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Marzo II – Perdono e paura; medicina ed economia; mito, filosofia, arte

12 Mar 14

A cura di luca.ribolini

LA STRANA CECITÀ DEGLI ECONOMISTI. Il saggio di Leon sulle storture “inconsce” del capitalismo

di Guido Carandini, repubblica.it, 8 marzo 2014

Immaginate qualcosa che assomiglia alla psicanalisi ed è infatti una indagine sulle inconsce motivazioni e sugli inconsapevoli effetti delle azioni individuali nell’ambito dell’economia. Quella indagine viene condotta da un economista decisamente critico delle analisi “standard” della «microeconomia» insegnata nelle accademie, principalmente perché tali analisi sono fondate sulla opposta e ritenuta errata ipotesi che nei loro comportamenti gli individui sono consapevoli delle conseguenze che producono sulla economia nel suo complesso chiamata «macroeconomia», e che quindi può spiegarne gli esiti la semplice somma degli intendimenti e delle azioni individuali. Questo afferma dunque la teoria microeconomica che studia l’insieme di quelle azioni e che pertanto costituirebbe il fondamento della macroeconomia come in effetti generalmente si ritiene.
L’economista qui descritto nelle vesti di virtuale psicanalista è Paolo Leon che esprime quella sua critica nel suo libro appena pubblicato Il capitalismo e lo Stato, denso di sapienza accumulata in lunghi anni di studi, di frequentazione di grandi istituzioni internazionali e infine di insegnamento. La tesi principale di quel libro è «la “cecità” dei capitalisti, vale a dire l’impossibilità, connaturata alla loro essenza, che essi si rendano consapevoli degli effetti delle loro azioni sull’economia nel suo complesso». Di conseguenza per comprendere le trasformazioni del capitalismo, come il miope ha bisogno degli occhiali, così i capitalisti hanno bisogno dello Stato, il solo che può essere capace di rendersi conto della loro presenza e dei loro effetti. Questo è un vero e proprio rovesciamento di uno dei presupposti della teoria standard poiché, al contrario di essa, conferisce alla macroeconomia, in quanto interprete dell’economia nel suo complesso, un ruolo fondamentale nella comprensione delle trasformazioni del capitalismo.
Ma Leon sostiene che quel rovesciamento non è il frutto di analisi recenti poiché invece si può legittimamente far risalire addirittura al capostipite della scienza economica, dunque ad Adam Smith che nel 1776, e perciò nel bel mezzo della prima Rivoluzione industriale inglese, già se ne faceva interprete. Nella sua opera La ricchezza delle nazioni sosteneva infatti la ben nota opinione che l’individuo «perseguendo il proprio interesse spesso persegue quello della società» ma aggiungeva dell’altro che, osserva Leon, è sfuggito a molti. E che cioè quell’individuo «generalmente… né intende promuovere l’interesse pubblico né sa di quanto lo stia promuovendo». Dunque questo cosiddetto “velo dell’ignoranza” che caratterizza i singoli capitalisti aveva già per Smith un duplice significato perché da un lato costituisce la prima presa d’atto della loro indifferenza nei confronti della società cui appartengono e del suo benessere ma, d’altro lato, anche dell’importanza della macroeconomia quale insieme non intenzionale ma del tutto reale dei comportamenti dei singoli capitalisti.
E a conferma di questa ipotesi Leon nel corso del suo libro fa numerosi esempi empirici. Come la piena occupazione che insieme ad altri fenomeni è in balia di interessi microeconomici e che tuttavia solo lo Stato, quale interprete e agente della macroeconomia, è in grado di promuovere dato che gli operatori capitalisti, anche se aggregabili, determinano effetti macroeconomici indipendentemente dalla loro volontà, siano essi portatori di crisi o di ripresa. E che le crisi siano sempre possibili deriva dal fatto che sebbene i comportamenti micro hanno sempre effetti macro, i singoli soggetti sono nella impossibilità di conoscere le conseguenze delle loro decisioni sull’economia nel suo complesso. Il fatto è che malgrado si possa concepire e osservare il capitalismo come un sistema, esso è poi in definitiva la somma di imprenditori, di proprietari di capitale, di lavoratori e di corpi intermedi nessuno dei quali è in grado di rappresentarsi l’operare della loro aggregazione a vantaggio o ai danni dell’economia complessiva e quindi anche della società. E poiché lo Stato è l’agente della società, se il capitalismo è sempre in conflitto con essa, sarà anche in conflitto con lo Stato.
Le trasformazioni del capitalismo hanno sempre avuto bisogno dell’intervento pubblico, ma nelle successive crisi i rapporti fra Stato e capitalisti mutano ogni volta nella ricerca di un reciproco vantaggioso compromesso. Questo è in estrema sintesi il succo dell’analisi di Leon che costituisce nel suo insieme una guida indispensabile alla conoscenza dell’intreccio di problematiche che Keynes, riconosciuto da Leon come suo maestro, definiva così: «L’economia è una scienza dove si pensa in termini di modelli, insieme all’arte di scegliere quelli che sono rilevanti per il mondo contemporaneo». Nel suo libro Paolo Leon dimostra che nel nostro mondo sono non soltanto irrilevanti ma anche dannose le tante teorie che ancora si affannano a dimostrare la validità di possibili «equilibri» che i mercati, malgrado siano perennemente affetti da squilibri e da crisi, potrebbero ritrovare solo che cessasse l’eccessivo intervento pubblico. La cecità è quindi un difetto non soltanto connaturato ai capitalisti, ma anche e soprattutto a una moltitudine di economisti che, inconsapevolmente, producono danni rilevanti alla macroeconomia, cioè alla realtà entro la quale inconsapevolmente tutti viviamo, ma di cui essi non tengono il dovuto conto.
Il capitalismo e lo stato, di Paolo Leon (Castelvecchi pagg. 286 euro 27)
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/03/08/la-strana-cecita-degli-economisti.html 

