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Marzo 2015 IV – Dissonanze

1 Apr 15

A cura di Luca Ribolini

SCRITTURA E FOLLIA DI LOUIS WOLFSON. Commento alle Cronache da un pianeta infernale

di Nicole Janigro, doppiozero.com, 19 marzo 2015

«I libri veri, i libri profondi, sono forse e unicamente quelli che ci permettono di avvicinarci alla coscienza pura. (…) Ogni volta che uno di questi libri appare, così nuovo e così straordinariamente se stesso – uno di quei libri che non si leggono veramente, ma che si vivono – sembra allora che la letteratura nel suo insieme venga rimessa in dubbio. Il libro diventa in qualche modo un vendicatore implacabile e solitario che distrugge d’un tratto anni d’abitudini e di comfortletterario».

Il premio Nobel Jean-Marie Gustave Le Clézio presenta così uno di questi libri rari che spesso appartengono a una letteratura meno, quella «dei distrutti, dei vinti», che turba e inquieta, Le Schizo et les langues di Louis Wolfson. L’autore, nato a New York nel 1931, diagnosticato come schizofrenico, costretto dalla madre a molti ricoveri e infiniti elettroshock, è un ebreo americano che non tollera la propria lingua, «il famoso idioma inglese». Il rifiuto della madre si esprime nel rigetto della lingua materna, quel sistema lessicale usato da chi lo circonda, e dalla quale, per tutta la sua rocambolesca esistenza, Wolfson cerca di rimanere lontano. Dall’intrusione delle parole inglesi si protegge e si difende tappandosi le orecchie, distraendosi con davanti un libro straniero, aggiungendo altri suoni registrati ad altissimo volume. Negli anni sessanta cammina per le strade di New York con le cuffie e un piccolo magnetofono: è già un walkman.

Mentre studia le lingue straniere, tedesco, ebraico, russo, sogna di instaurare una qualche forma di comunicazione con la madre – lei, ebrea della Bielorussia, sapeva il russo nell’infanzia. Da autodidatta studia il francese, la lingua che dà forma alla sua scrittura, la lingua altra nella quale lui può essere un altro, «lo studioso di lingue schizofrenico». Il testo diventa il luogo dove può trattare come oggetto il suo soggetto, esprimere la lotta contro il nutrimento “sporco” – fatto di parole come di cibo – che la madre vorrebbe conficcargli dentro. Racconta i suoi ricoveri, gli incontri con il padre su una panchina – impone al padre emigrato dalla Lituania di parlare in yiddish, la sua lingua originaria, mentre lui gli parla in tedesco –, con i muratori francofoni nel cortile, con una prostituta, con le biblioteche e i frigoriferi.

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http://www.doppiozero.com/rubriche/108/201503/scrittura-e-follia-di-louis-wolfson

 

COSA SEPARA I NOSTRI FIGLI DA “RYAN”, IL PICCOLO ASSASSINO DELL’ISIS?

di Luigi Campagner, ilsussidiario.net, 15 marzo 2015

Gli uomini dell’Isis cavalcano a meraviglia la tecnologia moderna e la globalizzazione. Due fenomeni che la loro civiltà non ha saputo produrre e nei confronti dei quali li muove un contorto sentimento di ammirazione e di odio. Probabilmente anche quelli nati e cresciuti nelle più moderne capitali d’occidente hanno solo notizie incomplete e confuse della Rivoluzione francese e delle tecniche messe a punto a turno da girondini, sanculotti, montagnardi e giacobini che seppero coniugare al meglio i media del tempo, giornali, manifesti, feuilleton eccetera con il sublime spettacolo del terrore delle teste mozzate, rotolanti dai palchi delle ghigliottine, o portate in processione sulle picche, tra la folla spruzzata di sangue. Consapevoli o meno, i nuovi seguaci della dottrina del terrore superano i vecchi maestri parrucconi, non tanto per le tecniche di sgozzamento e decapitazione decisamente più ancestrali della modernissima ghigliottina, ma per lo sfregio inferto a uno degli ultimi topoi del sacro rimasti nella super secolarizzata post­modernità occidentale: l’infanzia innocente. La scossa, come di un terremoto spirituale, che le immagini di bambini di pochi anni con i mitra a tracolla, con canne di fucile puntate a pochi centimetri dal viso, o le immagini, di questi giorni, del dodicenne (riconosciuto come Ryan dai compagni di classe di una scuola di Tolosa) che uccide a sangue freddo un uomo dell’età di suo padre, buttando un’ultima occhiata alla telecamera, disorienta non meno dei 140 corpicini dei bimbi fatti saltare in Pakistan da uno degli ultimi terribili attentati islamisti.

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http://www.snodi.net/site/?q=Ryanfigli_Campagner

 

BRUCIANTI DISSONANZE

di Giuliano Castigliego, giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com, 15 marzo 2015

