Alla macchina da presa si nasconde Freud
di Pietro Lanzara, corriere.it, 1 maggio 2013
Psicoanalisi e cinema nascono gemelli. Nella primavera 1895 a Vienna furono pubblicati gli Studi sull’isteria e a Parigi i fratelli Lumière girarono il primo film. Ma Freud non amava le commistioni. Nel ’26, rifiutò di fornire al regista austriaco Georg Wilhelm Pabst una consulenza per il film Il mistero di un’anima e rimproverò gli allievi Karl Abraham e Hans Sacks per avere collaborato all’impresa. Inoltre, respinse i centomila dollari che gli offriva il produttore Samuel Goodwin per scrivere un copione sulle più celebri storie d’amore, iniziando da Antonio e Cleopatra. Hollywood si è poi rifatta attingendo largamente al mondo dell’inconscio. A Freud ha dato il volto e il fascino di Mongomery Clift in Passioni segrete (’62) di John Huston, nato da un monumentale soggetto di Jean-Paul Sartre. Oggi arriva nelle sale il thriller Effetti collaterali di Steven Soderbergh, dove Jude Law è uno psichiatra e Rooney Mara la sua paziente nei guai. Intanto Sky propone in tv le puntate di In Treatment, con Sergio Castellitto psicoterapeuta, il remake di una serie americana a sua volta ispirata al format israeliano Be Tipul.
Cinema e psicoanalisi è il tema della rassegna che si apre stasera all’Alphaville (via del Pigneto 283, fino a domenica, ore 21) con Spider (2002), tratto da un romanzo di Patrick McGrath e diretto da David Cronenberg, regista anche del recente A dangerous method (2001) sui rapporti fra Freud e Jung: nella Londra anni Cinquanta Ralph Fiennes è uno schizofrenico che rivive un’infanzia segnata da tragedie familiari e delitti. Una rarità è Il corridoio della paura (’63) di Samuel Fuller, citato e ripreso da Bernardo Bertolucci in The Dreamers: per risolvere un caso di omicidio, un giornalista si fa ricoverare sotto falso nome in manicomio ma finirà preda della follia. In un ospedale psichiatrico si svolge anche Qualcuno volò sul nido del cuculo (’75) di Milos Forman, cinque premi Oscar: Jack Nicholson è il paziente ribelle; Louise Fletcher l’infermiera autoritaria e disumana, votata in un referendum come il quinto più cattivo personaggio nella storia del cinema. La comicità è affidata agli aforismi di Woody Allen in Io e Annie (’77), la satira ai graffi di Robert Altman in Terapia di gruppo (’87) con Tom Conti e Glenda Jackson colleghi psichiatri che s’incontrano in un ufficio vuoto per rapide pause di sesso. Di Ingmar Bergman si vedrà Persona (’66) con Liv Ullman attrice ridotta al mutismo e Bibi Andersson infermiera: si dissolveranno, su un’isola deserta, l’una nell’altra. Di Alfred Hitchcock, maestro del perturbante, sarà proiettato Io ti salverò (’45) con le immagini oniriche firmate da Salvador Dalì: Ingrid Bergman è l’analista angelo custode che salva Gregory Peck sospettato di omicidio.
Al contrario di Freud, Jacques Lacan amava il cinema. Non ci andava per distrarsi ma per studiarne la struttura, il linguaggio. Aveva sposato Sylvia Maklès, già moglie di Georges Bataille, la bella e brava attrice della Gita in campagna (’36) di Jean Renoir, da un racconto di Maupassant: è la ragazza che un giovane canottiere conduce in barca a un magico isolotto e che, al canto dell’usignuolo, cede alla seduzione. La memorabile scena del bacio, sospeso nel temporale estivo, ricorda il lacaniano desiderio dell’Altro: «L’amore è donare qualcosa che non si ha a qualcuno che non lo vuole».
http://archiviostorico.corriere.it/2013/maggio/01/Alla_macchina_presa_nasconde_Freud_co_0_20130501_de0c7cc2-b226-11e2-a676-0c36fc35808a.shtml
Fuoco e fragore divennero buona novella. Una psicanalista e un teologo davanti al giudizio ultimo
di Sylvie Barnay, osservatoreromano.va, 5 maggio 2013
Marie Balmary, psicanalista, e Daniel Marguerat, teologo, figurano tra i migliori esperti nei loro rispettivi ambiti. Il loro interrogativo comune sul Giudizio finale è all’origine di un libro appassionante dal titolo musicale Nous irons tous au paradis. Le Jugement dernier en question (Parigi, Albin Michel, 2012). Finalmente un dibattito chiaro.
