Certo è un caso, ma mi è capitato di vedere il film Nise. O curacao da locura (Nise. Il cuore della pazzia, Brasile, 2015, regia di Roberto Berliner) dedicato all’esperienza della psichiatra Nise da Silveira (1905-1999) – interpretata da Gloria Pires – nell’ospedale della Praia Vermelha a Rio de Janeiro, proprio la sera in cui si diffondevano le prime notizie dell’assassinio nella metropoli carioca di Marielle Franco (1979-14 marzo 2018). Così, queste due vicende lontane di un’ottantina d’anni e quelle due donne si sono fuse nelle mie emozioni, fino a rendersi quasi indistricabili. Due donne coraggiose, che non posso fare a meno di accostare perché entrambe brasiliane, perché entrambe donne in un mondo nel quale il potere è ancora saldamente in mano all’uomo, perché entrambe appassionate nella difesa del debole in un mondo nel quale il potere è saldamente in mano al forte. Due donne che hanno pagato la scelta di ribellarsi in modo diverso, ma duramente entrambe. Marielle, la militante afrobrasiliana dei nostri giorni che ha levato la sua voce contro la miseria delle favelas e la violenza della polizia nel suo Paese, è stata eletta nel consiglio comunale dell’immensa metropoli ed è stata assassinata spavaldamente mentre percorreva, un giorno come tanti, in macchina il centro di Rio. Una donna che qualcuno, che molto probabilmente resterà impunito, ha scelto di portarci via non ancora quarantenne perché aveva osato levare la sua testa riccioluta, che si è improvvisamente imbrattata di sangue, e guardare dritto negli occhi del potere con i suoi begli occhi scuri parlando di giustizia. E Nise, che ha scelto coraggiosamente di essere medico quando ad essere medico in Brasile erano tra le donne pochissime, è stata arrestata da giovane per simpatie comuniste e, ritornata negli anni ’40 nell’ospedale psichiatrico, non ha esitato a dare corpo e voce a un istintiva ripulsa per le terapie violente (psicochirurgia, terapie di shock) che facevano sentire i colleghi orgogliosamente medici e annientavano i loro pazienti. E per la cella d’isolamento e le bende di contenzione. E’ stata perciò confinata in un reparto per internati considerati cronici, prima autogestito dagli infermieri; dove si sarebbe dovuta fare terapia occupazionale e si faceva in realtà, come spesso accade, mera sorveglianza. E lì, ostinatamente, caparbiamente non si è persa d’animo nello sfacelo e ha cominciato a impegnarsi per tirare fuori ciò che di ancora vitale c’era negli internati. E ciò che di potenzialmente terapeutico c’era negli infermieri, vincendo con la pazienza l’aspra ritrosia di uno di essi a modificare ciò che, infondo, si faceva da sempre e da sempre era andato bene. Le alterne vicende della lotta antiistituzionale di questa donna, le alleanze che via via costruisce e il farsi sempre più violento dello scontro con i nemici, sono rappresentati nel film con pregevole realismo e in tutta la loro durezza. Tutto comincia dove comincia sempre la lotta all’istituzione totale: portare un po’ fuori ciò che è dentro, portare dentro un po’ di ciò che è fuori. E questi esseri umani, che vediamo all’inizio poveri di tutto, stimolati si dimostrano capaci di esprimersi, e alle originali espressioni di molti di loro la società brasiliana è disposta a riconoscere il suggello dell’arte. Purché tutto questo avvenga però fuori dalle istituzioni della psichiatria, senza che si arrivi a un aut aut, senza che la psichiatria dolce di Nise si ponga come alternativa alla psichiatria dura dell’istituzione e giunga a minacciarla sul serio. Dentro l’istituzione invece lo scontro per l’egemonia si fa spietato, come per le strade di Rio dove Marielle è stata ammazzata. E quando Nise introduce nel reparto un gruppo di cani per sperimentare sui cuori inariditi dall’abbandono dei suoi “clienti” (non “pazienti”, precisa) una sorta di pet therapy, la misura diventa colma. L’introduzione di cani nell’istituto è vietata, per ragioni igieniche, dal regolamento; oggi diremmo dalle norme di qualità Le stesse che ci costringono a volte, in anni recenti, a rinunciare a cucinare in comune nei nostri