Ognuno di noi conosce una persona “troppo sensibile”. Ovvero che si definisce “troppo buona, altruista” o nella declinazione “scientifica” più attuale “troppo empatica”. Spesso anzi quella persona è una parte di noi, che di volta in volta vezzeggiamo o invece deprechiamo, dicendo che dovremmo andare in terapia per “imparare a diventare egoisti” (ma per quello non basta House of cards?). Un (relativamente) recente (3.6.2014) studio giapponese pubblicato su Translational Psychiatry ci aiuta a capire meglio il non semplice rapporto tra empatia e Burnout nelle professioni medico-sanitarie, che per l’intrinseca esposizione alla sofferenza altrui sono da tempo sospettate essere a rischio di facile esaurimento emotivo. Pur con le doverose specificazioni e i limiti del concetto di burnout che ho già evidenziato nel precedente articolo, diversi studi sembrano infatti indicare una correlazione tra empatia e Burnout nelle professioni sociosanitarie. In uno studio di valutazione del burnout in medici residenti il 76% presentava sintomi di Burnout, condizione che in tale categoria professionale e in quelle contigue può condurre a errori anche gravi in campo sanitario, se non, come già si diceva, ad altre patologie. Ad oggi tuttavia poco si sa sui meccanismi che conducono al burnout. La teoria tradizionale, ‘compassion fatigue theory‘ suggerisce infatti che il burnout sia dovuto ad un eccesso di empatia. Un’ interessante ipotesi alternativa ‘emotional dissonance theory’ prospetta invece che il burnout sia piuttosto legato a una ridotta capacità di regolazione emozionale tale da provocare una stressante discrepanza tra emozioni percepite ed emozioni espresse, con la conseguenza poi di un burnout. Ebbene, lo studio giapponese citato sembra confermare questa seconda ipotesi. La ricerca dell’Universita di Kyoto dimostra infatti che la severità del burnout nelle professioni mediche è spiegata da una ridotta attività delle strutture cerebrali responsabili dell’empatia e che tale ridotta attività cerebrale “empatica” è associata a punteggi più elevati di dissonanza emozionale e di alexitimia (incapacità di riconoscere ed esprimere le proprie emozioni) nonché ad una maggiore predisposizione empatica.

Lo studio. Per verificare quali delle due ipotesi fosse quella corretta con tutte le (importanti) conseguenze del caso, i ricercatori giapponesi hanno analizzato l’attività cerebrale collegata all’empatia misurabile tramite risonanza magnetica funzionale e hanno – per primi – indagato se tale attività (ridotta o aumentata) fosse correlata o meno con la severità del burnout ed altri indici psicologici. Le probande erano 25 infermiere sottoposte a risonanza magnetica cerebrale funzionale (con particolare riguardo alle aree che si attivano nell’empatia) nonché a svariati test psicologici. Questi ultimi includevano una scala per la valutazione del burnout, Maslach Burnout Inventory (MBI), un questionario di autovalutazione per la misurazione della predisposizione all’empatia (IRI), una scala per la valutazione della dissonanza emozionale, Emotion Work Requirements Scale (EWRS) – valutata come espressione del conflitto tra la propria esperienza emozionale e l’espressione delle emozioni socialmente desiderate – e infine una scala (TAS-20) per la valutazione dell’alexitimia intesa qui – non nella sua accezione più radicale di funzionamento mentale esclusivamente operativo ma – come incapacità di riconoscere ed esprimere le proprie emozioni. Le infermiere sono state poi sottoposte a risonanza magnetica funzionale durante la quale veniva loro richiesto di osservare brevi video contenenti scene di sofferenza o non sofferenza altrui: vedevano cioè brevi filmati di una mano ferita da un coltello, un martello, un punteruolo o invece strofinata da un spazzola soffice. Con la RMN funzionale è stato possibile valutare il grado di funzionamento delle aree principalmente preposte all’empatia, – che sono soprattutto l’insula anteriore, la corteccia cingolata anteriore e la corteccia somato-sensoriale, anche se la giunzione temporo-parietale sembra svolgere un ruolo importante in particolare nella capacità di assumere il punto di vista altrui.

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http://giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com/2015/03/15/una-bruciante-dissonanza/
 

AGGRESSIONI OMOFOBE, CHE COSA SCATENA LA VIOLENZA. Dopo il pestaggio, a Torino, di un ragazzo appena uscito dalla discoteca, lo psicanalista Raffaele Bracalenti prova a cercare una spiegazione

di Nadia Francalacci, panorama.it, 16 marzo 2015

Gli eterosessuali non possono nemmeno lontanamente percepire quanto sia difficile essere gay in Italia”. Sono le parole di Stefano, 21 anni, un ragazzo di Torino aggredito su un bus di linea nella notte tra venerdì e sabato da gruppo di ragazzi. Stefano assieme a un amico stava rientrando da una discoteca, quando è stato avvicinato da alcuni coetanei: “Siete froci?” hanno chiesto. “Quando si sono rivolti a noi, io non ho prestato molta attenzione e quando mi hanno chiesto se fossi omosessuale ho persino fatto una battuta per sdrammatizzare – ricorda Stefano- pensavo scherzassero, ma poco prima di scendere dal bus mi hanno colpito al volto con un pugno e insultato”. “L’ematoma sul mio viso sparirà insieme al gonfiore, ma non potete nemmeno lontanamente capire quanto sia stato umiliante dirlo a mia madre”. E il caso di Stefano è solo l’ultimo, di una serie di aggressioni verbali e fisicheche hanno visto protagonisti, negli ultimi mesi, gli omosessuali. “L’omofobia è vera, c’è e si vede – commenta Marco Giusta, presidente dell’Arcigay di Torino – per questo chiediamo di condannare l’episodio e di incrementare il lavoro di formazione e comunicazione, a partire dalle scuole, per sconfiggere definitivamente questa piaga sociale”.