Niente provocazione teologica né gergo psicanalitico. Gli autori invitano i lettori a camminare insieme. Così, man mano che scrivono, le loro parole aprono in noi un cammino. È un merito così raro della scrittura il saper rendere viaggiatori. Veniamo infatti trasportati in un corpo a corpo con la parola biblica che ha come compito quello di raccontare l’incontro tra gli uomini e il loro cielo. Marie Balmary e Daniel Marguerat, il cui mestiere — l’una in un ascolto analitico, l’altro in un ascolto esegetico — è di far risuonare il senso delle parole, cominciano chiedendo: «Perché preoccuparsi ancora per ciò che assomiglia a un rottame arrugginito?». E di fatto ricordano fino a che punto noi continuiamo a essere un tutt’uno con le rappresentazioni medievali del Giudizio finale e con la loro «retorica del terrore». Questa visione della storia, in cui gli eletti vanno in paradiso e i dannati all’inferno, è stata propria di un’epoca dominata dalla paura. D’altro canto il Rinascimento ribatterà con tranquilla audacia al medioevo che l’uomo sarà salvato malgrado tutte le sue debolezze. Ma la prospettiva terrificante dei dannati che arrostiscono all’inferno continuerà ad assillare le coscienze secolarizzandosi persino nella letteratura fantastica del XXI secolo. È allora con tranquilla audacia che i nostri due compagni di cammino interrogano le scritture per ascoltare con noi la parola biblica. Se l’esegeta e la psicanalista, nell’esaminare i testi evangelici, entrano in un dibattito profondo, testimoniano soprattutto la fecondità del metodo transdisciplinare. Vivamente richiesto dalla Pontificia Commissione Biblica del 1993, l’approccio psicanalitico è rimasto troppo spesso confinato nelle teorizzazioni degli esperti. D’altro canto la Bibbia non ha più trovato le parole per esprimersi nella lingua di Freud e di Lacan, quando non è stata semplicemente ignorata, anzi esclusa. Senza confusione né separazione, Marie Balmary e Daniel Marguerat testimoniano che un vero rinnovamento della parola può nascere da questo incontro. Questo libro contiene anche una sfida: creare senso con il linguaggio. Ci riesce brillantemente, in questa inedita alleanza tra esegesi e psicanalisi. O meglio, ci riesce a questa condizione.
http://www.osservatoreromano.va/portal/dt?JSPTabContainer.setSelected=JSPTabContainer%2FDetail&last=false=&path=/news/cultura/2013/103q13-Un-teologo-e-una-psicanalista-in-un-serrato.html&title=Fuoco%20e%20fragore%20%20divennero%20buona%20novella&locale=it
“La filosofia cura per sempre. Tutto il resto è un palliativo”. Il guru della consulenza speculativa spiega come utilizzare in chiave terapeutica le idee dei grandi pensatori. A partire dai big orientali come Buddha e Confucio di Laura Cervellione, ilgiornale.it, 7 maggio 2013
Nelle sale dei convegni, nelle terze pagine, nei salotti mediatici, in Parlamento e adesso pure in farmacia. La filosofia è ovunque (meno male che era morta) e uno dei guru della sua rinascita in salsa pop è sicuramente Lou Marinoff, il principale promoter della consulenza filosofica che tutti ricorderanno per il megaseller globale Platone è meglio del Prozac.
Nell’epoca della morte di Dio, le anime in pena del Terzo Millennio sono alla costante ricerca di religioni alternative, look alternativi, culture alternative, farmaci alternativi, e anche la filosofia s’è ficcata nel piatto ricco, rituffandosi nel suo grande grembo orientaleggiante e infinitamente curativo. Eppure Proxac, Xanax&Co. possono alleviarci dal mal di vivere, mentre che garanzie abbiamo che il Tao faccia lo stesso effetto? Per capire va chiesta consulenza al superconsulente stesso, il filosofo-strizzacervelli docente al City College di New York e presidente dell’associazione americana dei terapisti. Domandandogli lumi sul suo ultimo libro, o meglio bugiardino: Prenderla con filosofia (Piemme).
