Di Francesca Savian, operatrice IESA
Psichiatria. Dal greco ψυχή, anima, e ἰατρεία, cura. Dottrina che si propone lo scopo d’indagare le malattie che affliggono lo spirito umano. Forse è uno dei termini più connessi al campo semantico della diversità, dell’assistenzialità e della criminalità. La malattia mentale rimanda immediatamente a persone che non hanno alcuna abilità, che non sono in grado di assumersi responsabilità e che necessitano di assistenza 24 ore su 24. Sembra impossibile credere che esistano, invece, persone con diagnosi di disturbo mentale che hanno anche un lavoro, in possesso di patente di guida, in grado di gestire autonomamente la propria casa. Il paziente psichiatrico è per definizione un soggetto che deve essere controllato in quanto pericoloso per sé e/o per gli altri, privilegiato, poiché destinatario di risorse economiche anche in assenza di un’occupazione e in quanto supportato costantemente da operatori, che si sostituiscono a lui in tutto e per tutto. Si tratta di una concezione ancora fortemente legata all’epoca delle strutture manicomiali, che rinforzavano questa visione, incentivando la malattia stessa e originando quel meccanismo per il quale tali patologie erano sinonimo di invalidità umana e impotenza. Da tale epoca si sono compiuti numerosi passi in avanti, fino alla realizzazione di un effettivo cambiamento, che ha portato alla nascita di servizi territoriali e ad una gestione tutta nuova di quei soggetti per cui prima vi era come unica possibilità la custodia in strutture istituzionali. Oggi l’organizzazione dei servizi mette a disposizione diverse soluzioni e percorsi di cura e riabilitazione che, tuttavia, rimangono sconosciute alla maggior parte della popolazione non direttamente coinvolta. Non è conosciuta la possibilità per i pazienti di continuare ad abitare nel proprio domicilio seppur con il supporto di operatori della salute mentale; non è conosciuta la possibilità di convivenze supportate tra utenti; per quanto concerne la cultura dell’accoglienza così come realizzata attraverso il Servizio IESA, vi è ancora minor diffusione. C’è, tuttavia, un termine che sembra essere molto più accessibile e alla portata di tutti: comunità. È vero che, spesso, anche in questo caso, ad essere maggiormente diffusa è una connotazione parzialmente errata, poiché la popolazione tende a riferirsi alle comunità per tossicodipendenti, con la pittoresca immagine del gruppo riunito in cerchio che si scambia confessioni e si dà appuntamento alla settimana successiva senza aver risolto granché. Ma esiste anche l’idea di comunità quale “manicomio in miniatura”, in cui i pazienti psichiatrici “pericolosi” alloggiano per un tempo anche illimitato, e all’interno delle quali gli operatori si occupano semplicemente di monitorarli, dall’assunzione di terapia farmacologica agli accompagnamenti a gite di sollievo.
Se la rivoluzione è davvero avvenuta in salute mentale, quindi, nessuno sembra essersene accorto, ad eccezione di chi è a diretto contatto con questa realtà. La popolazione, elemento che può davvero fare la differenza nella cura degli utenti, è all’oscuro di quasi tutto. La concezione di istituzionalizzazione del paziente psichiatrico è talmente radicata che gli obiettivi di coinvolgimento della popolazione in quanto volontari, come previsto del Servizio IESA, sono talvolta interpretati come oscuri tentativi di delegare il lavoro degli operatori ad altri, poiché non viene presa in considerazione la necessità di un reinserimento nella società di queste persone.
Nessuna vera rivoluzione può avere luogo in assenza del coinvolgimento di tutti nella lotta allo stigma. In 40 anni il suo spettro si è affievolito solo in qualche mente illuminata, mentre in altre permane, talvolta in compagnia di paura, odio o indifferenza. La diffusione di una cultura più aperta potrebbe migliorare le cose, ma tale progetto non è sostenibile da un unico servizio nel mezzo del Piemonte. Deve essere appoggiato e perseguito ai sensi di un obiettivo comune di solidarietà e di superamento della concezione di diverso, termine che può essere inteso anche in senso lato.
