07/27/terrorismo-islamico-attentati-francia-hollande___1-v-144890-rubriche_c399.htm
INTERVISTA A G. B. CONTRI: “È POVERO COLUI CHE NON HA SOCI”. Perché solo chi ha affari costruisce e non ha nemici
di Goffredo Pistelli, italiaoggi.it, 27 luglio 2016
Giacomo B. Contri distilla quasi quotidianamente pensiero attraverso il web. Allievo e traduttore di Jacques Lacan, questo psicoanalista e medico milanese, anche se nato a Ivrea, classe 1941, regala ogni giorno, a chi vuole coglierle, le sue potentissime riflessioni sulla natura, sul mondo, sulla realtà. Basta cliccarle su societàamicidelpensiero.com, e si trovano i suoi «think», i brevi interventi in genere sull’attualità ma anche molte delle sue lezioni degli ultimi anni.
Domanda. Contri, lei come psicoanalista, nei suoi interventi pubblici, si occupa sovente di potere e di politica. Parliamone.
Risposta. Allora partiamo dall’economia. Chiedo da cosa abbiamo la prova di quale sia la realtà.
D. Vale a dire?
R. Da cosa abbiamo la prova che non ci inventiamo tutto, che non decolliamo con la testa, che non uccidiamo quando facciamo i bravi. È una prova percettiva. Però attenzione.
D. A che cosa?
R. L’accezione di percezione più diffusa è quella sensoriale, che il mio pensiero si accorda con la realtà esterna, fuori dalla mia pelle.
D. E non è così?
R. Questa c’è sempre. Però la prova di realtà è completa quando è legata alla percezione economica, nel senso di percepire denaro, un beneficio, un progresso, un profitto. Non c’è «piacere» senza profitto. Le due percezioni si sposano, ma quella economica prevale, senza di essa siamo nell’irrealismo. Il nostro mondo così diseconomico vive nell’irrealismo. Spesso la politica è il periodo ipotetico dell’irrealtà (vedi i «sogni», non quelli di Freud, che riempiono la bocca dei politici).
D. Ossia?
R. I poveri non percepiscono niente, i salariati quell’appena appena: il danno e le beffe. La critica del lavoro salariato è già stata fatta, vedi Marx («Lavoro salariato e capitale»), ma anche San Francesco. Marx diceva che è dal lavoro salariato che ha inizio il capitalismo. In cui il lavoro dell’uomo, cioè l’uomo, è misurato dal salario, è merce sottopagata. Ma l’errore è nel pagarlo.
D. E Francesco, nel senso del santo?
R. Non voglio fare pasticci, l’era di Francesco non è quella del capitalismo moderno. Semplicemente la «povertà» da lui difesa non è quella delle pezze al sedere. Lui non voleva essere pagato, non voleva che il suo e dei francescani fosse lavoro salariato.
D. C’entrano l’uomo di Treviri e quello di Assisi?
R. Non si debbono confondere, non c’era il vero capitalismo ai tempi di Francesco. Però c’è in entrambi un’idea di realismo che nasce quando si uniscono e distinguono percezione sensoriale e percezione economica.
D. Dicevamo che il nostro mondo, viceversa, è irrealista.
R. Il pensiero politico neppure considera la percezione economica.
Segue qui:
http://www.italiaoggi.it/giornali/dettaglio_giornali.asp?preview=false&accessMode=FA&id=2104002&codiciTestate=1&sez=hgiornali&testo&titoloÈ%3B+povero+colui+che+non+ha+soci
L’ISIS ILLUDE I RAGAZZINI CON UN’IDENTITÀ AVVELENATA
di Claudio Risé, ilgiornale.it, 28 luglio 2016
Sono sempre più giovani. Anche nell’assassinio di Saint-Etienne-du-Rouvray (il primo compiuto su un altare, al termine della messa), sono giovanissimi. Come mai – ci si chiede – persone che hanno tutta la vita davanti la gettano via in questo modo? Eppure il diciannovenne Adel, da tempo impegnato nella jihad, scarcerato da poco, tuttora sottoposto a sorveglianza, era deciso ad agire. Perché? Chi lavora con i giovani, e conosce un po’ la loro psiche, si accorge che in loro le domande di senso: «perché vivo»?, accompagnate da quelle sulla propria identità: «chi sono io»?, sono molto forti. Una volta insegnanti ed educatori sapevano bene che proprio su questo terreno, sulla capacità di aiutarli a riconoscere chiaramente questi interrogativi che li inquietano, e a dotarsi delle conoscenze necessarie a rispondervi, si gioca il rapporto con i ragazzi, e quindi il loro inserimento nella scuola e nelle strutture educative. Negli ultimi decenni questa consapevolezza negli educatori si è via via persa, ed è diventato più difficile anche per i ragazzi, tra i bianchi europei e americani, riconoscere queste inquietudini e cercare delle risposte forti ed autentiche. L’attenzione è stata posta sulla quantità delle nozioni da imparare, e il loro valore utilitario, dal punto di vista del lavoro e del guadagno e non sul bisogno psicologico di trovare risposte al senso dell’esistenza, la prima questione che sfida l’equilibrio psicologico. A meno di stordirsi con le droghe o l’alcol (come in Occidente spesso si preferisce che facciano), i giovani fin da bambini (loro fino a poco tempo fa osavano farlo a voce alta, seppure derisi dagli adulti) si chiedono quale sia la loro identità, e il senso della vita.
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/lisis-illude-i-ragazzini-unidentit-avvelenata-1290170.html
Giacomo B. Contri distilla quasi quotidianamente pensiero attraverso il web. Allievo e traduttore di Jacques Lacan, questo psicoanalista e medico milanese, anche se nato a Ivrea, classe 1941, regala ogni giorno, a chi vuole coglierle, le sue potentissime riflessioni sulla natura, sul mondo, sulla realtà. Basta cliccarle su societàamicidelpensiero.com, e si trovano i suoi «think», i brevi interventi in genere sull’attualità ma anche molte delle sue lezioni degli ultimi anni.
Domanda. Contri, lei come psicoanalista, nei suoi interventi pubblici, si occupa sovente di potere e di politica. Parliamone.
Risposta. Allora partiamo dall’economia. Chiedo da cosa abbiamo la prova di quale sia la realtà.
D. Vale a dire?
R. Da cosa abbiamo la prova che non ci inventiamo tutto, che non decolliamo con la testa, che non uccidiamo quando facciamo i bravi. È una prova percettiva. Però attenzione.
D. A che cosa?
R. L’accezione di percezione più diffusa è quella sensoriale, che il mio pensiero si accorda con la realtà esterna, fuori dalla mia pelle.
D. E non è così?
R. Questa c’è sempre. Però la prova di realtà è completa quando è legata alla percezione economica, nel senso di percepire denaro, un beneficio, un progresso, un profitto. Non c’è «piacere» senza profitto. Le due percezioni si sposano, ma quella economica prevale, senza di essa siamo nell’irrealismo. Il nostro mondo così diseconomico vive nell’irrealismo. Spesso la politica è il periodo ipotetico dell’irrealtà (vedi i «sogni», non quelli di Freud, che riempiono la bocca dei politici).
D. Ossia?
R. I poveri non percepiscono niente, i salariati quell’appena appena: il danno e le beffe. La critica del lavoro salariato è già stata fatta, vedi Marx («Lavoro salariato e capitale»), ma anche San Francesco. Marx diceva che è dal lavoro salariato che ha inizio il capitalismo. In cui il lavoro dell’uomo, cioè l’uomo, è misurato dal salario, è merce sottopagata. Ma l’errore è nel pagarlo.
D. E Francesco, nel senso del santo?
R. Non voglio fare pasticci, l’era di Francesco non è quella del capitalismo moderno. Semplicemente la «povertà» da lui difesa non è quella delle pezze al sedere. Lui non voleva essere pagato, non voleva che il suo e dei francescani fosse lavoro salariato.
D. C’entrano l’uomo di Treviri e quello di Assisi?
R. Non si debbono confondere, non c’era il vero capitalismo ai tempi di Francesco. Però c’è in entrambi un’idea di realismo che nasce quando si uniscono e distinguono percezione sensoriale e percezione economica.
D. Dicevamo che il nostro mondo, viceversa, è irrealista.
R. Il pensiero politico neppure considera la percezione economica.
Segue qui:
http://www.italiaoggi.it/giornali/dettaglio_giornali.asp?preview=false&accessMode=FA&id=2104002&codiciTestate=1&sez=hgiornali&testo&titoloÈ%3B+povero+colui+che+non+ha+soci
L’ISIS ILLUDE I RAGAZZINI CON UN’IDENTITÀ AVVELENATA
di Claudio Risé, ilgiornale.it, 28 luglio 2016
Sono sempre più giovani. Anche nell’assassinio di Saint-Etienne-du-Rouvray (il primo compiuto su un altare, al termine della messa), sono giovanissimi. Come mai – ci si chiede – persone che hanno tutta la vita davanti la gettano via in questo modo? Eppure il diciannovenne Adel, da tempo impegnato nella jihad, scarcerato da poco, tuttora sottoposto a sorveglianza, era deciso ad agire. Perché? Chi lavora con i giovani, e conosce un po’ la loro psiche, si accorge che in loro le domande di senso: «perché vivo»?, accompagnate da quelle sulla propria identità: «chi sono io»?, sono molto forti. Una volta insegnanti ed educatori sapevano bene che proprio su questo terreno, sulla capacità di aiutarli a riconoscere chiaramente questi interrogativi che li inquietano, e a dotarsi delle conoscenze necessarie a rispondervi, si gioca il rapporto con i ragazzi, e quindi il loro inserimento nella scuola e nelle strutture educative. Negli ultimi decenni questa consapevolezza negli educatori si è via via persa, ed è diventato più difficile anche per i ragazzi, tra i bianchi europei e americani, riconoscere queste inquietudini e cercare delle risposte forti ed autentiche. L’attenzione è stata posta sulla quantità delle nozioni da imparare, e il loro valore utilitario, dal punto di vista del lavoro e del guadagno e non sul bisogno psicologico di trovare risposte al senso dell’esistenza, la prima questione che sfida l’equilibrio psicologico. A meno di stordirsi con le droghe o l’alcol (come in Occidente spesso si preferisce che facciano), i giovani fin da bambini (loro fino a poco tempo fa osavano farlo a voce alta, seppure derisi dagli adulti) si chiedono quale sia la loro identità, e il senso della vita.