MANUALE DEL PERDONO
di Concita De Gregorio, la Repubblica, 10 marzo 2014

Si chiede, Massimo Recalcati, se la forza dell’amore possa vincere lo spirito dei giorni. Si chiede se sia ancora possibile, come in qualche raro caso superstite è possibile, ritrovare dentro di sé la forza e il tempo che servono a sconfiggere l’imperativo dell’epoca: l’iperedonismo del discorso capitalista, lo chiama. Avere, avere, avere. Possedere. Tenere in mano ciò che procura piacere al massimo grado quel giorno, qualcosa di nuovo ogni giorno. Accaparrarsi il piacere e identificarsi in quello, godere della titolarità costosa ed effimera di un nuovo modello di auto, l’ultimo uscito, dello smartphone più moderno, del televisore al plasma a più alta definizione. Dell’amore nuovo, dell’uomo o della donna che riaccendono il desiderio adesso. Effimero, il piacere dell’ultimo modello, perché ciò che è nuovo oggi sarà vecchio domani, forse già stasera. E però sostituire, rottamare, decidere in fretta e decidere possibilmente da soli: queste sono le parole guida del tempo, nella vita privata come in quella pubblica, a casa e in politica. Fare presto, fare a meno dell’eccesso di dialogo che potrebbe appesantire e frenare, fare senza il dubbio che rallenta e l’ascolto che distrae. Stare bene. Essere liberi di scegliere e farlo. Muoversi, cambiare, correre. Flessibilità, cinismo, opportunismo, infine e sempre: decidere il meglio per sé, prenderlo. È questo che ci rende felici? Davvero lo fa?
Non è più come prima, s’intitola il libro, ed è un «elogio del perdono nella vita amorosa». Giacché di questo si parla: di amore. Tutto il resto ne discende. In particolare va in cerca, Recalcati, di quella particolare modalità di amore che è «l’amore che resiste, che insiste». L’amore capace di durare nel tempo e di non cedere alla lusinga della nuova sirena, alla rabbia dell’onore offeso, alla delusione dell’imperfetta corrispondenza con le attese e coi bisogni. Capace di perdonare la sua stessa imperfezione. Fuori metafora, e molto più semplicemente: è ancora possibile, oggi, conservare un amore e perdonare il tradimento? Decidere di restare con qualcuno che torna? Oggi, perché in passato sì che lo era: per intenzione o per forza questo assai spesso si faceva, lo raccontano i nonni ma più ancora le nonne. E qualche superstite c’è, si diceva: come sopravvissuti a un’epidemia di peste ci sono, attorno a noi, alcuni indenni dalla schiavitù del nuovo, del sostituto, dell’arbitrio scambiato per libertà di scelta. Recalcati racconta la storia di un uomo, in chiusura del suo libro. La storia di O. Dice quanta fatica costi restare dentro il perimetro dell’amore tradito, ma di quanta profonda gioia sia colma la meta. Perché spesso perdonare è alla fine più facile che essere perdonati, e perdonarsi. Le 130 pagine che precedono il “diario di un dolore”, l’epilogo che racconta la storia di O., sono un trattato sull’amore che non vuole morire. Un abbecedario delle insidie e degli ostacoli. Un dizionario delle parole e dei gesti da ritrovare e da mandare a mente, cancellati come dopo un disastro nucleare dalla bomba. Libertà e schiavitù. «La ricerca compulsiva del nuovo non è libertà, è la nuova schiavitù». Abbandono e attesa. Ciascuno di noi esiste solo nel riconoscimento dell’altro. Il neonato che grida sta chiamando solo se c’è qualcuno che ascolta e che accorre. «Eccomi», dice l’altro. Dunque esisti, se ti sente. Se chi ami ti abbandona cessi di esistere: entri in un mondo fuori dalla scena del mondo. Fedeltà e sacrificio. È davvero la fedeltà una rinuncia al desiderio? Gelosia e libertà. Si può tenere prigioniero un amore? Esiste una libertà prigioniera della domanda dell’altro, anche se l’altro domanda solo – solo – di essere desiderato nel corpo? Scrive Recalcati: «Il lavoro del perdono è un lavoro che esige tempo: la memoria dell’offesa viene attraversata e riattraversata al fine di raggiungere un punto di oblio che rende possibile un nuovo inizio». Somiglia al lutto ma lì l’oggetto è morto, qui è vivo. Anzi: è vivo e morto allo stesso tempo. Bisogna riuscire, vincendo l’orgoglio narcisistico e le sue espressioni tanto spesso violente, a perdere il primo oggetto d’amore per trovarne un altro. Come tastando alla cieca un corpo nel buio. Si può? Si può. Per gli uomini è più difficile perdonare. «Per l’uomo l’identità è un’uniforme», l’offesa è un’umiliazione sociale. Se l’imperativo categorico è il godimento, ogni ostacolo sarà rimosso con violenza. L’uomo può uccidere in nome dell’amore e può uccidere in nome di Dio, con la stessa cecità sorda. La tragedia di molte donne, al contrario, non è solo essere picchiate ma non riuscire a vivere lontano da chi le picchia.
Eppure esistono, mostra l’autore, amori rari che «rispettano le distanze, si nutrono delle differenze, amori che si sostengono sulla solitudine reciproca degli amanti». Esiste la possibilità di sottrarsi alla menzogna del nostro tempo senza per questo rassegnarsi a una vita priva di desiderio. È un sentiero stretto, ma c’è e qualcosa tutto attorno a noi ci dice che si sente il bisogno di tornare a percorrerlo. Lo raccontano Roth e Mc-Carthy, Tornatore e De André. Lo dice la politica: cambiare solo in nome del nuovo non soddisfa il bisogno profondo, i bisogni reali. Lo indica la saggezza popolare, perché il meglio è nemico del bene. La luce, dice Recalcati, è piena d’ombra. Sempre più rara è la solitudine eppure la vera pienezza non nasce che dall’incontro con se stessi. Poi serve è vero, come al neonato, la risposta dell’altro. Che tuttavia è imprevedibile, sempre, e mai risiede nelle attese. Ogni amore è in pericolo. Saper accogliere quella risposta, attenderla, salutarla con sollievo quando torna. Questo il segreto, fin dalla culla.
http://www.zeroviolenzadonne.it/rassegna/pdfs/10Mar2014/10Mar201432d99c9d88f429b65c02c1240e3a97f5.pdff5 

“IL PERDONO CONSENTE DI APRIRSI ALL’AMORE ALLA VITA GENERATIVA”. Massimo Recalcati, psicoanalista: “Il nostro è il tempo della ‘notte dei Proci’. Sembra che l’unica forma possibile della legge sia quella dell’assenza di legge… dove l’unica forma possibile della legge sia quella del godimento senza limiti. Dunque è il tempo dell’odio e della prepotenza, della rivalità di tutti con tutti… Per questo la parola di Francesco suona forte nella sua inattualità”