Professore Raffaele Bracalenti, presidente dell’Istituto psicoanalisi e ricerche sociali, perché ancora oggi parte della società continua a considerare gli omosessuali “diversi”?
Sono passati ormai cento e più anni da quando Freud parlava della omosessualità negli esseri umani: Freud riteneva che tutti gli esseri umani sono intrinsecamente bisessuali e l’omosessualità e, dunque, l’istinto omosessuale è un dato biologico naturale: “L’omosessualità non è certo un vantaggio ma non è certo qualcosa di cui vergognarsi. Non è un vizio né una degradazione e non può essere classificata come malattia” spiegava Freud.

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http://www.panorama.it/news/cronaca/edifficile-essere-gay-in-italia-i-motivi/

 

LA NOSTALGIA DEI FREELANCER

di Pietro Barbetta, doppiozero.com, 16 marzo 2015

Una volta li chiamavano “cani sciolti”, “battitori liberi”, “spiriti liberi”, di loro si diceva che non possono stare sotto padrone, che non possono scegliere un gruppo di appartenenza. In inglese – quando l’inglese era una lingua, e non una terminologia da interpolare all’italiano – sarebbero freelance workers, ovefreelance è aggettivo, o, in sostantivo, freelancers, lancieri liberi. Il termine risale al romanzo Ivanhoe di Walter Scott. Significa soldato mercenario, letteralmente “libera lancia”, al servizio di chi la paga, indipendente da ogni servitù permanente. In epoca antica cavaliere, da quando prevale l’arma da fuoco, lanzichenecco, al servizio del territorio (Land), cavaliere (Knecht) senza cavallo, fante al soldo, servo. Johannes Hofer (1669–1752) diagnosticò il male di questi fanti svizzeri: nostalgia, dolore del ritorno, dal termine omerico nóstos (ritorno a casa) e álgos(dolore). Oggi l’uso del termine “freelance” serve a evitare di dire “precario”. La vicenda è legata al progetto ideologico inventato da Tony Blair – alunno diligente di Margaret Thatcher – che ruota intorno alla parolaemployability (occupabilità?). I filosofi analitici illustrano come le parole che finiscono in abile, ibile, ebile, ecc., siano “termini disposizionali”; possiedano cioè caratteristiche che, solo in circostanze determinate, si manifestano. Un fiammifero è infiammabile, se sfregato contro una superficie ruvida s’infiamma; un detersivo è solubile, se versato in acqua si scioglie; una persona occupabile, se incontra un lavoro, lavora. Si tratta di rendersi occupabile.

Il progetto di Blair capovolge domanda e offerta: un tempo, le aziende si rivolgevano alle agenzie di collocamento e chiedevano d’impiegare persone per competenze definite dall’azienda; le persone si rivolgevano all’agenzia di collocamento e documentavano la loro competenza. Ora le persone “freelance” si rendono idonee a offrire il loro lavoro raccogliendo punti presso master, ecm, specializzazioni, “alte” scuole, corsi di riqualifica professionale, congressi e conferenze. Però non si capisce bene da dove venga la domanda. Un po’ come i commessi viaggiatori, i “freelance” devono convincere l’azienda a comprare le loro prestazioni, documentate da “nuove” competenze, mai viste prima. Se l’azienda si convince, bingo. Un tempo si era “liberi di vendere la propria forza lavoro o di morie di fame”, ora si è liberi imprenditori della propria forza lavoro e si muore di fame, oppure si riesce a convincere il “datore di lavoro” che lui, anche se non lo sa, ha proprio bisogno di voi. Ecco perché sono tornati in auge i corsi d’ipnosi!  Leggiamo, a mo’ d’esempio, questo testo del web:

La svolta epocale del web ha cambiato anche il modo di lavorare e di produrre. Oggi ci vogliono più flessibilità, più mobilità, più libertà. Ci vogliono le condizioni per creare senza limiti, aprire nuove prospettive, lanciare nuove idee. Al tempo stesso sono necessarie una sempre più solida formazione e specializzazioni sempre più precise. In questo contesto si muovono e aumentano sempre di più gli esperti e i professionisti del lavoro freelance.

 Naturale che uno psicoanalista – che da trent’anni fa lo stesso lavoro e sa quanto sia ancora lunga la strada da percorrere per diventare ciò che si è – sia destato dal sospetto che concerne le parole. Il mezzo parla di sé, è spudorato. Come il narcisista, il mezzo – il web che parla di sé come “svolta epocale” – tradisce vanagloria: il “freelance” è un “esperto che conosce perfetta-mente la materia”, “assumerlo temporanea-mente significa evitare i costi tipici dell’impiego”, il “freelance” può “dedicarsi libera-mente a diversi clienti”. L’Io, diceva Freud, è come il clown Augusto, si presenta come il direttore del circo, tuttavia ne è servo. Gratta il “freelance” esce il precario. Chiunque sia questo “freelance” la sua condizione somiglia a quella dei suoi antenati etimologici: i soldati di ventura. In preda alla ventura, privo di radici, isolato in un mondo che non conosce, anche se sa bene il mestiere – nel caso del soldato, per esempio, quello delle armi – è destinato alla nostalgia.

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http://www.doppiozero.com/materiali/lavoro-freelance/la-nostalgia-dei-freelancer

 

IL CAPITALISMO È REALMENTE “PULSIONE DI MORTE”?

di Gianfranco Sabattini, avantionline.it, 17 marzo 2015

Capitalismo e pulsione di morte” di Gilles Dostaler e Bernard Maris, narra di un punto d’incontro tra Sigmund Freud e John Maynard Keynes, nato dalla collaborazione di due docenti di economia, Gilles Dostaler e Bernard Maris, quest’ultimo ucciso nell’attentato alla sede di Charlie Hebdo del gennaio scorso; entrambi appassionati dell’opera di Keynes, in quanto “antidoto agli errori e alle derive del pensiero economico contemporaneo”, e interessati al pensiero di Freud.