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/lisis-illude-i-ragazzini-unidentit-avvelenata-1290170.html
George Steiner: “Guai a chi dice che le utopie non sono altro che idiozie”
di Borja Hermoso, repubblica.it, 16 luglio 2016
In principio fu un fax. Nessuno rispose a questo primo, archeologico tentativo. Poi una lettera (sì, quelle reliquie che consistono in una carta scritta e infilata dentro una busta). “Non le risponderà, è malato “, mi aveva avvisato una persona che lo conosce bene. Dopo pochi giorni arrivò la risposta. Per posta aerea, con il timbro della Royal Mail e il profilo della regina di Inghilterra. Sull’intestazione c’era scritto: Churchill College, Cambridge. Il breve testo recitava così: “Caro signore, l’88° anno e una salute incerta. Ma la sua visita sarebbe un onore. Con i miei migliori auguri, George Steiner”. Due mesi dopo, il vecchio professore disse “sì”, mettendo provvisoriamente fine alla sua proverbiale avversione alle interviste. Il cattedratico di letteratura comparata, il lettore di latino e greco, l’eminenza di Princeton, Stanford, Ginevra e Cambridge; il figlio di ebrei viennesi che fuggirono dal nazismo prima a Parigi e poi a New York; il filosofo delle cose di ieri, di oggi e di domani; l’autore di libri fondamentali del pensiero moderno, della storia e della semiotica, come Errata, La nostalgia dell’assoluto, Una certa idea di Europa, Tolstoj o Dostoevskij o La poesia del pensiero ci ha aperto le porte della sua stupenda casetta di Barrow Road.
Professor Steiner, come va la salute?
“Oooh, molto male, purtroppo. Ormai ho 88 anni e non va bene, però non importa. Ho avuto e ho molta fortuna nella vita e ora va male, anche se qualche bella giornata ancora mi capita”.
Quando si sta male, è inevitabile sentire nostalgia dei giorni felici? Lei fugge dalla nostalgia o la nostalgia può essere un rifugio?
“No, l’impressione che hai è di aver tralasciato di fare molte cose importanti nella vita. E di non aver capito del tutto fino a che punto la vecchiaia rappresenta un problema, questo indebolimento progressivo. Quello che mi turba maggiormente è la paura della demenza. Intorno a noi l’Alzheimer fa strage. Io, per lottare contro questo rischio, tuti i giorni faccio esercizi di memoria e di attenzione”.
Segue qui:
http://www.repubblica.it/cultura/2016/07/16/news/george_steiner_guai_a_chi_dice_che_le_utopie_non_sono_altro_che_idiozie_-144226195/
EDOARDO BISIACH: “OLIVER SACKS MI HA COPIATO MA ALMENO LO HA FATTO BENE”. Il neuroscienziato: “Ci sono molte cose da esplorare oltre la scienza. Si arriva a un’età in cui l’affaticamento mentale pesa sulle decisioni. Allora meglio tacere che essere commiserati”
di Antonio Gnoli, repubblica.it, 17 luglio 2016
Mentre mescola due tipi di insalata, Edoardo Bisiach mi chiede se desidero l’aceto. Penso che la vita somigli a questo gesto quieto e naturale: fatto di tradizione, semplicità, libera scelta. Vale per una pietanza rapida e umile come quella che mi è offerta, ma altresì si suppone debba richiamare ogni nostra decisione. Eppure non è così semplice. Il cervello non sempre si esprime come vorremmo. Edoardo Bisiach è tra i grandi neuroscienziati che l’Italia può vantare. Da alcuni anni non esercita quel magistero che lo ha visto primeggiare in molte università e centri di ricerca internazionali. Sono giunto a lui per quelle strane combinazioni che a volte l’esistenza riserva. Sapevo di un curioso esperimento che interessa alcuni pazienti affetti da deficit spaziale. Messi di fronte a uno spazio a loro noto, poniamo una piazza, o l’ambiente di una stanza, e chiesto di descriverlo, si ottiene un risultato sorprendente. Questi pazienti sono in grado di rappresentare soltanto una metà di quello spazio. Convinti che l’altra metà non esista. A proposito di spazi e di luoghi Bisiach vive in una casa squadrata e molto razionale. I contrafforti in cemento sovrastano e delimitano quest’isola che sembra affiorare da un bosco, a pochi chilometri da Mozzate, sul confine tra la Brianza e il Comasco. Guardo quest’uomo dall’aria gentile che scruta un cespuglio di rigorose ortensie e si lamenta della decimazione dei castagni: “Una malattia li sta lentamente e inesorabilmente devastando. Non c’è verso di curarli. Abbiamo molti punti di contatto con le piante”, commenta come se dicesse la verità più triste che un uomo possa rivelare.
Le piante hanno un cervello?
“Non lo so, ma tenderei ad escluderlo. Non dimentichi che in passato sono stato uno scienziato”.
Quando ha smesso di esserlo?
“Una quindicina di anni fa. Fu una decisione netta. Arriva sempre un momento in cui dire basta. Non tutti lo avvertono. Non tutti sentono quel richiamo. A me è accaduto”.
Non c’è rimpianto?
“No, a volte vengono degli ex allievi a ricordarmi che ho avuto un’altra vita. Provo come un senso di disagio. Ma anche di riconoscenza. Per quello che sono stato. So che quella parte della mia esistenza dedita alla ricerca scientifica è stata magnifica. Ma so anche che si vive una volta sola. Non sono adatto a una vita monotematica. Ci sono molte cose da esplorare oltre la scienza. Le confesso un certo timore. Si arriva a un’età in cui l’affaticamento mentale pesa sulle decisioni. Allora meglio tacere che essere commiserati. Quello che faccio attualmente è interessarmi di botanica, di estetica del paesaggio e, in qualche modo, di musica”.
Attività molto nobili.
“Lo sono, certamente. Ma non che la scienza lo fosse meno”.
Segue qui:
http://www.repubblica.it/cultura/2016/07/17/news/edoardo_bisiach_oliver_sacks_mi_ha_copiato_ma_almeno_lo_ha_fatto_bene_-144300702/
In principio fu un fax. Nessuno rispose a questo primo, archeologico tentativo. Poi una lettera (sì, quelle reliquie che consistono in una carta scritta e infilata dentro una busta). “Non le risponderà, è malato “, mi aveva avvisato una persona che lo conosce bene. Dopo pochi giorni arrivò la risposta. Per posta aerea, con il timbro della Royal Mail e il profilo della regina di Inghilterra. Sull’intestazione c’era scritto: Churchill College, Cambridge. Il breve testo recitava così: “Caro signore, l’88° anno e una salute incerta. Ma la sua visita sarebbe un onore. Con i miei migliori auguri, George Steiner”. Due mesi dopo, il vecchio professore disse “sì”, mettendo provvisoriamente fine alla sua proverbiale avversione alle interviste. Il cattedratico di letteratura comparata, il lettore di latino e greco, l’eminenza di Princeton, Stanford, Ginevra e Cambridge; il figlio di ebrei viennesi che fuggirono dal nazismo prima a Parigi e poi a New York; il filosofo delle cose di ieri, di oggi e di domani; l’autore di libri fondamentali del pensiero moderno, della storia e della semiotica, come Errata, La nostalgia dell’assoluto, Una certa idea di Europa, Tolstoj o Dostoevskij o La poesia del pensiero ci ha aperto le porte della sua stupenda casetta di Barrow Road.
Professor Steiner, come va la salute?
“Oooh, molto male, purtroppo. Ormai ho 88 anni e non va bene, però non importa. Ho avuto e ho molta fortuna nella vita e ora va male, anche se qualche bella giornata ancora mi capita”.
Quando si sta male, è inevitabile sentire nostalgia dei giorni felici? Lei fugge dalla nostalgia o la nostalgia può essere un rifugio?
“No, l’impressione che hai è di aver tralasciato di fare molte cose importanti nella vita. E di non aver capito del tutto fino a che punto la vecchiaia rappresenta un problema, questo indebolimento progressivo. Quello che mi turba maggiormente è la paura della demenza. Intorno a noi l’Alzheimer fa strage. Io, per lottare contro questo rischio, tuti i giorni faccio esercizi di memoria e di attenzione”.