luoghi comunitari, pagando con la certa rinuncia a un elemento fondamentale del clima casereccio che sarebbe necessario per la cura, la protezione da una del tutto remota eventualità d’intossicazione alimentare. Ma l’istituzione, spesso, è sorda e cieca e non sente ragioni. Nise prova a resistere, ma vigliaccamente – come quando improvvisamente ammazza come un cane una giovane donna disarmata alla quale fino a un attimo prima si era concessa la parola, in mezzo al traffico cittadino – all’improvviso il Potere sceglie di alzare il livello dello scontro. Non più solo parole. Ora fatti. E quando i cani sono trovati avvelenati da mano misteriosa, come è tipico dell’istituzione totale, per i clienti di Nise è la disperazione. E’ sentirsi traditi. E’ un dolore dilaniante, un sentimento di assoluta ingiustizia che esplode improvviso e che accieca. E forse, chissà, anche perché quei cani spietatamente eliminati sono avvertiti tropo simili a se stessi, quando si era trattati ”da cani”. A pagare non sarà tanto Nise, che è pur sempre un medico, alla quale il Potere è in grado di offrire – forse purché l’istituzione della violenza non sia più messa così direttamente e frontalmente in discussione – l’alternativa in una brillante carriera e il successo nel campo dell’arteterapia, con un rapporto epistolare che va facendosi più stretto con Jung. Ma saranno invece gli infermieri che, prima scettici, si sono lasciati convincere dal suo metodo e i clienti che, grazie a quel metodo fondato sull’umanità e la dolcezza, avevano accettato di rinunciare alla violenza di una ribellione spontanea e tragica, cui erano abituati, destinata a piegarsi, giorno dopo giorno, contro le chiavi, le cinghie, le terapie violente, i muri. Perché rimasti prigionieri, gli uni e gli altri, di una situazione ambigua nella quale si lavorava contro l’istituzione, ma pur sempre dentro l’istituzione.
Mi pare che, in questo accostamento così casuale, Marielle e Nise ci parlino allora, l’una e l’altra, della durezza dello scontro, rispetto alla quale non dobbiamo farci illusioni, sia che si tratti dell’ospedale psichiatrico o della metropoli; e della violenza che il Potere non si fa scrupolo a mettere in campo, quando si sente alle strette. Ma ci parlano anche, con il loro esempio, del coraggio di tornare ogni volta alla carica, e poi ritornarvi ancora. Una quarantina d’anni dopo la vicenda di Nise, nel 1979, in quegli stessi ospedali psichiatrici brasiliani contro i quali il tentativo di trasformazione di Nise da Silveira si è tragicamente infranto, in quelle stesse corsie degradate e maleolenti, sarebbe venuto un uomo da oriente; a dire che altrove l’impossibile è stato dimostrato possibile.
E che l’ospedale psichiatrico può essere chiuso. Una buona novella. Dopo, la lotta riprende, certo; ma ci si è attestati un po’ più avanti.
In allegato il film Nise (in portoghese, sottotitoli in spagnolo. La versione con sottotitoli in italiano non è disponibile su youtube).
Mi pare che, in questo accostamento così casuale, Marielle e Nise ci parlino allora, l’una e l’altra, della durezza dello scontro, rispetto alla quale non dobbiamo farci illusioni, sia che si tratti dell’ospedale psichiatrico o della metropoli; e della violenza che il Potere non si fa scrupolo a mettere in campo, quando si sente alle strette. Ma ci parlano anche, con il loro esempio, del coraggio di tornare ogni volta alla carica, e poi ritornarvi ancora. Una quarantina d’anni dopo la vicenda di Nise, nel 1979, in quegli stessi ospedali psichiatrici brasiliani contro i quali il tentativo di trasformazione di Nise da Silveira si è tragicamente infranto, in quelle stesse corsie degradate e maleolenti, sarebbe venuto un uomo da oriente; a dire che altrove l’impossibile è stato dimostrato possibile.
E che l’ospedale psichiatrico può essere chiuso. Una buona novella. Dopo, la lotta riprende, certo; ma ci si è attestati un po’ più avanti.
In allegato il film Nise (in portoghese, sottotitoli in spagnolo. La versione con sottotitoli in italiano non è disponibile su youtube).
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