All’Università di Toulouse, dove gli autori si sono conosciuti, hanno così scoperto che entrambi avevano le stesse idee “sullo stretto rapporto tra il pensiero di Keynes e quello di Freud, nonché sul fatto che le influenze tra i due autori erano influenze incrociate”, nel senso che i due grandi pensatori del XX secolo “sognavano un’umanità colta”, con prospettive diametralmente opposte, ottimistica quella di Keynes, pessimistica quella di Freud: per il primo, la psicoanalisi, dal momento che permetteva di scrutare le “tenebre e il male”, poteva contribuire alla realizzazione di quel tipo di umanità; per il secondo, la civiltà, col capitalismo, sviluppando la scienza e la tecnica, non accresceva la felicità dell’umanità, ma liberava una forza che l’avrebbe resa vittima di se stessa.

Dostaler e Maris assumono come paradigmi della riflessione sul capitalismo due opere risalenti agli inizi degli anni Trenta del secolo scorso: “Prospettive economiche per i nostri nipoti” di Keynes e “Il disagio della civiltà” di Freud”. La prima è una riflessione ottimistica sul miglioramento culturale dell’intera umanità, reso possibile dallo sviluppo delle forze del capitalismo, mentre la seconda è, al contrario, una riflessione pessimistica sul futuro della civiltà, in quanto, pur essendo divenuta col capitalismo “energia di vita e di mantenimento della specie umana, porta in sé una pulsione di morte contro la quale lotta senza tregua”.

Anche se la civiltà non va confusa con il capitalismo, essendo nata molte migliaia di anni prima, il linguaggio di quest’ultimo, però, fatto di mercati, denaro, contratti, accumulazione e di altro ancora, è la forza che oggi la modella e la descrive, proponendosi all’umanità per la realizzazione della liberazione dal bisogno. Ma la forza del capitalismo – si chiedono Dotstaler e Maris – dopo aver rimosso il problema economico della scarsità, condurrà l’umanità verso una società dell’abbondanza, come sostiene Keynes, oppure verso una società-termitaio, dove tutti, dopo essere stati privati delle volontà individuali, saranno controllati e sorvegliati da un Moloch informatico, come sostiene Freud?

Dotstaler e Maris propendono per la società-termitaio e per la morte dell’umanità. Ciò perché il capitalismo rappresenterebbe uno stadio nuovo e specifico dell’evoluzione della civiltà; stadio in corrispondenza del quale “invenzione e tecnica vengono dirottate, canalizzate e sistematicamente applicate all’accumulazione di beni”. Poiché l’accumulazione di beni fine a se stessa ad altro non vale che a spalancare “le porte a una pulsione di morte”, questa, come sostiene Freud, insieme all’amore per il denaro e all’accumulazione di beni, descritti da Keynes, continueranno a connotare un’evoluzione della civiltà sorretta solo dalle forze incontrastate del capitalismo.

La realtà di oggi, secondo Dostaler e Maris, varrebbe inconfutabilmente ad evidenziare questa tendenza: “L’equilibrio del terrore tra due soli giocatori ha fatto il suo tempo. […]. Le armi si sono democratizzate, è comparso il terrorismo ed è pronta ad esplodere la bomba ecologico-climatica, mentre la pentola dell’economia ci ha cucinato una crisi finanziaria che va a sommarsi alla crisi delle materie prime. Nuovi mostri sono apparsi: la Cina […] coniuga dittatura e mercato, intercetta il 40% delle nuove risorse petrolifere scoperte ogni anno, accaparra metalli […] per soddisfare la propria volontà di potenza”. Che prospettive possono aversi – si chiedono Dostaler e Maris – di fonte a questo presente demoralizzante? Poiché il reale è effimero, di consolante non ci sarebbe che l’altro mondo. Viene subito da osservare: questa prospettiva potrà essere accettabile per chi crede nell’esistenza di un aldilà; e per chi non ci crede, quali alternative residuano?

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http://www.avantionline.it/2015/03/il-capitalismo-e-realmente-pulsione-di-morte/#.VRv-lfysWX4

 

DONNA HILLARY

di Umberto Silva, ilfoglio.it, 18 marzo 2015

Climategate, Hackgate, Irangate, Sexgate e naturalmente, all’origine, lo storico Watergate: gli americani vanno matti per i gate, ai democratici ricordano i bei tempi di Nixon e i repubblicani smaniano per pareggiare i conti. Emailgate: Hillary Clinton ancora non si è candidata per la presidenza e già è accusata; di che? D’essere “il pericolo numero uno, la donna”, cantavano Claudio Villa e Gino Latilla nel memorabile Sanremo del 1957. Si difende l’ex first lady, “Mi era più comodo spedire le email così, non è peccato”. Be’, un po’ sì, l’orgia c’è stata. Hillary ha dribblato le varie Authority per concedersi direttamente a chicchessia. Perché? Si può ipotizzare una rivalsa sul marito libertino, qualcosa del tipo “se lui l’ha fatto di nascosto, io lo faccio alla luce del sole, e se voi tutti americani e non solo volete partecipare alla mia sessualità, fate pure”. Che poi questa sua infantile vendetta sia davvero pericolosa per le sorti degli Usa, così come si volle far credere che lo fosse il pompino di suo marito, sembra davvero eccessivo, moralismo suicidario di cui gli inquisitori americani sono ancora più ghiotti di quelli italiani. In questi giorni paiono calmarsi ma attenzione Madame: se ora allentano la presa è solo per stringere la morsa appena lei sarà eletta; a costoro piace la carne viva, la carne presidenziale…