Lou Marinoff, le pagine del suo libro sono zeppe di Tao, I Ching, Yin e Yang, Yoga, Lao Tzu. Passi che Platone possa essere meglio del Prozac. Ma perché il Tao dovrebbe essere meglio di Platone? «Apprezzare il Tao e la filosofia asiatica non significa rigettare Platone e il pensiero occidentale. Quando Raffaello finì il suo capolavoro La scuola di Atene nel 1510 vi ritrasse i maggiori filosofi dell’antichità a lui noti. Compreso Zoroastro. Ma soltanto perché la sua conoscenza era limitata alla Persia. Se tornasse in vita oggi e dipingesse il sequel del quadro, sicuramente v’includerebbe Lao Tzu, Confucio e Shakyamuni Buddha, contemporanei (suppergiù) di Socrate e fondatori delle grandi tradizioni filosofiche globali. Non dobbiamo rigettare i diamanti per apprezzare gli smeraldi».
Domanda «culturalmente scorretta»: il pensiero filosofico occidentale non è un tantino più smaliziato rispetto a quello orientale?
«L’Occidente sicuramente s’è distinto con traguardi senza precedenti in matematica, scienza e tecnologia. Ciò nonostante, le più solide fondamenta filosofiche di molti di questi avanzamenti si sono scoperte essere asiatiche. Quando il fisico Robert Oppenheimer (padre del Progetto Manhattan) assistette alla prima detonazione nucleare ad Alamagordo, in New Mexico, si sentì spinto a citare non la mitologia greca (Prometeo che ruba il fuoco agli dèi), ma la filosofia indiana: il dio Krishna che dichiara al guerriero Arjuna: Ora sono diventato morte, il distruttore di mondi, nel Bhagavad Gita».
Questione di mode, pure la parola «nirvana» è più glamour della greca «ataraxia». Ma anche di prospettive: l’ottica orientalista difatti non finisce per svigorire troppo l’individuo?
«La maggiore causa della sofferenza psicologica occidentale è il mito dell’ego in salute. L’ego è un mostro, e diventa più mostruoso a ogni gratificazione. I nostri stati mentali più infelici e distruttivi, come la rabbia, l’arroganza e l’invidia, sono tutti prodotti dell’ego infiammato. Ma quando l’ego si dissolve, emerge la serenità. Stoicismo, Tao e buddismo insegnano pratiche efficaci per manifestare il potenziale di ognuno. Potenziale che alberga nel centro del nostro essere, che non è mai nell’ego. Essere centrati non è una perdita di qualcosa, al contrario: è il massimo del guadagno personale».
Questo «centro di noi stessi» è anche in grado di preservarci dai malanni fisici? E come si raggiunge: parlando con lo psicologo o il consulente filosofico?
«Filosofia e psicologia non sono rimedi a malattie di radice biologica (virus, batteri, geni). Ma dialogare anche solo con un barista o un tassista può far sentire meglio le persone, e non necessariamente per effetto placebo. Quando due menti interagiscono subiscono una trasformazione in virtù di quella risonanza. Il dialogo può potenziare certi aspetti del nostro sistema operazionale cognitivo e aiutare il cambiamento della nostra vita».
Come funziona la seduta di consulenza filosofica? E quanto costa?
«Ogni cliente è diverso, così cambia anche ogni sessione. Non c’è una singola teoria o metodo unitario che esaurisce la pratica filosofica. Idem per i costi: io sono specializzato in terapie a breve termine, durano settimane o al massimo mesi. Invece, la psicanalisi sembra durare eternamente. Un amico psicanalista una volta mi fece questa battuta: la psicanalisi è un business in cui il cliente ha sempre torto. La faccenda può diventare costosa!».
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/filosofia-cura-sempre-tutto-resto-palliativo-914723.html
L’analisi non merita questo trattamento: il commento
di Claudio Risé, ilgiornale.it, 7 maggio 2013
Lou Marinoff è un ottimo venditore. Però leggermente incoerente. Vero, infatti, che in fatto di benessere è meglio utilizzare tutte le risorse del mercato: non soltanto le medicine, ma anche la filosofia. E magari non soltanto la filosofia occidentale, ma anche quella orientale. (Poi sarà il caso di non limitarsi a integrare unicamente queste due forme di pensiero, ma anche quelle del nord e del sud del mondo, che pure esistono e hanno il loro significato: vivere ai Tropici pensando come se si fosse a Londra non ci aiuterebbe certo a stare bene). Integrare i diversi saperi, «meticciare» le conoscenze, è prima di tutto indice di buon senso. Allora, però «la filosofia sì, e la psicoanalisi no», sembra lo slogan di un venditore prepotente. Personalmente, se qualcuno mi chiede di entrare in analisi «per interesse culturale», gli consiglio di iscriversi, per esempio, a una buona facoltà di Filosofia. La psicoanalisi, infatti, non fa per lui. L’analisi chiede sofferenza, dolore, smarrimento, nel corpo e nel cuore prima che nella testa. Non discorsi e argomentazioni logiche, bensì immagini profonde come quelle dei sogni, che spesso non si riescono neppure a descrivere. D’altra parte, per un analista che accompagna il paziente nel proprio caos, conoscere la storia del pensiero può essere utile. Però, come ripeteva Carl Gustav Jung, mai dire o/o, ma sempre e/e. Quindi non: o analisi o filosofia ma, possibilmente, entrambe, l’una e l’altra. A meno di voler essere l’unico a vendere. Non sarebbe utile. Né elegante.