di Gianni Borsa, agensir.it, 10 marzo 2014
 
“Dio non si stanca mai di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere la sua misericordia”. È una delle frasi più note finora pronunciate e scritte (nella Evangelii gaudium) da Papa Francesco. Il “Dio paziente” perdona infinitamente, afferma il pontefice venuto dai confini del mondo. Buonismo senza limiti? Oppure interpretazione fedele e attuale del vangelo di Gesù? “Il cristianesimo è una esperienza radicale dell’amore che trova la sua prova più alta propria nel gesto del perdono”, sostiene, interpellato in proposito, Massimo Recalcati, psicoanalista, docente universitario (attualmente insegna Psicopatologia del comportamento alimentare a Pavia), direttore scientifico dell’Irpa, Istituto di ricerca di psicoanalisi applicata, e supervisore clinico presso il reparto di neuropsichiatria infantile all’ospedale Sant’Orsola di Bologna. Il professor Recalcati, studioso dei comportamenti umani e delle moderne patologie, è fondatore di Jonas, onlus senza fini di lucro, centro di clinica psicoanalitica per i nuovi sintomi, oggi presente in varie città lungo tutta la Penisola.
Una delle parole-chiave del primo anno di pontificato di Bergoglio è certamente “misericordia”. È un termine cui papa Francesco fa spesso ricorso, soprattutto per parlare di un Dio buono, che “perdona sempre”. Questa parola – forse un po’ emarginata nel nostro vocabolario corrente – a lei quali sentimenti suscita? “Misericordia” è un termine buono solo per chi crede o può avere un valore universale, un significato “laico” altrettanto ricco e profondo?
“Penso che la grande sovversione della predicazione di Gesù stia tutta nella centralità che essa attribuisce alla misericordia e al perdono. Laicamente non stabilisco nessuna differenza tra le due parole. Il cristianesimo è una esperienza radicale dell’amore che trova la sua prova più alta propria nel gesto del perdono. Ma cosa significa la parola ‘perdono’? Se il pontificato di Francesco si apre con questa parola è perché vi riconosce l’essenza del cristianesimo. La predicazione di Gesù completa la legge per come era stata trasmessa nell’Antico testamento. Il perdono, la centralità dell’amore come dono attivo di se stessi senza pretese di risarcimento, ha, al tempo stesso, sospeso e integrato la legge del Dio di Mosè. Prendiamo l’esempio dell’adultera. Quale fu il gesto di Gesù? Innanzitutto quello di sospendere l’applicazione automatica della legge del taglione, della legge che punisce con la morte e la lapidazione le donne adultere. Ma questa sospensione della legge che si deve al perdono consente di aprirsi a una nuova legge che non è quella della vendetta ma quella dell’amore. Papa Francesco vuole riportare la Chiesa alla parola di Gesù. Vuole sospendere la logica della lapidazione per aprire il cuore a una altra versione della legge. Il perdono non dipende da quello che l’altro fa. È un dono asimmetrico, sbilanciato, disinteressato, assoluto. Non esige contropartite. Eccede quella logica dello scambio che invece domina il nostro tempo. Una vita non diventa forse umana quando si emancipa dallo spirito di vendetta e dalla violenza per accedere alla gioia misteriosa del perdono?”.
Attraverso la sua professione lei avverte la necessità, la richiesta di misericordia e di perdono fra le persone che incontra, che si affidano a lei?