Segue qui:
http://www.repubblica.it/cultura/2016/07/16/news/george_steiner_guai_a_chi_dice_che_le_utopie_non_sono_altro_che_idiozie_-144226195/
EDOARDO BISIACH: “OLIVER SACKS MI HA COPIATO MA ALMENO LO HA FATTO BENE”. Il neuroscienziato: “Ci sono molte cose da esplorare oltre la scienza. Si arriva a un’età in cui l’affaticamento mentale pesa sulle decisioni. Allora meglio tacere che essere commiserati”
di Antonio Gnoli, repubblica.it, 17 luglio 2016
Mentre mescola due tipi di insalata, Edoardo Bisiach mi chiede se desidero l’aceto. Penso che la vita somigli a questo gesto quieto e naturale: fatto di tradizione, semplicità, libera scelta. Vale per una pietanza rapida e umile come quella che mi è offerta, ma altresì si suppone debba richiamare ogni nostra decisione. Eppure non è così semplice. Il cervello non sempre si esprime come vorremmo. Edoardo Bisiach è tra i grandi neuroscienziati che l’Italia può vantare. Da alcuni anni non esercita quel magistero che lo ha visto primeggiare in molte università e centri di ricerca internazionali. Sono giunto a lui per quelle strane combinazioni che a volte l’esistenza riserva. Sapevo di un curioso esperimento che interessa alcuni pazienti affetti da deficit spaziale. Messi di fronte a uno spazio a loro noto, poniamo una piazza, o l’ambiente di una stanza, e chiesto di descriverlo, si ottiene un risultato sorprendente. Questi pazienti sono in grado di rappresentare soltanto una metà di quello spazio. Convinti che l’altra metà non esista. A proposito di spazi e di luoghi Bisiach vive in una casa squadrata e molto razionale. I contrafforti in cemento sovrastano e delimitano quest’isola che sembra affiorare da un bosco, a pochi chilometri da Mozzate, sul confine tra la Brianza e il Comasco. Guardo quest’uomo dall’aria gentile che scruta un cespuglio di rigorose ortensie e si lamenta della decimazione dei castagni: “Una malattia li sta lentamente e inesorabilmente devastando. Non c’è verso di curarli. Abbiamo molti punti di contatto con le piante”, commenta come se dicesse la verità più triste che un uomo possa rivelare.
Le piante hanno un cervello?
“Non lo so, ma tenderei ad escluderlo. Non dimentichi che in passato sono stato uno scienziato”.
Quando ha smesso di esserlo?
“Una quindicina di anni fa. Fu una decisione netta. Arriva sempre un momento in cui dire basta. Non tutti lo avvertono. Non tutti sentono quel richiamo. A me è accaduto”.
Non c’è rimpianto?
“No, a volte vengono degli ex allievi a ricordarmi che ho avuto un’altra vita. Provo come un senso di disagio. Ma anche di riconoscenza. Per quello che sono stato. So che quella parte della mia esistenza dedita alla ricerca scientifica è stata magnifica. Ma so anche che si vive una volta sola. Non sono adatto a una vita monotematica. Ci sono molte cose da esplorare oltre la scienza. Le confesso un certo timore. Si arriva a un’età in cui l’affaticamento mentale pesa sulle decisioni. Allora meglio tacere che essere commiserati. Quello che faccio attualmente è interessarmi di botanica, di estetica del paesaggio e, in qualche modo, di musica”.
Attività molto nobili.
“Lo sono, certamente. Ma non che la scienza lo fosse meno”.
Segue qui:
http://www.repubblica.it/cultura/2016/07/17/news/edoardo_bisiach_oliver_sacks_mi_ha_copiato_ma_almeno_lo_ha_fatto_bene_-144300702/
GROOMING? ADESCAMENTO ONLINE. Attenzione: il minore catturato dall’abilità del pedofilo seducente, solitamente non riesce a rendersi conto di essere in mano ad un soggetto pericoloso
di Giuseppe Maiolo, ladigetto.it, 18 luglio 2016
Tra i rischi che corrono i minori quando navigano in Internet vi è da sempre quello di essere adescati, cioè catturati dai malintenzionati o per meglio dire dai pedofili che vogliono procurarsi contatti reali di natura sessuale o materiale pedopornografico. I pedofili ormai, abbandonati i giardinetti si sono trasferiti da tempo sul web. La rete offre più garanzie di anonimato e maggiori possibilità di attrarre con sicurezza bambini e adolescenti. Oggi l’adescamento è cambiato. Un tempo il pedofilo si appostava in un luogo appartato e offriva al bambino le caramelle. Ora la proposta più frequente e quella della ricarica telefonica.
Segue qui:
http://www.ladigetto.it/permalink/56080.html
Tra i rischi che corrono i minori quando navigano in Internet vi è da sempre quello di essere adescati, cioè catturati dai malintenzionati o per meglio dire dai pedofili che vogliono procurarsi contatti reali di natura sessuale o materiale pedopornografico. I pedofili ormai, abbandonati i giardinetti si sono trasferiti da tempo sul web. La rete offre più garanzie di anonimato e maggiori possibilità di attrarre con sicurezza bambini e adolescenti. Oggi l’adescamento è cambiato. Un tempo il pedofilo si appostava in un luogo appartato e offriva al bambino le caramelle. Ora la proposta più frequente e quella della ricarica telefonica.
Segue qui:
http://www.ladigetto.it/permalink/56080.html
QUATTRO VOLTI DI JACQUES LACAN
di Massimo Recalcati, da leparoleelecose.it, 20 luglio 2016
[Il saggio che segue [1] è tratto da Un cammino nella psicoanalisi. Dalla clinica del vuoto al padre della testimonianza(Mimesis), una raccolta di scritti di Massimo Recalcati a cura di Mario Giorgetti Fumel, uscita nelle scorse settimane].
Il sogno di Lacan
Mi è capitato poche volte di sognare Lacan. In uno di questi sogni mi appariva come scomposto da uno specchio che rifrangeva la sua immagine in modo che apparissero, stratificati come in un quadro cubista, diversi volti di Lacan. L’impressione era quella di qualcosa che sfuggiva a una resa identitaria coerente, che il volto di Lacan non si lasciasse catturare mai in uno solo. Lo sognavo attraverso l’oggetto che lo aveva reso celebre (lo specchio, la sua teoria dello “stadio dello specchio”), ma il suo volto si moltiplicava come se la sua testa fosse quella di un alieno. Nel sogno restavo disorientato fi no alla nausea di fronte a questo strano collage. Mi stropicciavo gli occhi chiedendomi se era la mia vista a essere alterata oppure se ciò che vedevo aveva una sua propria consistenza. Ripensando al sogno, una delle mie prime associazioni legò i diversi volti di Lacan ai suoi quattro discorsi.
I volti attraverso i quali mi appariva erano forse quattro come i suoi discorsi?
Una volta il mio amico Rocco Ronchi pose un interrogativo sulla natura del discorso di Lacan; se era uno dei quattro discorsi qual era? Oppure dovevamo considerare il discorso di Lacan come un altro discorso, irriducibile ai quattro? Che discorso era il discorso di Lacan? Forse il mio sogno era anche una risposta a Rocco Ronchi; il discorso di Lacan non lo si può afferrare come un solo discorso, non può essere identificato in uno dei quattro. Come nel sogno il volto di Lacan mi appariva plurimo, scomposto, rifratto, allo stesso modo il suo discorso sfugge alla rigida identificazione con uno dei quattro discorsi. Non a caso questo sogno apparve all’indomani della mia decisione di rinviare ancora una volta la conclusione di un libro sulla sua opera che mi stava occupando da circa vent’anni.[2]
Erano quattro volti, dunque, non uno solo; impossibilità di venire a capo di Lacan, di scrivere in un discorso definito il discorso di Lacan, impossibilità di afferrarlo in un solo volto, in una sola lettura, necessità di pluralizzarlo come lui fece con il Nome-del-Padre, necessità di liberare Lacan dal pensiero unico. Se seguiamo il mio sogno come una piccola fantasia scientifica, possiamo provare a individuare davvero quattro diversi volti di Lacan. Questi mi appaiono come altrettanti aspetti fondamentali del suo pensiero, come quattro vettori che lo percorrono costantemente. Propongo di nominare questi quattro volti così: Lacan-ironico, Lacan-matematico, Lacan-tragico, Lacan-clinico.
Lacan-ironico
Il primo volto di Lacan è quello ironico. Lacan-ironico erode ogni versione identitaria della soggettività. Chi è l’Io che dice “Io” ? Chi è Io? Chi sono Io ? Lacan ritorna a porre, dopo Cartesio, la questione della natura dell’Io, ma vi risponde in tutt’altro modo; l’Io non coincide con il pensiero, non è “cogito”, non stabilisce un’identità, non è ciò che è, non è un Uno chiuso, non è, come voleva Cartesio, la “roccia sotto la sabbia”, il sostrato costante e immutabile del soggetto.
La natura dell’Io appare a Lacan come rifratta, scomposta, plurale. “Il vero Io non sono mai Io”, recita beffardamente il Lacan-ironico.[3]
L’Io non consiste di nessuna sostanza, non è il perno ontologico immutabile della realtà umana. Tutta la riflessione di Lacan intorno allo stadio dello specchio mostra che l’Io non ha un centro in se stesso, ma si costituisce solo attraverso una miriade d’identificazioni. Assomiglia a una cipolla fatta di tanti strati identificatori senza alcun cuore solido, senza un centro consistente.[4] La lezione del Lacan-ironico non solo sfiducia l’Io come rappresentante del governo di sé, ma ritiene che laddove l’Io avanzi questa pretesa – la pretesa di essere il governatore della soggettività – si generi il massimo di malattia e di follia. Se si pensa l’Io come identità, se si dimentica che l’Io è un aggregato di identificazioni, se la credenza nell’Io assume i tratti perentori di una fede, di un’esigenza, di una volontà imperitura, se la figura debole e stratificata dell’Io-cipolla lascia il posto a una rappresentazione monumentale, statuaria dell’Io, il soggetto umano finisce nelle braccia della follia. La più grande follia, secondo il Lacan-ironico, non è nel delirio o nell’allucinazione, nella deviazione dalla norma, nello scatenamento delle pulsioni, la più grande follia è quella di credersi un Io, di pensarsi come il padrone di se stessi.