Ma perché è così importante il coinvolgimento della società nei percorsi di cura dei pazienti psichiatrici? Come detto in precedenza, l’istituzione manicomiale, con la sua organizzazione e il suo mandato di custodia, incentivava le malattie mentali, che tendevano a peggiorare e aggravarsi durante i ricoveri. Questo perché l’ambiente presso cui è inserito un utente influenza la cura, determinando una remissione dei sintomi ovvero una loro recrudescenza. L’influenza dei fattori ambientali, di cui fa parte anche il contesto sociale, è comune all’esperienza di ognuno. L’esempio più semplice è quello della relazione madre-bambino, la quale condiziona le modalità con cui il giovane essere umano si rapporterà con il prossimo una volta cresciuto. Un altro caso in cui è evidente l’impatto che l’ambiente e la società hanno su ognuno è il fenomeno della profezia che si auto avvera in ambito scolastico, secondo il quale gli insegnanti tendono a pregiudicare i propri alunni, i quali saranno inevitabilmente condizionati da quelle prospettive. “Se uno si sente ripetere all’infinito che è un mascalzone alla fine lo diventa per davvero”, citazione di un datato cartone animato per bambini, potrebbe essere un corretto riassunto di ciò che avviene anche nel caso del percorso clinico di un paziente in carico ai servizi di salute mentale, poiché, in assenza di un cambiamento di prospettive generali, le difficoltà alle quali vanno incontro queste persone restano pressoché invariate dai tempi dell’istituzionalizzazione totale.
Il cambio di prospettiva è uno degli obiettivi corollari del Servizio IESA ASLTO3, presso il quale ho cominciato un periodo di formazione volontaria al termine del mio percorso di studi accademici. Non si tratta di una scelta facile poiché mi porta quasi quotidianamente a 70 km da casa, ad affrontare viaggi e spese impegnative. L’impegno preso è legato alla necessità di combattere ciò che ritengo di non aver ancora completamente sconfitto in tre anni di università. Perché anche gli operatori della salute mentale per almeno un periodo della propria formazione si sono confrontati con la paura del paziente psichiatrico, proprio perché questa è l’idea maggiormente diffusa nella società. Il mio primo giorno di tirocinio di tre anni fa è stato caratterizzato da questi sentimenti, accolti con angoscia e senso di colpa. Da allora, ho affrontato situazioni diverse, a volte anche molto complesse, in un percorso di crescita personale e professionale. Il Servizio IESA, a mio avviso, mette a diretto contatto gli operatori con il proprio stigma, qualora ancora latente, poiché ci pone di fronte alla rilevante questione dell’accoglienza dell’utente presso la nostra quotidianità. Saremmo disposti noi in prima persona a diventare volontari IESA? La risposta positiva o negativa a tale quesito può metterci in comunicazione con una parte di cui non abbiamo coscienza, una parte magari ancora confusa e titubante in merito i nostri vissuti con la malattia mentale. Ciò che mi ha spinta, quattro mesi fa, a scegliere questo percorso non è solo la prospettiva di un’occupazione futura o di un attestato per il curriculum, quanto più la necessità di comprendere più a fondo la mia predisposizione. Ad oggi, la risposta è assolutamente affermativa, poiché credo fermamente in ciò che l’inclusione può portare ad una persona sofferente, non solo perché esistono dati scientifici a supporto di tale tesi, ma perché ho potuto toccare con mano, sebbene per un tempo ancora estremamente limitato, la differenza del livello di benessere degli utenti inseriti in famiglia IESA rispetto agli utenti inseriti nei servizi residenziali presso cui si è concentrata la mia esperienza di tirocinante durante i tre anni di formazione accademica. Alcuni utenti, ad esempio, hanno acquisito abilità, scordate o mai possedute. È il caso di una signora, ex paziente del manicomio di Collegno, a cui non era mai stato insegnato a scrivere, la quale è stata coinvolta dalle giovanissime nipoti della caregiver in attività di scrittura attraverso cui ha imparato a scrivere il proprio nome e, dunque, ad affermare la propria volontà nero su bianco. Le riacquisizioni di capacità in un contesto familiare assumono tutto un altro significato rispetto agli interventi che possono essere messi in atto dagli operatori della salute mentale, poiché alla sua origine non vi è un intento prettamente educativo, quanto piuttosto un desiderio sincero di aiutare una persona di famiglia in difficoltà. Un altro esempio che può sembrare banale è legato al tabagismo. Una sigaretta per molti pazienti non è semplicemente una sigaretta. Si tratta, spesso, di un vero e proprio strumento utilizzato per colmare un vuoto affettivo e occupazionale. L’istituzione manicomiale era un luogo all’interno del quale tale strumento poteva addirittura trasformarsi in moneta di scambio e dove l’atto del fumarsi una sigaretta scandiva le ore della giornata. Sono realtà ancora esistenti in alcuni contesti residenziali, in cui il fantasma dell’istituzionalizzazione è dietro l’angolo. Ho sempre considerato impossibile che un utente inserito per decine di anni in un ospedale psichiatrico potesse smettere di fumare. Eppure, la storia dello IESA insegna che ben tre pazienti della Certosa Reale di Collegno abbiano eliminato completamente, o quasi, questa spesa, qualche anno dopo il loro inserimento in famiglie di volontari. Forse il vuoto che erano abituati a percepire è stato colmato dall’affetto e dalla presenza di persone a loro attente?