 

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http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2015/03/18/donna-hillary___1-v-126756-rubriche_c299.htm

 

UN BRAVO MAESTRO SI RICONOSCE DA COME INCIAMPA. “L’ora di lezione” di Massimo Recalcati

di Tiziana Zita, cronacheletterarie.it, 18 marzo 2015

Un allievo di LacanMoustapha Safouan, racconta che un bravo maestro si distingue da come reagisce quando entrando in aula, prima di salire in cattedra, inciampa. La prima reazione è quella di ricomporsi immediatamente e far finta che non sia accaduto niente. Questo non è interessante. La seconda è ricomporsi e mentre si ricompone getta uno sguardo nella classe per vedere chi ha osato deriderlo e poi prendere provvedimenti disciplinari. Nemmeno questa è la posizione auspicabile. Il bravo maestro, dice Safouan, è quello che inciampa e fa dell’inciampo il tema della lezione. I bravi maestri sanno inciampare. Non temono il limite del sapere. La lezione è un rischio ogni volta, ma i bravi maestri non temono la caduta. Per spiegare come un’ora di lezione può cambiarti la vita, Massimo Recalcati, psicoanalista, professore, scrittore, ci ha fatto un’ora di lezione all’Auditorium di Roma. Lui che da bambino è stato considerato un idiota e che è stato bocciato in seconda elementare perché incapace di apprendere, ci racconta del rapporto magico che si instaura tra allievo e insegnante che è anche il tema del suo ultimo libro, L’ora di lezione. Sottotitolo: “Per un’erotica dell’insegnamento”. Ecco cosa ci ha insegnato.

Un sentimento mi prende sempre al termine delle lezioni all’università. E’ un affetto particolare che mi capita di sentire ogni volta che tengo una lezione. Una spossatezza. Alla fine di una lezione io mi sento spossato e penso che anche un allievo che viva intensamente la lezione si possa sentire spossato. Questa spossatezza possiamo associarla a quella che prende gli amanti dopo un rapporto sessuale. C’è stato uno scambio, qualcosa si è trasmesso. Per questo parlo di una erotica dell’insegnamento. Dalle scuole elementari all’università, tutti gli insegnanti che portiamo con noi nella memoria, quelli che hanno lasciato un segno, hanno tutti un tratto fondamentale che li accumuna e che prescinde dai contenuti del loro insegnamento: noi li riconosciamo per il loro stile.

Certamente questo ha a che fare col corpo dell’insegnante che noi oggi rischiamo di estinguere attraverso una digitalizzazione totalizzante della trasmissione del sapere. Anche in psicoanalisi qualcuno fa sedute via Skype. Si salta la dimensione dell’incontro coi corpi. Invece noi sappiamo che ogni erotica si fonda sull’incontro coi corpi. Questo incontro non si può aggirare, è il cuore della didattica. Lo stile passa innanzitutto attraverso il corpo del maestro e trova la sua manifestazione nel modo in cui prende tra le mani i libri, nel modo in cui organizza la sua lezione, le citazioni, i riferimenti, nel modo in cui affronta la lavagna, nella sua voce. Le voci dei nostri maestri che ancora portiamo con noi, quella stridula, quella roca, quella appesa a un filo, quella metallica, quella che sembrava che si stesse spegnendo da un momento all’altro e poi ricominciava come un’onda. Lo stile ha a che fare con il corpo del maestro, ma innanzitutto ha a che fare con la sua capacità di erotizzare il rapporto con il sapere. Il primo miracolo che ogni insegnamento degno di questo nome opera è una trasfigurazione degli oggetti teorici di cui il maestro parla. Che sia la deriva dei continenti, la serie di Fibonacci, le strutture elementari di una lingua, i numeri, le lettere dell’alfabeto: di qualunque cosa egli parli l’effetto è la trasformazione di questi oggetti in corpi, in corpi erotici. Questo significa che il libro acquista uno spessore carnale, acquista un profumo, un odore, una densità. L’esperienza della lezione non è un’esperienza solo cognitiva, non è un’esperienza solo mentale, per questo alla fine siamo spossati.

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L’AQUILA DI FRIEDRICH NIETZSCHE. Omaggio a L’Aquila – filosofo e poeta Friedrich Nietzsche espresse la volontà di venire a vivere a L’Aquila per un qualche tempo

di Mario Setta, giornaledimontesilvano.com, 18 marzo 2015

Friedrich Nietzsche ha incarnato l’ideale del “viandante”. Non l’ha solo descritto nelle sue opere. L’ha realizzato nella vita. Per necessità e per vocazione. Ne parla espressamente nel suo capolavoro, Così parlò Zarathustra. Tutto il libro presenta la vita dell’uomo come una continua ascesa, metafora dell’esistenza. A trent’anni, Zarathustra-Nietzsche lascia la sua patria e s’incammina sui monti. Nuovo Abramo, nuova Rivelazione, nuovo Messia. Nella Terza Parte del libro, dichiara: «Io sono un viandante e uno scalatore di montagne […] Non amo le pianure e sembra che non sappia star fermo a lungo. […] Io sto ora di fronte alla mia ultima cima e di fronte a ciò che mi fu più a lungo risparmiato… il mio cammino più duro… la mia peregrinazione più solitaria.»