La follia più grande non consiste nella molteplicità delle identificazioni, non sarebbe la disidentità, l’assenza di centro, quanto piuttosto l’installazione dell’Io come identità chiusa, monadica, sufficiente a se stessa, autonoma. La follia più grande, precisa ancora ironicamente Lacan, non è essere privi di Io, ma è quella di credersi un Io, è la follia dell’“Iocrazia”.
Un pazzo che si crede Napoleone, scrive il Lacan-ironico, è chiaramente un pazzo ma non gli è affatto da meno un re che si crede un re.[5]
Il vizio di questa credenza immaginaria consiste nell’espellere dall’Io tutto ciò che l’Io non governa. Ma poiché questa espulsione è impossibile – espellere l’alterità dall’Io significa espellere l’Io stesso in quanto integralmente costituito dall’alterità dell’altro –, la spinta folle del narcisismo non può che prendere la via della violenza e dell’aggressività. Da questa follia narcisistica che non sa riconoscere la dimensione dell’alterità può sgorgare solo una aggressività suicidaria.
Per questo, per Lacan, il gesto di Caino ha la sua matrice ultima in quello di Narciso: distruggere l’altro come sede della propria alienazione che il sogno narcisistico di un’identità chiusa su se stessa non può consentire di far esistere.
La follia non è solo nell’allucinazione e nel delirio psicotico, ma è anche nel rifiuto della divisione soggettiva, nel porsi come Uno, nell’installarsi come identico a se stesso. La follia umana è nei gesti di Narciso e di Caino che Lacan assimila e incrocia mostrando come l’uno sia la faccia in ombra dell’altro.
In effetti, Lacan stesso mostrava di non credersi affatto “Lacan”. Questo accentuava probabilmente il suo sentimento di solitudine. Il suo sorriso non era qualcosa di frequente da vedersi negli ambienti ingessati della psicoanalisi ortodossa. Lo ricorda bene Gilles Deleuze in una sua testimonianza:
Gli psicoanalisti ci insegnano la rassegnazione senza limiti, sono gli ultimi preti (no, ne spunteranno ancora di altri preti). Non si può dire che essi siano allegri, guardate lo sguardo spento che hanno, la loro nuca irrigidita… soltanto Lacan ha conservato un certo senso del sorriso.[6]
Per questo Lacan era o, meglio, poteva sembrare, grottesco. Lo spirito di serietà che irrigidisce l’esistenza in ruoli codificati e imperituri misconoscendo la divisione del soggetto, lo spirito di serietà dell’Io, dell’arroganza narcisistica dell’Io, non apparteneva in nessun modo a Lacan. La dimensione istrionica ed eccentrica della sua personalità mostrava, sino al limite della provocazione, lo stile ironico del suo rapporto con il sembiante. Se non s’ironizza sui sembianti, se non si mantiene una certa distanza dal sembiante che ci rappresenta, lo spirito di serietà prende il sopravvento e atrofizza inevitabilmente la vita del desiderio. Quando il sembiante si sovrappone completamente all’essere – annullando ogni gioco possibile, ogni scarto, ogni discontinuità – l’essere s’irrigidisce in identità e il soggetto si solidifica nel proprio Io. Ma è proprio quando il sembiante reclama uno statuto ontologico – quando si pone come un “essere” – che abbiamo la follia come delirio dell’identità, la credenza narcisistica nell’Io, la malattia umana per eccellenza, l’Io come sintomo mentale dell’uomo.[7]
Segue qui:
http://www.leparoleelecose.it/?p=23866
[Il saggio che segue [1] è tratto da Un cammino nella psicoanalisi. Dalla clinica del vuoto al padre della testimonianza(Mimesis), una raccolta di scritti di Massimo Recalcati a cura di Mario Giorgetti Fumel, uscita nelle scorse settimane].
Il sogno di Lacan
Mi è capitato poche volte di sognare Lacan. In uno di questi sogni mi appariva come scomposto da uno specchio che rifrangeva la sua immagine in modo che apparissero, stratificati come in un quadro cubista, diversi volti di Lacan. L’impressione era quella di qualcosa che sfuggiva a una resa identitaria coerente, che il volto di Lacan non si lasciasse catturare mai in uno solo. Lo sognavo attraverso l’oggetto che lo aveva reso celebre (lo specchio, la sua teoria dello “stadio dello specchio”), ma il suo volto si moltiplicava come se la sua testa fosse quella di un alieno. Nel sogno restavo disorientato fi no alla nausea di fronte a questo strano collage. Mi stropicciavo gli occhi chiedendomi se era la mia vista a essere alterata oppure se ciò che vedevo aveva una sua propria consistenza. Ripensando al sogno, una delle mie prime associazioni legò i diversi volti di Lacan ai suoi quattro discorsi.
I volti attraverso i quali mi appariva erano forse quattro come i suoi discorsi?
Una volta il mio amico Rocco Ronchi pose un interrogativo sulla natura del discorso di Lacan; se era uno dei quattro discorsi qual era? Oppure dovevamo considerare il discorso di Lacan come un altro discorso, irriducibile ai quattro? Che discorso era il discorso di Lacan? Forse il mio sogno era anche una risposta a Rocco Ronchi; il discorso di Lacan non lo si può afferrare come un solo discorso, non può essere identificato in uno dei quattro. Come nel sogno il volto di Lacan mi appariva plurimo, scomposto, rifratto, allo stesso modo il suo discorso sfugge alla rigida identificazione con uno dei quattro discorsi. Non a caso questo sogno apparve all’indomani della mia decisione di rinviare ancora una volta la conclusione di un libro sulla sua opera che mi stava occupando da circa vent’anni.[2]
Erano quattro volti, dunque, non uno solo; impossibilità di venire a capo di Lacan, di scrivere in un discorso definito il discorso di Lacan, impossibilità di afferrarlo in un solo volto, in una sola lettura, necessità di pluralizzarlo come lui fece con il Nome-del-Padre, necessità di liberare Lacan dal pensiero unico. Se seguiamo il mio sogno come una piccola fantasia scientifica, possiamo provare a individuare davvero quattro diversi volti di Lacan. Questi mi appaiono come altrettanti aspetti fondamentali del suo pensiero, come quattro vettori che lo percorrono costantemente. Propongo di nominare questi quattro volti così: Lacan-ironico, Lacan-matematico, Lacan-tragico, Lacan-clinico.
Lacan-ironico
Il primo volto di Lacan è quello ironico. Lacan-ironico erode ogni versione identitaria della soggettività. Chi è l’Io che dice “Io” ? Chi è Io? Chi sono Io ? Lacan ritorna a porre, dopo Cartesio, la questione della natura dell’Io, ma vi risponde in tutt’altro modo; l’Io non coincide con il pensiero, non è “cogito”, non stabilisce un’identità, non è ciò che è, non è un Uno chiuso, non è, come voleva Cartesio, la “roccia sotto la sabbia”, il sostrato costante e immutabile del soggetto.
La natura dell’Io appare a Lacan come rifratta, scomposta, plurale. “Il vero Io non sono mai Io”, recita beffardamente il Lacan-ironico.[3]
L’Io non consiste di nessuna sostanza, non è il perno ontologico immutabile della realtà umana. Tutta la riflessione di Lacan intorno allo stadio dello specchio mostra che l’Io non ha un centro in se stesso, ma si costituisce solo attraverso una miriade d’identificazioni. Assomiglia a una cipolla fatta di tanti strati identificatori senza alcun cuore solido, senza un centro consistente.[4] La lezione del Lacan-ironico non solo sfiducia l’Io come rappresentante del governo di sé, ma ritiene che laddove l’Io avanzi questa pretesa – la pretesa di essere il governatore della soggettività – si generi il massimo di malattia e di follia. Se si pensa l’Io come identità, se si dimentica che l’Io è un aggregato di identificazioni, se la credenza nell’Io assume i tratti perentori di una fede, di un’esigenza, di una volontà imperitura, se la figura debole e stratificata dell’Io-cipolla lascia il posto a una rappresentazione monumentale, statuaria dell’Io, il soggetto umano finisce nelle braccia della follia. La più grande follia, secondo il Lacan-ironico, non è nel delirio o nell’allucinazione, nella deviazione dalla norma, nello scatenamento delle pulsioni, la più grande follia è quella di credersi un Io, di pensarsi come il padrone di se stessi.
La follia più grande non consiste nella molteplicità delle identificazioni, non sarebbe la disidentità, l’assenza di centro, quanto piuttosto l’installazione dell’Io come identità chiusa, monadica, sufficiente a se stessa, autonoma. La follia più grande, precisa ancora ironicamente Lacan, non è essere privi di Io, ma è quella di credersi un Io, è la follia dell’“Iocrazia”.
Un pazzo che si crede Napoleone, scrive il Lacan-ironico, è chiaramente un pazzo ma non gli è affatto da meno un re che si crede un re.[5]
Il vizio di questa credenza immaginaria consiste nell’espellere dall’Io tutto ciò che l’Io non governa. Ma poiché questa espulsione è impossibile – espellere l’alterità dall’Io significa espellere l’Io stesso in quanto integralmente costituito dall’alterità dell’altro –, la spinta folle del narcisismo non può che prendere la via della violenza e dell’aggressività. Da questa follia narcisistica che non sa riconoscere la dimensione dell’alterità può sgorgare solo una aggressività suicidaria.