“Lo psicoanalista lavora sul dolore delle persone che gli si rivolgono. Questo dolore può avere tante forme. È il dolore del giovane senza speranza, del tossicomane che dissipa la propria vita, del depresso che non ha più futuro, di chi ha subito un lutto che sembra inelaborabile, di chi si sente schiacciato dall’angoscia e dal panico, di chi si sente perso, smarrito o schiavo da dipendenze che non è in grado di governare con la forza di volontà, di chi subisce una delusione d’amore… Ma esiste una radice comune a tutti questi volti della sofferenza. Questa radice comune è il sentimento di non riuscire a rendere la propria vita generativa, capace di dare frutti. Molti pazienti vivono nell’odio invidioso e nell’isolamento rancoroso non perché non riescono a trovare l’amore, ma perché hanno paura dell’esposizione assoluta che l’incontro d’amore esige. Allora preferiscono la fuga nella malattia al rischio di questo incontro”.
Dal “perdono” nascono – secondo Papa Francesco – pace, serenità, nuove relazioni… Ciò potrebbe valere sia per i singoli sia nei rapporti tra i popoli e gli Stati. Misericordia e perdono possono essere considerati come “strumenti” della politica o della diplomazia nella nostra era globale?
“Il nostro tempo è il tempo della ‘notte dei Proci’. È il tempo in cui sembra che l’unica forma possibile della legge sia quella dell’assenza di legge. O, meglio, è il tempo dove l’unica forma possibile della legge sia quella del godimento senza limiti. Dunque è il tempo dell’odio e della prepotenza, della rivalità di tutti con tutti… Per questo la parola di Francesco suona forte nella sua inattualità. Egli invita a lasciare cadere il feticismo degli oggetti per ridare valore al piano della relazione, all’esperienza dell’amore come dono. In un tempo dove la potenza seduttiva dell’oggetto sembra trionfare, Papa Francesco mostra tutta la menzogna contenuta in questa seduzione. Il bene non è nel ‘nuovo’, non è nel possedere il nuovo oggetto, il bene è nel rendere la propria vita capace di dare frutti, capace di essere generativa. Non è questo il solo peccato che la predicazione di Gesù riconosce? Il peccato di sprecare il proprio talento? Non è questa la colpa più grande dell’uomo, forse la sola colpa degna di questo nome? Non è questa la responsabilità dei Proci che scatena l’ira di Ulisse? Fare della propria vita niente”.
Questo Papa è ritenuto un comunicatore efficace, un uomo di fede che sa parlare al cuore delle persone, forse anche dei non credenti: lei cosa ne pensa?
“Francesco non è un esperto di tecnica della comunicazione. Non è da questo che scaturisce il suo carisma. In Italia abbiamo conosciuto leader che hanno guadagnato il consenso grazie alle loro capacità mediatiche. Ma non è il caso di Francesco. Qui c’è qualcosa in più. E quello che c’è in più è la forza della sua enunciazione. Non solo quello che dice e come lo dice ma da dove lo dice. E da dove parla Francesco? Parla dal posto di un padre che ha scelto la via della sua più radicale umanizzazione, che non nasconde la sua fragilità e la sua vulnerabilità; da un padre che invita all’amore e al perdono perché sa cosa è amore e perdono. La forza di questo Papa non risiede tanto nella sua capacità di parlare alla gente, ma nel suo gesto, nei suoi atti, nella sua testimonianza, in come sa incarnare il Verbo che trasmette. Per questo egli sposta le persone e i cuori”.
http://www.agensir.it/sir/documenti/2014/03/00282281_il_perdono_consente_di_aprirsi_all_amore_.html