Il primo febbraio 1883, da Rapallo, Nietzsche scrive all’amico Heinrich Köselitz (Peter Gast), annunciandogli: «Si tratta di un libro piccolissimo – più o meno cento pagine di stampa. Ma è il migliore dei miei libri e per me significa essermi tolto un gran peso dal cuore. Non ho mai scritto nulla di più serio né di più allegro; mi auguro di cuore che questo colore – che non deve necessariamente essere una mescolanza – diventi sempre più il mio colore “naturale”. Il libro si chiamerà “Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno”. Con questo libro sono entrato in un nuovo “girone” – d’ora in poi in Germania verrò certamente annoverato tra i pazzi. Sono “prediche sulla morale” di un genere inconsueto.»

In quella primavera del 1883, il desiderio di ritirarsi in montagna, la ricerca di scomparire in qualche monastero isolato, diventa un refrain nelle lettere che Nietzsche scrive agli amici. Il 20 maggio a Overbeck: «Quanto all’uso che farò degli anni a venire, su questo non ho più incertezze. Una condizione esteriore è quella “fuga dal mondo” a cui ho accennato già tante volte per lettera: questo almeno è chiaro, e chi mi vuole bene riuscirà anche a spiegarselo. E’ una decisione che mi costa molta più fatica di quanto tu possa immaginare; la scelta poi della località adatta mi porta quasi alla disperazione.»

E il 28 maggio a Marie Buamgartner: «Io mi trovo ora in alto mare ed esigo il massimo da me e per me. A questo è legata una mia decisione, che da anni sono incerto se prendere o abbandonare, e per la quale finalmente – ora! – mi sento maturo e forte abbastanza: la decisione di “scomparire” per qualche anno.[…] Voglio vivere una vita dura come altri mai: sotto questo giogo e non altrimenti riuscirò a sentirmi con la coscienza a posto per il fatto di possedere quello che pochi uomini hanno o hanno avuto: ALI – per dirlo in metafora.»

E’ appena uscito, o forse sta ancora cercando di uscire dal trauma psicologico che lo ha afferrato un anno prima. S’era rifugiato nell’alcool, nella morfina, nell’oppio. Quella strana storia d’amore l’ha prostrato terribilmente. Fa enorme fatica psico-fisica a superare l’esperienza di innamoramento con Lou Salomé. Lui, ormai trentanove anni, e lei poco più che ventenne. Lou, figlia unica del generale russo di origine tedesca, Gustav von Salomé. L’incontro tra Nietzsche e Salomé era avvenuto, a Roma, nell’aprile del 1882, nella basilica di S. Pietro, presentatagli dall’amico Paul Rée, che ne era affascinato. Ma Lou aveva solo un modello ideale: suo padre. Già precedentemente aveva avuto esperienze affettive con maschi più anziani di lei, come nel caso del pastore Gillot. Lui quarantaduenne, lei diciassettenne.

Ma il rapporto con Nietzsche è drammatico. Dopo due settimane dall’incontro a Roma, i tre (la “santa trinità” o il “ménage à trois”), si ritrovano sul lago d’Orta, al santuario di San Francesco, detto Sacro Monte. Un santuario che presenta la vita di San Francesco come “Alter Christus” secondo le stazioni d’una Via Crucis. Qui, probabilmente, Lou bacia Nietzsche e quel bacio sembra essere la prova d’amore, tanto che Nietzsche le fa la proposta di matrimonio. Ma Lou rifiuta. Più tardi Nietzsche dirà che s’era trattato del “sogno più entusiasmante” della sua vita, mentre Lou confesserà di non ricordarlo. Non passerà, tuttavia, molto tempo che Lou sposerà lo studioso Friedrich Carl Andreas, quindici anni più anziano di lei.

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http://www.giornaledimontesilvano.com/politica/laquila/86-laquila/31184-laquila-di-friedrich-nietzsche.html

 

PERCHÉ ABBIAMO BISOGNO DI UN PADRE. Un brano da Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre di Luigi Zoja, internazionale.it, 19 marzo 2015

Nella ricerca, il figlio vuole diverse cose. Cercare il padre. Cercare di conoscerlo da dentro, mentre prima lo conosceva da fuori. Cercare di conoscere il “padre” che ha dentro: diventare adulto. Nella forma più semplice, questo cercare è un viaggio del figlio.

Dal momento in cui Telemaco invade i primi canti dell’Odissea inseguendo Ulisse, la ricerca del padre diviene un tema centrale nella letteratura dell’Occidente.

Anche l’articolo 30 della Costituzione della Repubblica Italiana – nata dal crollo del fascismo – proclama: “La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità.”

La ricerca del padre, che ci è familiare come tema mitico, ci sorprende nelle pagine di una legge moderna. Evidentemente, il mito si diverte a mostrare il suo volto eterno in formule stagionali. In tutte le epoche, malgrado gli sforzi dei legislatori già dai tempi di Roma, enorme è stato il numero dei bambini abbandonati dai genitori.

Per privilegi tradizionali, per il minore coinvolgimento fisico e, in fondo, per inciviltà, l’abbandono è infinitamente più frequente da parte del maschio (per il quale intenzionalmente non usiamo la parola padre). Noi sappiamo che la ricerca del padre non risponde solo a una necessità materiale, ma anche a un universale bisogno psicologico.