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/lanalisi-non-merita-questo-trattamento-commento-2-914721.html
La psicoanalisi decade insieme al divano di Freud
di Elisabetta Grandi, lettera43.it, 7 maggio 2013
Difficilmente Sigmund Freud avrebbe potuto immaginare che le sedute di psicoanalisi sarebbero diventate in futuro, materiale per la sceneggiatura di una serie televisiva americana di successo, intitolata In treatment. Ma neppure il mio analista, un secolo più tardi, avrebbe mai ipotizzato una tale nemesi. Forse, il divano che sta cadendo a pezzi presso il Freud Museum di Londra, e per il quale viene richiesta una donazione che paghi l’intervento di un bravo tappezziere, è l’emblema stesso del decadimento di una disciplina che nel suo farsi spettacolo mostra di avere smarrito la propria essenza.
Nello studio del mio analista non c’era il divano. In compenso c’era un grande arazzo orientale che occupava un’intera parete. Vi erano ricamati disegni mandalici e segni di una scrittura arabesca, indecifrabile, che stagliava le sue figure spiralate e curve su un fondo che doveva esser stato in origine di color rosso vivo ed era diventato col tempo impolverato e smunto. Nel corso degli anni, aveva ascoltato i racconti e i sogni di una tale moltitudine di persone da guadagnarsi il ruolo di compagno di lavoro e di memoria accessoria dello psicoanalista. Il quale giurava che non l’avrebbe mai affidato a una tintoria per farne rimuovere, in una mezz’ora di lavaggio a secco, le storie drammatiche di cui i suoi fili erano impregnati.
Quasi tutti i pazienti lo notavano e molti lo trovavano bello. Quando qualcuno esprimeva il suo apprezzamento per l’arazzo, specialmente nelle fasi iniziali dell’analisi, l’analista lo prendeva come un buon segno: il transfert è un processo tanto naturale quanto tortuoso, che può prendere le forme più inaspettate, compresa la forma di un arazzo. Figuriamoci un divano. E proprio quel divano, dove si abbandonavano pazienti del bel mondo fin de siècle, affidandosi a un medico ebreo che li accompagnava in un tipo di viaggio mai compiuto prima, dentro l’inconscio e i suoi tranelli, cercando insieme una via di liberazione dall’ansia e dall’infelicità.
La psicoanalisi è stata nel corso del tempo ricerca, avventura del pensiero, temerarietà scientifica, speculazione intellettuale, terapia, trasgressione e moda, ma anche tentativo di operare una rivoluzione incruenta, che sarebbe passata non per le barricate, ma per i lettini di studi in penombra, da cui gli esseri umani sarebbero usciti più liberi e autentici, uomini e donne nuovi, capaci di migliorare il mondo.
Senza psicoanalisi non ci sarebbero grandi scrittori, come Philip Roth, il cui primo romanzo di grande successo, Il lamento di Portnoy, non è che un lungo monologo davanti al proprio analista muto. Non ci sarebbe tutto il cinema di Woody Allen, infinita commedia sulla nevrosi del desiderio. Non ci sarebbe, in breve, l’arte stessa del Novecento, in tutte le sue forme.
Adesso, mentre il divano del dottor Freud si va disfacendo in una casa londinese, la psicoanalisi si guarda in tv, mentre tutti noi affidiamo ai social media, racconti, mappe esistenziali, fotografie, pensieri e fantasie, gettandoli nella centrifuga del web che tutto digerisce. Nessun arazzo più, al quale volgere lo sguardo smarrito, mentre l’analista ti chiedeva “ma lei, cosa desidera veramente?”, e ancora non sapremmo rispondergli.