Per questo, per Lacan, il gesto di Caino ha la sua matrice ultima in quello di Narciso: distruggere l’altro come sede della propria alienazione che il sogno narcisistico di un’identità chiusa su se stessa non può consentire di far esistere.
La follia non è solo nell’allucinazione e nel delirio psicotico, ma è anche nel rifiuto della divisione soggettiva, nel porsi come Uno, nell’installarsi come identico a se stesso. La follia umana è nei gesti di Narciso e di Caino che Lacan assimila e incrocia mostrando come l’uno sia la faccia in ombra dell’altro.
In effetti, Lacan stesso mostrava di non credersi affatto “Lacan”. Questo accentuava probabilmente il suo sentimento di solitudine. Il suo sorriso non era qualcosa di frequente da vedersi negli ambienti ingessati della psicoanalisi ortodossa. Lo ricorda bene Gilles Deleuze in una sua testimonianza:
Gli psicoanalisti ci insegnano la rassegnazione senza limiti, sono gli ultimi preti (no, ne spunteranno ancora di altri preti). Non si può dire che essi siano allegri, guardate lo sguardo spento che hanno, la loro nuca irrigidita… soltanto Lacan ha conservato un certo senso del sorriso.[6]
Per questo Lacan era o, meglio, poteva sembrare, grottesco. Lo spirito di serietà che irrigidisce l’esistenza in ruoli codificati e imperituri misconoscendo la divisione del soggetto, lo spirito di serietà dell’Io, dell’arroganza narcisistica dell’Io, non apparteneva in nessun modo a Lacan. La dimensione istrionica ed eccentrica della sua personalità mostrava, sino al limite della provocazione, lo stile ironico del suo rapporto con il sembiante. Se non s’ironizza sui sembianti, se non si mantiene una certa distanza dal sembiante che ci rappresenta, lo spirito di serietà prende il sopravvento e atrofizza inevitabilmente la vita del desiderio. Quando il sembiante si sovrappone completamente all’essere – annullando ogni gioco possibile, ogni scarto, ogni discontinuità – l’essere s’irrigidisce in identità e il soggetto si solidifica nel proprio Io. Ma è proprio quando il sembiante reclama uno statuto ontologico – quando si pone come un “essere” – che abbiamo la follia come delirio dell’identità, la credenza narcisistica nell’Io, la malattia umana per eccellenza, l’Io come sintomo mentale dell’uomo.[7]
Segue qui:
http://www.leparoleelecose.it/?p=23866
EREDITÀ CHE LIBERANO O INCATENANO NEL PASSAGGIO DEL TESTIMONE TRA LE GENERAZIONI
di Maria Pia Fontana, nuoveedizionibohemien.it, 23 luglio 2016
Il tema dell’eredità materiale o simbolica riguarda tutti, ogni persona, infatti, in quanto figlio è un erede. Chiaramente, l’eredità non va intesa solo come trasmissione di beni e di status, ma anche e soprattutto come trasferimento di valori, conoscenze e di affetti che contribuiscono a dare significato ai valori (1). Secondo J. T. Godbout (1992) il dono, inteso come atto fiduciario e gratuito, è costitutivo del legame familiare, ma esso inevitabilmente richiama il debito. Infatti, chi ha ricevuto il dono della vita si trova nella condizione di doversi sdebitare e tale restituzione dovrebbe realizzarsi sia in avanti, attraverso la scelta di mettere al mondo e di accudire i propri figli, che all’indietro, cioè manifestando gratitudine verso il proprio genitore, soprattutto quando necessita di maggiore aiuto. Sia i padri che i figli sono quindi accomunati dalla dinamica del dono e del debito in quanto ciascuno deve qualcosa a chi gli ha dato la vita (2).
Possiamo dire che la struttura portante dell’esperienza umana è fatta dall’incontro di generi diversi e che il prototipo del dono paterno, patri-munus, consiste in qualità e in attitudini maggiormente orientate in senso etico e normativo, perché tradizionalmente il padre è colui che guida, responsabilizza ed immette nel mondo sociale, mentre l’archetipo del dono materno, matris-munus, si caratterizza per una maggiore componente emotiva e affettiva, in quanto la donna porta in grembo la vita e la custodisce (3). Tuttavia, a fronte di queste tipizzazioni di genere, M.Recalcati, ispirandosi a Lacan, sostiene che il padre è colui che sa conciliare aspetti emotivi di slancio e passionalità con aspetti etici, integrando cioè il desiderio, inteso come spinta motivazionale, come amore per la vita, l’altro, il sapere o la scoperta di cose nuove, alla legge che rappresenta il limite, conciliando così la libertà con la responsabilità.
Segue qui:
http://www.nuoveedizionibohemien.it/index.php/eredita-che-liberano-o-incatenano-nel-passaggio-del-testimone-tra-le-generazioni/
Il tema dell’eredità materiale o simbolica riguarda tutti, ogni persona, infatti, in quanto figlio è un erede. Chiaramente, l’eredità non va intesa solo come trasmissione di beni e di status, ma anche e soprattutto come trasferimento di valori, conoscenze e di affetti che contribuiscono a dare significato ai valori (1). Secondo J. T. Godbout (1992) il dono, inteso come atto fiduciario e gratuito, è costitutivo del legame familiare, ma esso inevitabilmente richiama il debito. Infatti, chi ha ricevuto il dono della vita si trova nella condizione di doversi sdebitare e tale restituzione dovrebbe realizzarsi sia in avanti, attraverso la scelta di mettere al mondo e di accudire i propri figli, che all’indietro, cioè manifestando gratitudine verso il proprio genitore, soprattutto quando necessita di maggiore aiuto. Sia i padri che i figli sono quindi accomunati dalla dinamica del dono e del debito in quanto ciascuno deve qualcosa a chi gli ha dato la vita (2).
Possiamo dire che la struttura portante dell’esperienza umana è fatta dall’incontro di generi diversi e che il prototipo del dono paterno, patri-munus, consiste in qualità e in attitudini maggiormente orientate in senso etico e normativo, perché tradizionalmente il padre è colui che guida, responsabilizza ed immette nel mondo sociale, mentre l’archetipo del dono materno, matris-munus, si caratterizza per una maggiore componente emotiva e affettiva, in quanto la donna porta in grembo la vita e la custodisce (3). Tuttavia, a fronte di queste tipizzazioni di genere, M.Recalcati, ispirandosi a Lacan, sostiene che il padre è colui che sa conciliare aspetti emotivi di slancio e passionalità con aspetti etici, integrando cioè il desiderio, inteso come spinta motivazionale, come amore per la vita, l’altro, il sapere o la scoperta di cose nuove, alla legge che rappresenta il limite, conciliando così la libertà con la responsabilità.
Segue qui:
http://www.nuoveedizionibohemien.it/index.php/eredita-che-liberano-o-incatenano-nel-passaggio-del-testimone-tra-le-generazioni/
IL SECOLO BREVE CHE RIVOLUZIONÒ L’IDEA DI SPAZIO
di Massimo Recalcati, repubblica.it, 24 luglio 2016
Vincent Van Gogh descriveva al fratello Theo lo stato di prostrazione, al limite del sentimento di persecuzione, che talvolta provava di fronte al bianco della tela. Il quadro gli si ergeva di fronte come una parete ripida che rendeva vano ogni tentativo di scalarla. La nota metafora albertiana del quadro come “finestra aperta sul mondo” lasciava il posto all’esperienza di una impossibilità della visione. Eppure lo stesso Van Gogh, tormentato dal ghigno beffardo della tela, non ha mai abbandonato né la tavolozza, né il pennello, né l’idea stessa del quadro. La sua esperienza artistica per quanto sovverta i canoni della rappresentazione consolidata nella tradizione umanistico- rinascimentale, per quanto problematizzi la luminosa, ordinata e pacifica idea del quadro- finestra, non abbandona mai il territorio del quadro. Quando il concetto stesso di “quadro” viene davvero violato, traumatizzato, oltrepassato nella storia della pittura occidentale? Quando il tabù del quadro viene infranto?
Segue qui:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/07/24/il-secolo-breve-che-rivoluziono-lidea-di-spazio52.html?ref=search
Vincent Van Gogh descriveva al fratello Theo lo stato di prostrazione, al limite del sentimento di persecuzione, che talvolta provava di fronte al bianco della tela. Il quadro gli si ergeva di fronte come una parete ripida che rendeva vano ogni tentativo di scalarla. La nota metafora albertiana del quadro come “finestra aperta sul mondo” lasciava il posto all’esperienza di una impossibilità della visione. Eppure lo stesso Van Gogh, tormentato dal ghigno beffardo della tela, non ha mai abbandonato né la tavolozza, né il pennello, né l’idea stessa del quadro. La sua esperienza artistica per quanto sovverta i canoni della rappresentazione consolidata nella tradizione umanistico- rinascimentale, per quanto problematizzi la luminosa, ordinata e pacifica idea del quadro- finestra, non abbandona mai il territorio del quadro. Quando il concetto stesso di “quadro” viene davvero violato, traumatizzato, oltrepassato nella storia della pittura occidentale? Quando il tabù del quadro viene infranto?
