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Marco Levi Bianchini considerazioni sugli africani

11 Mag 13

A cura di Luigi Benevelli

Tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo, negli imperi coloniali europei, lo studio e la cura dei disturbi mentali degli «indigeni», dei «nativi», quello che chiamiamo «psichiatria coloniale»,  ebbero  una rilevanza marginale in organizzazioni sanitarie impegnate principalmente nel contrasto alle malattie tropicali.
Gli psichiatri italiani che lavorarono in colonia si contano sulla punta delle dita di una mano e, anche nell’istituzione nel 1937 del Corpo sanitario dell’Africa Italiana,  non furono previsti psichiatri negli organici della sanità coloniale. La psichiatria italiana «metropolitana» ignorò di fatto la questione. I contributi e gli interventi italiani in tema di psichiatria coloniale furono scarsi qualitativamente e quantitativamente.
Nelle colonie italiane non c’erano ospedali o servizi specialistici psichiatrici e agli psichiatri furono affidati prevalenti compiti di ordine medico-legale (accertamento dell’idoneità, riconoscimento di cause di servizio, accertamento dell’imputabilità): il suddito africano sospetto folle, che di norma lavorava per l’amministrazione coloniale, specie come soldato mercenario, era inviato con un certificato medico e un’ordinanza di polizia alla Sezione d’Osservazione dell’Ospedale Coloniale da cui, se «manicomiabile» perché riconosciuto malato, era inviato negli ospedali psichiatrici metropolitani della Sicilia o della Campania. I folli “nazionali” invece, dopo l’osservazione, erano rimpatriati d’autorità.
Non tutte le colonie erano uguali: in Libia, ad esempio, il governatore Balbo progettò la messa in opera di infrastrutture e servizi civili (istruzione, sanità, trasporti) da mettere a disposizione delle famiglie di coloni italiani insediate sulla costa, degli arabi e delle importanti comunità ebraiche delle città. Qui, in  Tripolitania,  operò dal 1937 al 1943 il medico psichiatra Angelo Bravi (1911-1943); egli nel 1937pubblicò Frammenti di psichiatria coloniale e  il 1° luglio 1939 aprì il “manicomio per libici con annessa sezione criminale”.  L’esperienza e la elaborazione di Bravi furono del tutto singolari nel panorama degli psichiatri italiani del suo tempo.
Molte delle vicende della psichiatria coloniale italiana sono da inscrivere nel contesto di  culture etnocentriche e francamente razziste come quelle che ispirarono negli anni ’30 il Fascismo quando, anticipando il regime dell’apartheid,  introdusse nella legislazione norme discriminatorie  contro gli africani, prima di quelle contro gli ebrei.
 
Subito dopo le sconfitte militari  e la caduta dell’Africa Orientale Italiana e quella della Libia,  alcuni psichiatri italiani condussero attività di assistenza psichiatrica nei territori delle ex-colonie:  Mario Felici che diresse l’ospedale psichiatrico di Tripoli di Libia dopo il 1943,  Antonino Iaria  che gestì l’insegnamento della psichiatria nella Facoltà di Medicina dell’ Università Nazionale Somala (UNS) di Mogadiscio negli anni ’70, esperienze diverse fra loro anche nel tempo dalle quali si differenziano quelle successive di Piero Coppo in Mali a impostazione  propriamente  etnopsichiatrica.
La rubrica intende promuovere l’attenzione e la discussione su questa faccia poco esplorata della psichiatria italiana anche perché la sua eredità non riconosciuta  può pesare sulle culture professionali dei nostri servizi di salute mentale che da poco hanno impattato con la sofferenza e la domanda di salute delle persone immigrate da Africa, Asia, Sud America.  
 
 
 
Marco Levi Bianchini (1875-1961), personaggio assolutamente fuori dell’ordinario della psichiatria italiana, medico psichiatra, “fascistissimo” della prima ora. come si definì, e insieme traduttore di Freud, laureato a Padova, ufficiale medico al servizio dell’amministrazione coloniale belga in Africa Centrale nei primi anni del XX secolo, in Italia lavorò nei manicomi di Ferrara, Nocera Inferiore dove fu direttore fino al 1938 e poi, dopo la caduta del fascismo,  in quello di Teramo, fondò e diresse nel 1920 la rivista «Archivio generale di neurologia, psichiatria e psicoanalisi» che fu rilevata da Agostino Gemelli quando fu allontanato a seguito delle leggi razziali dai suoi incarichi. Nel 1925 con Edoardo Weiss fondò la Società italiana di psicoanalisi.
 
Nel  1906  pubblicò sulla sua esperienza in Africa considerazioni e note da cui traggo alcuni passaggi:
 
Ogni bianco, nel Centro Africa è, di fronte ai neri, un gran capo; essere immensamente superiore, arbitro delle forze umane e divine, cui sono comuni i miracoli, la scienza di guarire ogni male, la potenza di uccidere a grande distanza invisibilmente, di far parlare le cose inanimate […]
 
[Il bianco] deve essere inesorabile nel castigo, perché la clemenza è giudicata dal nero come debolezza e la compassione come timore. Per essere il bianco il padrone e il conquistatore, tutto è sottoposto al suo volere; e, mentre in Europa la Società ha imposto a ognuno il controllo del codice e della inibizione morale, qui […] è arbitro e giudice di tutta la popolazione nera, alla quale ha imposto il dominio di tributi e gli ordinamenti. […]
 
La presenza del bianco in Africa impone la trasformazione della psiche umana. O così o rinuncia alla colonizzazione. O la violenza o l’abbandono. Il nero non ragiona se non con la forza. sull’esperienza in Africa

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