Ognuno, come Telemaco, vuole conoscere di chi è figlio. Prima o poi, i bambini adottati cercano di conoscere i propri genitori naturali, anche quando quelli adottivi hanno dato loro tutto. Se la legge non si interessa a entrambi i genitori ma solo al padre, è perché può sparire senza essere identificato. Le leggi si occupano di rimediare a un’ingiustizia materiale, non di rispondere a una necessità psicologica. Ma per noi, le norme moderne sulla ricerca del padre sono anche simboliche. Queste leggi vogliono rintracciare un genitore che non c’è più. E il padre, a differenza di un tempo, oggi è spesso psicologicamente assente anche quando è conosciuto. Le regole giuridiche, dunque, sono per noi soprattutto il simbolo di una mancanza più generale, che rende ansiosi i tempi in cui viviamo.

Il fatto che un uomo che ha fatto nascere un figlio possa sottrarsi al fargli da padre è fra i più frequenti e tremendi crimini di ogni tempo. Tremendo perché azione contro giustizia di ben altra portata, per esempio, del furto: al furto si è già rimediato quando l’oggetto rubato o uno equivalente è di nuovo in nostre mani; l’assenza di padre ha conseguenze per tutta la vita, e addirittura per la generazione successiva.

Il progresso della tecnica ha permesso in questo campo, senza rumore, una delle più grandi rivoluzioni di ogni tempo: oggi, con un semplice prelievo di sangue e l’analisi del DNA, la paternità può essere ricostruita con certezza. L’abbandono paterno di milioni di figli in ogni angolo dell’Occidente civile è un’ingiustizia diversa ma non inferiore a quella patita dagli schiavi in America o dai servi della gleba in Russia: è straordinario, dunque, che questa ingiustizia sia sconfitta da un semplice esame di laboratorio, senza i fiumi di sangue della guerra di secessione, senza massacri tra Armate Rosse e Bianche.

La tecnica può rovesciare d’improvviso, per sempre, situazioni antichissime. Sconvolge la nostra psicologia che non ha avuto il tempo di adeguarsi, perché la novità opera di colpo nell’antica situazione culturale. Se riduciamo ai minimi termini un percorso complesso, il maschio era da sempre abituato a scegliere se avere rapporti sessuali e con quali precauzioni. Poi, nel caso di una gravidanza, a scegliere se riconoscere o meno il figlio.

A differenza della donna, poteva anche considerare le due cose come indipendenti. In un certo senso, tutta la società patriarcale si basava in origine su questa mancanza di costrizione, che differenziava il padre dalla madre e dava il vero contenuto al suo rapporto con il figlio: si basava sul potere di scelta attribuito al maschio. Questo, se esercitato positivamente, lo trasformava in un padre; se negativamente, in un essere tornato alla pratica animale. Oggi, almeno come principio dettato dalla legge del mio paese, questa “soglia di reversibilità” del generare si è spostata.

Per continuare:

http://www.internazionale.it/notizie/2015/03/19/padre-luigi-zoja

 

ANDREA CARANDINI “L’ARCHEOLOGO È COME FREUD: SONO TRENT’ANNI CHE SCAVO DENTRO”

di Antonio Gnoli, la Repubblica, 22 marzo 2015

È un pomeriggio limpido che Roma sa regalare. Sulla salita del Quirinale, non lontano dalle Scuderie abita Andrea Carandini, presidente del Fai, nel palazzo che in parte fu del nonno: Luigi Albertini, ricordato con una lapide all’entrata: «Mio nonno venne qui nel 1926 dopo che il fascismo lo cacciò dal Corriere della Sera. C’è restato fino alla morte, nel 1941. Ho scarsi ricordi. Viveva al piano di sopra. Andavo a trovarlo, mi teneva sulle ginocchia. Mi iniziò alla lettura di Topolino». Nonostante l’aria solida che emana Carandini mi appare come il risultato di un compromesso tra una vita felice sognata e una vita annoiata. In agguato vi è pur sempre la solitudine. Scruto la sua perentorietà. E penso alle difese che si nascondono dietro certi toni. Percepisco un velo di superbia intellettuale nelle sue parole. Gli chiedo, alla fine della nostra conversazione, se si sente un privilegiato. «Lo sono, lo sono», risponde. «Ma non ho sensi di colpa. Sono stato agevolato dalla vita, ma quello che ho avuto alla fine me lo sono guadagnato». Il pane dell’antichità fra i denti di un singolare individuo moderno che ha dedicato larga parte della vita all’archeologia. Mentre accarezza orgoglioso una pila dei suoi libri — il professore ha scritto e divulgato con grande effusione — penso alla definizione che Ernst Jünger ha dato dell’archeologia come una specie di scienza del dolore.

La trova adeguata per spiegare il suo lavoro?

«È strana. Non l’ho mai sentita. Il dolore mi fa pensare piuttosto alla psicoanalisi. Anche lì si scava, si cercano radici, fondamenta. Non c’è dubbio che l’analisi non conduce alla felicità. L’ignoranza, semmai, porta alla felicità animale. Più si conosce, temo, più si soffre. E l’archeologia in qualche modo si può accostare alla psicoanalisi. A Freud, soprattutto, che ne fa una perfetta metafora dello scavo interiore. A me ha sempre colpito il suo studio, prima a Vienna e poi a Londra, sembra l’antro di un sito archeologico».

Freud fece archeologia del soggetto.

«Attraverso il sogno. E anche analizzando i suoi sogni».

Che credibilità attribuisce al sogno?

«Tantissima. La mia vita da archeologo è stata orientata soprattutto da due sogni che feci da bambino. E in entrambi c’entrava mio padre».

Li racconti in breve.