Segue qui:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/07/24/il-secolo-breve-che-rivoluziono-lidea-di-spazio52.html?ref=search
IL SINTOMO DI LACAN. DIECI INCONTRI CON IL REALE
di Felice Cimatti, doppiozero.com, 24 luglio 2016
Di che si occupa la psicoanalisi? In particolare quella lacaniana? Si occupa del reale, è la risposta netta dello psicoanalista Alex Pagliardini, nel libro che ha da poco pubblicato con le edizioni Galaad (16 €): Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale. È una risposta non scontata, al contrario, perché il senso comune pensa che la psicoanalisi abbia a che fare soprattutto con parole e interpretazioni, con spiegazioni, con il senso “nascosto”; in sostanza con il linguaggio. No, la psicoanalisi si occupa invece del corpo. Ma di un corpo particolare, il corpo pulsionale. Lacan ci ha fatto comprendere che si diventa umani quando nel corpo di un piccolo mammifero entra il Simbolico. Fra simbolico e corpo comincia così una lotta all’ultimo sangue che non è sanabile, perché Homo sapiens coincide con questa lotta. Il reale del corpo, allora, è una condizione da conquistare, proprio perché il corpo umano, in quanto corpo simbolico/pulsionale, non è mai soltanto o esclusivamente corpo. Pagliardini segue questo movimento – dal simbolico verso il reale del corpo – attraverso dieci ricchi capitoli, che esplorano in dettaglio (talvolta anche nel dettaglio dell’analisi dell’autore) le forme che questo stesso reale assume, o può assumere, nelle nostre esistenze. Abbiamo pensato che il modo migliore per presentare questo lavoro fosse lasciare la parola all’autore, a partire da alcune domande che la lettura del libro aveva sollecitato.
Cominciamo con una domanda più generale: Jacques Lacan. Ti sarai fatto una idea del perché, in questi anni, e in Italia in particolare, Lacan sia diventata una figura così presente e discussa, sui quotidiani, in Tv, ma anche in diversi dipartimenti universitari di Filosofia, quegli stessi Dipartimenti che per tanti anni lo avevano dimenticato? Un ruolo decisivo l’ha svolto sicuramente Massimo Recalcati, che ha saputo portare Lacan all’attenzione di un vasto pubblico che, finora, l’aveva probabilmente percepito come troppo difficile, se non del tutto incomprensibile. E però forse c’è anche altro. Che ci dice, Lacan, proprio ora?
C’è qualcosa di decisivo in Lacan. Chi ha a che fare con la sua pratica, o più semplicemente con il suo insegnamento, lo avverte – prima o poi. In estrema sintesi direi che sono tre i vettori che scrivono il tratto del decisivo in Lacan. Il primo. Avere dimostrato che l’Io è una iattanza e, al contempo, che l’Altro – l’alterità, la differenza, ecc… – è un’impostura. Il secondo. Avere affermato, con sempre maggior convinzione, che la materialità dell’inconscio – dunque della vita per la psicoanalisi – sta nel fuori senso, e al contempo aver messo a punto una pratica clinica, una logica della direzione della cura, “tarata” sul fuori senso e sulla indispensabilità, per ogni analizzante, di stabilire con esso un rapporto singolare. Il terzo vettore. Avere intrecciato linguaggio e pulsione, simbolico e corpo, significante e godimento. Intreccio niente affatto dialettico. È il linguaggio a essere degradato, a essere ridotto a fracasso, a rumore. È il linguaggio che cessa di essere la casa dell’essere, che cessa di essere luogo della parola, che cessa di essere spazio della rappresentazione, per diventare marchiatura in atto del vivente, taglio in atto, ed è questa marchiatura in atto, questo taglio in atto a essere il godimento, la pulsione – qui va collocato, finalmente, il maneggiamento del problema dell’Uno dell’ultimo Lacan.
Il nostro tempo sta facendo risuonare questi tre vettori, ma, e qui è bene non equivocarsi, lo sta facendo attraverso una modalità tipicamente sintomatica, ossia attraverso l’orrore e il rifiuto. Proprio per quel che il nostro tempo sta facendo, ovviamente senza aver la benché minima idea di farlo, dei tre vettori di Lacan, per il modo sintomatico di trattarli, il nostro tempo invoca Lacan.
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/materiali/il-sintomo-di-lacan-dieci-incontri-con-il-reale
Di che si occupa la psicoanalisi? In particolare quella lacaniana? Si occupa del reale, è la risposta netta dello psicoanalista Alex Pagliardini, nel libro che ha da poco pubblicato con le edizioni Galaad (16 €): Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale. È una risposta non scontata, al contrario, perché il senso comune pensa che la psicoanalisi abbia a che fare soprattutto con parole e interpretazioni, con spiegazioni, con il senso “nascosto”; in sostanza con il linguaggio. No, la psicoanalisi si occupa invece del corpo. Ma di un corpo particolare, il corpo pulsionale. Lacan ci ha fatto comprendere che si diventa umani quando nel corpo di un piccolo mammifero entra il Simbolico. Fra simbolico e corpo comincia così una lotta all’ultimo sangue che non è sanabile, perché Homo sapiens coincide con questa lotta. Il reale del corpo, allora, è una condizione da conquistare, proprio perché il corpo umano, in quanto corpo simbolico/pulsionale, non è mai soltanto o esclusivamente corpo. Pagliardini segue questo movimento – dal simbolico verso il reale del corpo – attraverso dieci ricchi capitoli, che esplorano in dettaglio (talvolta anche nel dettaglio dell’analisi dell’autore) le forme che questo stesso reale assume, o può assumere, nelle nostre esistenze. Abbiamo pensato che il modo migliore per presentare questo lavoro fosse lasciare la parola all’autore, a partire da alcune domande che la lettura del libro aveva sollecitato.
Cominciamo con una domanda più generale: Jacques Lacan. Ti sarai fatto una idea del perché, in questi anni, e in Italia in particolare, Lacan sia diventata una figura così presente e discussa, sui quotidiani, in Tv, ma anche in diversi dipartimenti universitari di Filosofia, quegli stessi Dipartimenti che per tanti anni lo avevano dimenticato? Un ruolo decisivo l’ha svolto sicuramente Massimo Recalcati, che ha saputo portare Lacan all’attenzione di un vasto pubblico che, finora, l’aveva probabilmente percepito come troppo difficile, se non del tutto incomprensibile. E però forse c’è anche altro. Che ci dice, Lacan, proprio ora?
C’è qualcosa di decisivo in Lacan. Chi ha a che fare con la sua pratica, o più semplicemente con il suo insegnamento, lo avverte – prima o poi. In estrema sintesi direi che sono tre i vettori che scrivono il tratto del decisivo in Lacan. Il primo. Avere dimostrato che l’Io è una iattanza e, al contempo, che l’Altro – l’alterità, la differenza, ecc… – è un’impostura. Il secondo. Avere affermato, con sempre maggior convinzione, che la materialità dell’inconscio – dunque della vita per la psicoanalisi – sta nel fuori senso, e al contempo aver messo a punto una pratica clinica, una logica della direzione della cura, “tarata” sul fuori senso e sulla indispensabilità, per ogni analizzante, di stabilire con esso un rapporto singolare. Il terzo vettore. Avere intrecciato linguaggio e pulsione, simbolico e corpo, significante e godimento. Intreccio niente affatto dialettico. È il linguaggio a essere degradato, a essere ridotto a fracasso, a rumore. È il linguaggio che cessa di essere la casa dell’essere, che cessa di essere luogo della parola, che cessa di essere spazio della rappresentazione, per diventare marchiatura in atto del vivente, taglio in atto, ed è questa marchiatura in atto, questo taglio in atto a essere il godimento, la pulsione – qui va collocato, finalmente, il maneggiamento del problema dell’Uno dell’ultimo Lacan.
Il nostro tempo sta facendo risuonare questi tre vettori, ma, e qui è bene non equivocarsi, lo sta facendo attraverso una modalità tipicamente sintomatica, ossia attraverso l’orrore e il rifiuto. Proprio per quel che il nostro tempo sta facendo, ovviamente senza aver la benché minima idea di farlo, dei tre vettori di Lacan, per il modo sintomatico di trattarli, il nostro tempo invoca Lacan.
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/materiali/il-sintomo-di-lacan-dieci-incontri-con-il-reale
UN’ALTRA DIPENDENZA È POSSIBILE. C’è un modo alternativo di combattere la droga, educando alla libertà. Viaggio nella cooperativa Pars per capire che cosa non va nel ddl Cannabis legale in discussione alla Camera da ieri
di Emmanuel Exitu, ilfoglio.it, 26 luglio 2016
Abbiamo un problema mostruoso con le droghe. Nel 2014 la Direzione Nazionale Antimafia rileva un mercato di cannabis da 200 dosi/anno per italiano (compresi vecchi e bambini) e ammette “il totale fallimento dell’azione repressiva, nella letterale impossibilità di aumentare gli sforzi.” Per risolvere il problema, è stato presentato il ddl Cannabis Legale che non sembra un fulmine di guerra sotto nessun profilo (e non promette bene l’appoggio di deputati e senatori che diedero luce verde a Stamina, “frode senza valore scientifico e abuso dei malati”, secondo Elena Cattaneo).