Il punto di forza del Servizio IESA, infatti, è quello di garantire un contatto diretto tra una persona in difficoltà e un’altra, in grado di fornire un supporto dedicato, molto distante dal rapporto tra un numero limitato di operatori e un numero sempre maggiore di utenti. Parole d’ordine sono condivisione e inclusione in un ambiente familiare. Fare parte di una famiglia IESA è accogliere gli ospiti al posto dei proprietari di casa; è guardare fuori dalla finestra, mentre si attende il ritorno di alcuni membri, usciti per alcune rapide commissioni; è occuparsi e affezionarsi agli animali domestici, che, spesso, si accomodano sulle gambe delle persone ospiti durante una nostra visita.
Si tratta di fotografie di attimi estremamente semplici e ordinari per le persone considerate normali, da cui, invece, tendono ad essere esclusi gli utenti dei servizi di salute mentale. Il Servizio IESA si propone di diffondere una cultura nuova, all’interno della quale occuparsi di una persona significa prendersi cura, garantendo la possibilità di autodeterminarsi e il sostegno affettivo che, spesso, viene loro negato.
Un progetto di convivenza con un utente non cambia solo le sue prospettive, ma modifica anche i vissuti delle famiglie ospitanti. Il sostegno affettivo di cui si è accennato è indubbiamente positivo per persone abituate al supporto più professionale degli operatori. Di fatto, esso comporta anche un cambiamento nei volontari, che si mettono in gioco in maniera completamente nuova. L’esperienza di volontario IESA, a mio avviso, arricchisce enormemente da un punto di vista umano e relazionale. Talvolta si sono creati legami che continuano nonostante la chiusura di un progetto; talvolta hanno originato convivenze che durano da oltre dieci anni; talvolta hanno portato a investimenti emotivi molto profondi, finanche alle tensioni o a momenti di difficoltà causati dall’apprensione per le persone ospiti.
Un episodio è stato per me particolarmente rilevante in questo senso. Spesso la necessità di un progetto origina dai cattivi rapporti che l’utente ha con la propria famiglia biologica. Nel caso particolare di Marta, ospite da Anna e Giorgio, le sorelle dell’utente sono particolarmente restie a mantenere rapporti costanti. Durante uno dei loro rarissimi incontri, le signore hanno manifestato verbalmente un’insofferenza ai continui tentativi di Marta di comunicare telefonicamente con loro, in presenza della signora stessa e della famiglia ospitante. I volontari hanno manifestato una chiara volontà di protezione di Marta, ma anche un’evidente sofferenza ai commenti negativi delle sorelle dell’utente. Questo brevissimo aneddoto è, per me, indice del fatto che un ospite non rimane ospite a lungo, ma diventa un affetto, un membro della famiglia. Non si tratta di sostituirsi ai parenti biologici, quanto più di includere nel proprio mondo un’altra persona. Tale risultato non è scontato e dipende strettamente dalla predisposizione dei volontari, la cui apertura è fondamentale per la buona riuscita di un progetto.
Un ragionamento analogo può essere fatto, come accennato, sugli operatori, la cui propensione all’ascolto, all’empatia e al superamento dello stigma è indispensabile al proprio lavoro. Essere messa a diretto contatto con le esperienze e le emozioni dei volontari mi ha permesso di confrontarmi con i miei limiti, in un’ottica di miglioramento. Probabilmente, proprio in virtù della mia stessa esperienza, auspico una maggiore diffusione di tale concezione, dell’informazione in merito la malattia mentale e l’organizzazione dei servizi alla società, al fine di rendere le persone più consapevoli e di farle uscire dal guscio protettivo dell’indifferenza.
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