http://candidcamera.blog.lettera43.it/2013/05/07/la-psicoanalisi-decade-insieme-al-divano-di-freud/
Nella società attuale c’è troppo scientismo. La psicoanalisi glamour come via d’uscita
di Maria Carla Rota, affaritaliani.it, 8 maggio 2013
I resti sintomatici sono ciò che rimane al termine di un percorso di psicoanalisi, che non elimina del tutto il sintomo. È piuttosto un processo di trasformazione che rende un ostacolo un elemento propulsivo. Per il singolo, ma anche per la società. La psicoanalisi proprio oggi può essere un’alternativa allo scientismo imperante. Perché non tutto si rivolve con un’equazione matematica. C’è qualcosa di più nelle nostre vite, un lato glamour che non è quantificabile… Sono questi i temi del convegno I resti sintomatici. La psicoanalisi di fronte all’al di là del terapeutico, organizzato a Milano il prossimo 11 e 12 maggio. Ad anticiparli ad Affaritaliani.it è Marco Focchi, psicoanalista e psicoterapeuta, membro del comitato scientifico organizzatore, presidente dal 2008 al 2011 della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi e direttore dell’Istituto freudiano per la clinica, la terapia e la scienza di Milano. Ha scritto diversi libri (tra cui Il glamour della psicoanalisi) e tiene periodicamente conferenze e seminari in Italia e all’estero.
Innanzitutto che cos’è il sintomo in psicoanalisi?
“Bisogna distinguere tra il sintomo in medicina e in psicoanalisi, perché c’è una concezione diversa. Nel primo caso viene considerato una fonte di sofferenza da eliminare totalmente per tornare a una situazione di benessere precedente. Una “normalità” pre-esistente che invece non esiste in psicoanalisi. Il trauma è in questo caso un elemento strutturale e il sintomo è già un primo tentativo di guarigione, per riprendere la definizione che ne dava Freud. Il sintomo in psicoanalisi non è qualcosa di disfunzionale, al contrario: l’obiettivo è far ritrovare al soggetto quella funzionalità che è stata smarrita. I resti sintomatici, in questo senso, sono come gli “avanzi da cucinare”: con gli “avanzi della nevrosi” si può fare qualcosa”.
Un processo di accettazione?
“Non proprio. L’accettazione sembra una rassegnazione. Qui invece c’è un processo di trasformazione, da ostacolo a elemento di propulsione. Bisogna separare il sintomo dalla sofferenza per riutilizzare in modo attivo ciò che prima era fonte di dolore”.
Perché la decisione di evidenziare proprio ora il tema dei resti sintomatici?
“Viviamo in un’epoca dominata dallo scientismo, ovvero la tendenza ad applicare il metodo scientifico ad ogni campo come se così, con un intervento tecnico, si potesse risolvere tutto. Una pillola o una procedura vengono presentate come chiavi di ogni processo in una logica soluzione-risposta. Ma tutto questo è falsante. Qui si tratta di fare una traversata di se stessi per ritrovare e rielaborare soluzioni proprie. Bisogna mostrare l’utilità di un aspetto sintomatico che non è solo malattia, come hanno già fatto in passato Proust piuttosto che Virginia Woolf o Nietzsche, che vedeva la malattia come via elettiva alla salute”.
La psicoanalisi può aiutare anche la società oltre al singolo?
“Assolutamente sì. La nostra prospettiva è sempre stata rivolta verso un impegno sociale. Basta con le torri d’avorio, facciamo entrare la psicoanalisi nella società E’ un metodo fortemente esportabile, dalla scuola ai temi di salute pubblica, proprio perché ha un risvolto socio-politico”.
La psicoanalisi è… glamour?
“Glamour è un termine che ha ricevuto nobiltà letteraria con Walter Scott, che ha ripreso un’antica parola scozzese: indica un incantesimo che fa apparire le cose più belle di quanto siano. In questo senso mette in gioco la credenza e sfugge allo scientismo. Il glamour non si può ricondurre alla certezza di un calcolo matematico. Quando ci innamoriamo, il glamour rende l’altro unico ai nostri occhi. Ma questo non è un inganno. C’è una sopravvalutazione erotica del partner, che non è però un errore di valutazione, ma è qualcosa che va al di là dei normali scambi tra persone. In questo glamour la cui luce avvolge la persona amata c’è qualcosa di più, che non è quantificabile. E così accade anche a livello di società. Una volta c’erano i nobili, gli stemmi, i blasoni, gli arcana impèrii che avvolgevano solo alcune classi privilegiate. Oggi il glamour si è democratizzato”.
http://www.affaritaliani.it/culturaspettacoli/focchi.html
Video: Sigmund Freud e la rivoluzione della psicoanalisi
di Redazione, raistoria.rai.it, 6 maggio 2013
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