«Sono nell’ Underground di Londra, la città dove mio padre svolgeva il lavoro di ambasciatore. Ho 9 anni. Sogno di scendere una lunga scalinata. Cerco l’uscita ma vado sempre più giù. Quasi una discesa agli inferi. Arrivo davanti a una porticina. L’apro. Improvvisamente mi appare un cimitero con degli uomini che scavano. Dissotterrano delle dame cui tolgono i monili dal collo e dalle braccia. Sono come paralizzato. Poi mi sveglio».

Il secondo sogno?

«Vado a trovare mio padre al Claridge’s di Londra. L’Hotel è vuoto. Lo cerco con una certa ansia. Ma non lo trovo. Alla fine scopro che è in un salone dove sta pranzando con dei reali. Distolgo lo sguardo, intimorito. Non so che fare. Mi avvicino a una finestra, mi affaccio e vedo fuori lo scavo di un teatro romano».

Effettivamente in entrambi i sogni c’entra l’archeologia. Ma si presenta come un’esperienza bloccata.

«È vero. Per anni non ho pensato al valore simbolico e predittivo di quei sogni. Poi durante l’università tutto torna alla mente, si fa chiaro».

Cosa era accaduto?

«Non lo so di preciso. So però che dovevo laurearmi in filologia classica con Ettore Paratore. Scopro invece la persona che mi seduce e mi cambia la vita: Ranuccio Bianchi Bandinelli».

Il grande archeologo?

«Un uomo tormentato e affascinante. Decido di fare una tesi di laurea con lui, sui mosaici di Piazza Armerina. Non una vera tesi di archeologia, ma qualcosa comunque di affascinante che mi avvicinava a quel mondo».

Che cosa ricorda di Bianchi Bandinelli, ribattezzato il “conte rosso”?

«Quel nomignolo glielo affibbiarono per le sue origini e per avere aderito a un certo punto al partito comunista».

Fu lui a fare da cicerone a Hitler, durante una visita a Roma.

«È un episodio che non ha mai rimosso. Un errore. Conosceva perfettamente il tedesco. Gli fu imposto di fare da guida al Führer. Ne ha sofferto. Non se lo è mai perdonato. Alla fine si iscrisse al partito comunista. Secondo me lo fece per punirsi delle sue origini aristocratiche. È stato un uomo diviso. C’è una lettera di Thomas Mann che parla di lui, della sua anima lacerata: il comunista e il borghese».

Per continuare:

http://www.repubblica.it/cultura/2015/03/23/news/andrea_carandini_l_archeologo_e_come_freud_sono_trent_anni_che_scavo_dentro_-110249520

http://materialismostorico.it/

TUTTE STORIE 

di Giuliano Castigliego, giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com, 22 marzo 2015

Ero fatta di ghiaccio e dovevo rimanere nelle vicinanze di una complicata macchina di raffreddamento per non sciogliermi completamente”. Questo sogno di una paziente è una micro-narrazione di compattezza ed efficacia fisico-matematica ma anche di straordinaria intensità emotiva. In poco più di 140 caratteri esprime l’angoscia di una giovane donna di annullarsi nell’insopportabile calore degli impulsi cui è sottoposta, l’irrisolto dilemma tra vita nel gelo sentimentale e morte nel calore della vita, la necessità di vicinanza ad un sistema/persona di raffreddamento emozionale, la consapevolezza del pericolo cui sta andando incontro nella vita reale, la richiesta di aiuto e mille altre cose ancora più significative di tanti test e colloqui. La narrazione riesce a riassumere in poche righe un’infinità di informazioni cognitive ed emotive che neanche i tanto celebrati Big data (vabbè…). E soprattutto riesce a farlo in un modo straordinariamente affascinante come racconta L’istinto di narrare che rivela quanto potentemente ci attraggano le strutture narrative dalla Bibbia agli spot attuali. Ma le storie curano anche, come ci ricordava fin dal 1983 Hillman, che si rifaceva a sua volta ai capostipiti della psicologia del profondo, Adler (“siamo guidati da finzioni”) Jung (” la psiche consiste essenzialmente in immagini”) e Freud le cui storie cliniche si leggono come romanzi, anzi, da molteplici punti di vista, lo sono. Non minore è stata d’altro canto l’importanza delle storie, dei casi, per la fenomenologia, basti pensare a Binswanger ( Il caso Ellen West e altri saggi, Il caso di Suzanne Urban: storia di una schizofrenia) e in Italia alla straordinaria opera di Borgna cui si deve il merito di aver saputo coniugare con finissima sensibilità umana ed artistica narrazione clinica e narrazione letteraria.

Per continuare:

http://giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com/2015/03/22/tutte-storie/?fb_action_ids=10205334399192792&fb_action_types=og.shares

SIGMUND FREUD NON AMAVA I FELINI. PECCATO PER LUI E PER LE SUE TEORIE. Pubblichiamo l’inizio de “Il potere del miao” di Marina Mander per gentile concessione della casa editrice Mondadori 

di Marina Mander, ilpiccolo.gelocal.it, 22 marzo 2015

Quante ore passo a guardarvi? Secondo le statistiche, la gente passa 24 anni della vita dormendo, 6 mangiando, 10 davanti alla TV…

Per continuare:

http://ilpiccolo.gelocal.it/tempo-libero/2015/03/22/news/sigmund-freud-non-amava-i-felini-peccato-per-lui-e-per-le-sue-teorie-1.11099062

 

I più recenti pezzi apparsi sui quotidiani di Massimo Recalcati e Sarantis Thanopulos sono disponibili su questo sito rispettivamente ai link: 
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4545

http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4788

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com
 

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