Qualche settimana fa sul Foglio Luca Bizzarri ha fatto due osservazioni incontestabili: il proibizionismo non funziona e la droga è diffusa perché il problema è la dipendenza – allineandosi in certo modo alla sapienza della Chiesa. Anche lei dice che l’uomo è fatto, anzi per esser precisi dice proprio che è strafatto, perché creatura: il suo essere è dipendenza pura (basta guardarsi vivere un paio d’istanti per sentirlo, e senza droghe né mistiche che stimolino esperienze extracorporee: solo osservando e riflettendo). Sì, la differenza c’è: per Bizzarri la dipendenza è la peggior nemica, per la Chiesa è la migliore amica – ma, viv’Iddio, almeno lui ci prova a guardare la nostra vitaccia e rileva il dato che la dipendenza c’è e agisce. S’è pensato che avesse ragione da vendere sulla diagnosi e torto marcio sulla terapia: il proibizionismo non serve, ergo legalizzare; la dipendenza ci costituisce, ergo ucciderla. La dipendenza è la persona, però, e legalizzare è inefficace almeno quanto proibire. Ma se tutte le opzioni falliscono, cosa funziona nella lotta alle droghe? Bizzarri toccala necessità: educare alla consapevolezza. Quindi, con un divino pizzichino di fiducia, s’è pensato che sarebbe bello scoprire come fanno le comunità di recupero che funzionano a trasformare la tossicodipendenza in beneficodipendenza. E, con un divino pizzichino di speranza, s’è pure pensato che si può vincere il mostro droghe se lo si affronta per quello che è: un problema educativo. Vasto programma? Vastissimo. Difficilissimo? Sì. “Ma… funziona?”. Funziona! Il 98,2 per cento di chi finisce i programmi PARS, per esempio, guarisce e non ricade. E così, con divini pizzichini su tutta l’anima, s’è preso un regionale a Roma e poi la corriera a Fabriano, risalendo l’Umbria e le Marche per arrivare in cima alla collina del Villaggio San Michele, dove i pizzichini evolvono in cazzotti.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/cronache/2016/07/26/legalizzazione-droghe-leggere-cannabis___1-v-144823-rubriche_c393.htm
Abbiamo un problema mostruoso con le droghe. Nel 2014 la Direzione Nazionale Antimafia rileva un mercato di cannabis da 200 dosi/anno per italiano (compresi vecchi e bambini) e ammette “il totale fallimento dell’azione repressiva, nella letterale impossibilità di aumentare gli sforzi.” Per risolvere il problema, è stato presentato il ddl Cannabis Legale che non sembra un fulmine di guerra sotto nessun profilo (e non promette bene l’appoggio di deputati e senatori che diedero luce verde a Stamina, “frode senza valore scientifico e abuso dei malati”, secondo Elena Cattaneo).
Qualche settimana fa sul Foglio Luca Bizzarri ha fatto due osservazioni incontestabili: il proibizionismo non funziona e la droga è diffusa perché il problema è la dipendenza – allineandosi in certo modo alla sapienza della Chiesa. Anche lei dice che l’uomo è fatto, anzi per esser precisi dice proprio che è strafatto, perché creatura: il suo essere è dipendenza pura (basta guardarsi vivere un paio d’istanti per sentirlo, e senza droghe né mistiche che stimolino esperienze extracorporee: solo osservando e riflettendo). Sì, la differenza c’è: per Bizzarri la dipendenza è la peggior nemica, per la Chiesa è la migliore amica – ma, viv’Iddio, almeno lui ci prova a guardare la nostra vitaccia e rileva il dato che la dipendenza c’è e agisce. S’è pensato che avesse ragione da vendere sulla diagnosi e torto marcio sulla terapia: il proibizionismo non serve, ergo legalizzare; la dipendenza ci costituisce, ergo ucciderla. La dipendenza è la persona, però, e legalizzare è inefficace almeno quanto proibire. Ma se tutte le opzioni falliscono, cosa funziona nella lotta alle droghe? Bizzarri toccala necessità: educare alla consapevolezza. Quindi, con un divino pizzichino di fiducia, s’è pensato che sarebbe bello scoprire come fanno le comunità di recupero che funzionano a trasformare la tossicodipendenza in beneficodipendenza. E, con un divino pizzichino di speranza, s’è pure pensato che si può vincere il mostro droghe se lo si affronta per quello che è: un problema educativo. Vasto programma? Vastissimo. Difficilissimo? Sì. “Ma… funziona?”. Funziona! Il 98,2 per cento di chi finisce i programmi PARS, per esempio, guarisce e non ricade. E così, con divini pizzichini su tutta l’anima, s’è preso un regionale a Roma e poi la corriera a Fabriano, risalendo l’Umbria e le Marche per arrivare in cima alla collina del Villaggio San Michele, dove i pizzichini evolvono in cazzotti.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/cronache/2016/07/26/legalizzazione-droghe-leggere-cannabis___1-v-144823-rubriche_c393.htm
NEVROSI HILLARY. Al pari del marito, Clinton ha in sé un’immensa volontà di potenza con una piccola punta masochista
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 27 luglio 2016
Trump è in testa nei più recenti sondaggi, il panico stringe la gola della popolazione europea, Putin gongola e i cinesi ridono, Giuliano scende in campo e proclama che per via della cialtronaggine di Trump gli tocca parteggiare per Hillary e diventare di sinistra dopo un terzo di secolo di destra. Inaspettato ma atteso tradimento che come al solito gli fa disonore vale a dire onore: tradire, tradere, fare un passo oltre, tramandare e consegnare, dire tra le righe di un discorso infinito, un gran bel dire con ire violente quanto saporose, le più recenti squisiti tajarin divorati in un batter d’occhio. Personalmente non avevo mai dubitato del controcanto, l’eleganza del comunismo italiano e del socialismo a un certo punto della vita attraggono l’uomo superiore e perfino – ma così, come viene – quello inferiore come il sottoscritto, capace di esecrare o lodare ogni bandiera a seconda della bellezza della fanciulla che la sventola.
Che Trump sia quel che è, pare del tutto assodato, solo che c’è un altrettanto accertato problema: la tosta intelligente Hillary è sciocca quanto il marito, anzi è il marito, e questo compromette la sua brillante carriera. Ricordiamo che Bill fu castrato per un’intera legislazione grazie a una mezza scopata con la stagista: aveva negato davanti a prove ineluttabili. Mai contrastare il puritanesimo quando c’è un popolo di kennediani pronto a chiudere dieci occhi su uno scopatore indefesso; Bill si tirò la zappa sui piedi per la sua negazione, manco fosse beccato dalla moglie in flagrante. Hillary l’ha seguito sulla stessa strada, non ha baciato stagiste – ma chissà, corrono voci, e che male ci sarebbe?
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/07/27/hillary-clinton-donald-trump-elezioni-americane___1-vr-144874-rubriche_c155.htm
VITTORIO AVANZINI: “ALTRO CHE MINACCIA PER L’EDITORIA, DOVREBBERO FARMI UN MONUMENTO”. Romano, nato il 24 agosto 1938, fondatore e attuale presidente della casa editrice Newton Compton, parla l’uomo che ha attraversato cinquant’anni di editoria italiana
di Antonio Gnoli, repubblica.it, 31 luglio 2016
l dottor Avanzini Vittorio veste in maniera inappuntabile. Ogni mio pensiero brutale arretra davanti a una rigida e innocente eleganza di altri tempi. Guardo le sue mani ben curate, il volto serenamente incastonato in un ovale di parole liete, che sembrano pettinate dalle mani di un barbiere, e penso a come quest’uomo sia uscito indenne dal darwinismo editoriale di questi anni. Avanzini parla del suo lavoro di editore. E lo fa con la scaltrezza tutta italiana di chi sa che se non puoi combattere i tuoi nemici fai in modo di adottarli, con benevolenza e umiltà: “Il vecchio Arnoldo Mondadori? Un grande self made man. Come il vecchio Rizzoli, del resto. Einaudi? Un signore, un principe rinascimentale. Peccato che un giorno fallì”, si guarda le unghie mentre misura le parole in quell’ufficione di via Panama dove ha sede la Newton Compton. I libri, tutti rigorosamente Newton sovrastano ogni spazio lasciando solo questa zattera di scrivania sulla quale mi aggrappo un po’ disperato. Perché sono qui? La cosa che mi incuriosisce, che mi ha spinto in questo angolo elegante di Roma è quel senso di fastidio che si prova ogni qualvolta si sente pronunciare la parola “Newton Compton”: “Ho vissuto da escluso, sono stato messo spesso ai margini da un mondo che riteneva che per fare l’editore si dovessero avere particolari natali, o un’eleganza mentale scesa direttamente dall’alto. Erano stupiti, i miei colleghi. Ma come? Anche lei del mestiere? E più segnavo un punto a mio favore più venivo visto come un pericolo, una minaccia per l’editoria, forse perfino l’esito di un dramma grottesco”.
È un bello sfogo. Si sente ancora un paria?
“No, anche se altri hanno provato a farmici sentire. Non ci sono riusciti. Vede? Questa stanza, a parte il budda tailandese, il divano su cui faccio sedere i miei collaboratori, questa scrivania dove lavoro, il resto sono i nostri libri. La nostra fortuna. Il nostro lavoro”.
Segue qui:
http://www.repubblica.it/cultura/2016/07/31/news/avanzini_vittorio_altro_che_minaccia_per_l_editoria_dovrebbero_farmi_un_monumento_-145139465/
Trump è in testa nei più recenti sondaggi, il panico stringe la gola della popolazione europea, Putin gongola e i cinesi ridono, Giuliano scende in campo e proclama che per via della cialtronaggine di Trump gli tocca parteggiare per Hillary e diventare di sinistra dopo un terzo di secolo di destra. Inaspettato ma atteso tradimento che come al solito gli fa disonore vale a dire onore: tradire, tradere, fare un passo oltre, tramandare e consegnare, dire tra le righe di un discorso infinito, un gran bel dire con ire violente quanto saporose, le più recenti squisiti tajarin divorati in un batter d’occhio. Personalmente non avevo mai dubitato del controcanto, l’eleganza del comunismo italiano e del socialismo a un certo punto della vita attraggono l’uomo superiore e perfino – ma così, come viene – quello inferiore come il sottoscritto, capace di esecrare o lodare ogni bandiera a seconda della bellezza della fanciulla che la sventola.
Che Trump sia quel che è, pare del tutto assodato, solo che c’è un altrettanto accertato problema: la tosta intelligente Hillary è sciocca quanto il marito, anzi è il marito, e questo compromette la sua brillante carriera. Ricordiamo che Bill fu castrato per un’intera legislazione grazie a una mezza scopata con la stagista: aveva negato davanti a prove ineluttabili. Mai contrastare il puritanesimo quando c’è un popolo di kennediani pronto a chiudere dieci occhi su uno scopatore indefesso; Bill si tirò la zappa sui piedi per la sua negazione, manco fosse beccato dalla moglie in flagrante. Hillary l’ha seguito sulla stessa strada, non ha baciato stagiste – ma chissà, corrono voci, e che male ci sarebbe?
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/07/27/hillary-clinton-donald-trump-elezioni-americane___1-vr-144874-rubriche_c155.htm
VITTORIO AVANZINI: “ALTRO CHE MINACCIA PER L’EDITORIA, DOVREBBERO FARMI UN MONUMENTO”. Romano, nato il 24 agosto 1938, fondatore e attuale presidente della casa editrice Newton Compton, parla l’uomo che ha attraversato cinquant’anni di editoria italiana
di Antonio Gnoli, repubblica.it, 31 luglio 2016
l dottor Avanzini Vittorio veste in maniera inappuntabile. Ogni mio pensiero brutale arretra davanti a una rigida e innocente eleganza di altri tempi. Guardo le sue mani ben curate, il volto serenamente incastonato in un ovale di parole liete, che sembrano pettinate dalle mani di un barbiere, e penso a come quest’uomo sia uscito indenne dal darwinismo editoriale di questi anni. Avanzini parla del suo lavoro di editore. E lo fa con la scaltrezza tutta italiana di chi sa che se non puoi combattere i tuoi nemici fai in modo di adottarli, con benevolenza e umiltà: “Il vecchio Arnoldo Mondadori? Un grande self made man. Come il vecchio Rizzoli, del resto. Einaudi? Un signore, un principe rinascimentale. Peccato che un giorno fallì”, si guarda le unghie mentre misura le parole in quell’ufficione di via Panama dove ha sede la Newton Compton. I libri, tutti rigorosamente Newton sovrastano ogni spazio lasciando solo questa zattera di scrivania sulla quale mi aggrappo un po’ disperato. Perché sono qui? La cosa che mi incuriosisce, che mi ha spinto in questo angolo elegante di Roma è quel senso di fastidio che si prova ogni qualvolta si sente pronunciare la parola “Newton Compton”: “Ho vissuto da escluso, sono stato messo spesso ai margini da un mondo che riteneva che per fare l’editore si dovessero avere particolari natali, o un’eleganza mentale scesa direttamente dall’alto. Erano stupiti, i miei colleghi. Ma come? Anche lei del mestiere? E più segnavo un punto a mio favore più venivo visto come un pericolo, una minaccia per l’editoria, forse perfino l’esito di un dramma grottesco”.
È un bello sfogo. Si sente ancora un paria?
“No, anche se altri hanno provato a farmici sentire. Non ci sono riusciti. Vede? Questa stanza, a parte il budda tailandese, il divano su cui faccio sedere i miei collaboratori, questa scrivania dove lavoro, il resto sono i nostri libri. La nostra fortuna. Il nostro lavoro”.
Segue qui:
http://www.repubblica.it/cultura/2016/07/31/news/avanzini_vittorio_altro_che_minaccia_per_l_editoria_dovrebbero_farmi_un_monumento_-145139465/
Audio
RECALCATI E ALTRI A RADIO 24 – DALLA PARTE DELLE DONNE
da radio24.ilsole24ore.com, 15 luglio 2016
Femminicidio. Nel 2015 sono state 128 le donne uccise in Italia, prevalentemente dal marito o dal compagno. I dati del primo semestre 2016 indicano un calo all’interno però di un fenomeno ancora spaventosamente diffuso. Le morti sono poi solo una parte del fenomeno: prima di arrivare di arrivare all’omicidio (facendo riferimento ai dati 2015) si registrano 6.945 atti persecutori a danno delle donne, 3.086 casi di volenza sessuale e ben 6.154 casi di percosse. Inoltre sempre nel 2015 si sono verificati 1.198 ammonimenti del Questore e 217 allontanamenti.
Di fronte a questi numeri e alle molte storie drammatiche portate alla luce dalla cronaca, le giornaliste di Radio 24 – Il Sole 24 Ore si sono messe al lavoro per raccontare le sfaccettature di un dramma italiano. Gli sviluppi temporali, la rete di aiuto e sostegno alle vittime, i meccanismi di riconoscimento, il ruolo dell’educazione, l’evoluzione della legge. Questi ed altri aspetti vengono affidati al dialogo tra le giornaliste di Radio 24 e gli specialisti, in un viaggio radiofonico che tra il 18 e il 30 luglio su Radio 24 e su radio24.it, vuole essere il nostro contributo alla comprensione e alla lotta contro la violenza sulle donne.
Interviste di
Maria Piera Ceci ad Alberto Pellai
Alessandra Tedesco ad Edoardo Albinati
Valeria De Rosa a Massimo Recalcati
Alessandra Schepisi a Stefano Ciccone
Teresa Trillò a Mario De Maglie
Cristina Carpinelli a Nadia Musciallini
Intervista della Redazione a Linda Laura Sabbadini
http://www.radio24.ilsole24ore.com/notizie/radio-parte-donne-112653-gSLAGQZurB
Video
Femminicidio. Nel 2015 sono state 128 le donne uccise in Italia, prevalentemente dal marito o dal compagno. I dati del primo semestre 2016 indicano un calo all’interno però di un fenomeno ancora spaventosamente diffuso. Le morti sono poi solo una parte del fenomeno: prima di arrivare di arrivare all’omicidio (facendo riferimento ai dati 2015) si registrano 6.945 atti persecutori a danno delle donne, 3.086 casi di volenza sessuale e ben 6.154 casi di percosse. Inoltre sempre nel 2015 si sono verificati 1.198 ammonimenti del Questore e 217 allontanamenti.
Di fronte a questi numeri e alle molte storie drammatiche portate alla luce dalla cronaca, le giornaliste di Radio 24 – Il Sole 24 Ore si sono messe al lavoro per raccontare le sfaccettature di un dramma italiano. Gli sviluppi temporali, la rete di aiuto e sostegno alle vittime, i meccanismi di riconoscimento, il ruolo dell’educazione, l’evoluzione della legge. Questi ed altri aspetti vengono affidati al dialogo tra le giornaliste di Radio 24 e gli specialisti, in un viaggio radiofonico che tra il 18 e il 30 luglio su Radio 24 e su radio24.it, vuole essere il nostro contributo alla comprensione e alla lotta contro la violenza sulle donne.
Interviste di
Maria Piera Ceci ad Alberto Pellai
Alessandra Tedesco ad Edoardo Albinati
Valeria De Rosa a Massimo Recalcati
Alessandra Schepisi a Stefano Ciccone
Teresa Trillò a Mario De Maglie
Cristina Carpinelli a Nadia Musciallini
Intervista della Redazione a Linda Laura Sabbadini
http://www.radio24.ilsole24ore.com/notizie/radio-parte-donne-112653-gSLAGQZurB
Video
MONACO, MASSIMO AMMANITI: “UN ADOLESCENTE CHE SOGNAVA DI FARE L’EROE VENDICATORE”
da video.repubblica.it, intervista di Giulia Santerini, 23 luglio 2016
“Un adolescente bullizzato che aveva covato per anni l’odio contro chi sentiva come una minaccia alla sua identità” Così Massimo Ammaniti, psicopatologo dell’età evolutiva, inquadra Ali Sonboly, l’autore della strage di Monaco di Baviera. “Non è facile prevedere per i familiari – spiega Ammaniti – perché il mondo dei ragazzi è spesso nascosto”. La violenza della “vendetta” può essere nata per “contagio”: “I materiali che aveva conservato su altre stragi come quella in una scuola bavarese o a Utoya – continua l’esperto – dicono il desiderio onnipotente di ergersi a eroe giustiziere”.
Vai al link:
http://video.repubblica.it/dossier/terrore-a-monaco/monaco-massimo-ammaniti-un-adolescente-che-sognava-di-fare-l-eroe-vendicatore/247330/247444?ref=HREV-1
(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com)
“Un adolescente bullizzato che aveva covato per anni l’odio contro chi sentiva come una minaccia alla sua identità” Così Massimo Ammaniti, psicopatologo dell’età evolutiva, inquadra Ali Sonboly, l’autore della strage di Monaco di Baviera. “Non è facile prevedere per i familiari – spiega Ammaniti – perché il mondo dei ragazzi è spesso nascosto”. La violenza della “vendetta” può essere nata per “contagio”: “I materiali che aveva conservato su altre stragi come quella in una scuola bavarese o a Utoya – continua l’esperto – dicono il desiderio onnipotente di ergersi a eroe giustiziere”.
Vai al link:
http://video.repubblica.it/dossier/terrore-a-monaco/monaco-massimo-ammaniti-un-adolescente-che-sognava-di-fare-l-eroe-vendicatore/247330/247444?ref=HREV-1
(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com)
0 commenti