LA PAURA CHE CI SALVA O CI IMPRIGIONA

di Marina Valcarenghi, ilfattoquotidiano.it, 10 marzo 2014
La parola paura è oggi la più ricorrente nel corso di un’analisi, di quasi qualunque analisi e non era così anche solo vent’anni fa. Intendiamoci: la paura è un sentimento complesso e può essere sia l’istintiva difesa di fronte a un pericolo, sia il freno davanti a un ostacolo vero o immaginario. Nel primo caso la paura ci salva, nel secondo ci imprigiona.
Scrivo qui della paura che ci imprigiona e che presume di azzerare un rischio creandone uno peggiore perché appanna la vita. All’ombra di questo potere nessuna felicità sembra possibile, ma solo la provvisoria quiete di un nascondiglio. “Ho paura dell’aereo” “Non prendo mai l’ascensore” “Ho paura degli imprevisti” “Mi terrorizzano i piccioni” “Non guido in autostrada” “Non sopporto la solitudine” “Ho paura di innamorarmi” “Temo di essere disapprovato”: frasi come queste denunciano un sintomo, ma la vera paura sta nascosta da qualche altra parte perché non ce la si fa a prenderla in considerazione.
Il sintomo – in altre parole – devia inconsciamente il sentimento verso obbiettivi affrontabili. Siamo spaventati, alla fine,- dal vivere e dal morire. Ed è molto comprensibile; ma, affrontando la vera paura, si trova poi anche il coraggio di andare avanti e di riconoscere la bellezza della vita. Si tratta di un sentimento particolarmente vivo nei momenti di crisi e di passaggio, nella vita individuale e collettiva, quando diventa necessario andare oltre e si teme – spesso senza rendersene conto – ciò che non si conosce e anche ciò che si conosce ma che non si controlla.
Per esempio nella vita di un essere umano è il passaggio dell’adolescenza a fare paura, ma anche la gravidanza e il puerperio, l’inizio di una nuova attività, un trasferimento, l’arrivo della vecchiaia. Ma poi nella maggioranza dei casi l’istinto si incarica di travolgere le resistenze e di farci andare avanti. Nella vita collettiva sono per esempio le emergenze sociali, le guerre, le trasformazioni radicali del costume, le crisi economiche a fare paura e quindi possiamo capire come mai oggi questo sentimento si aggravi e si diffonda fino a diventare un disagio psichico collettivamente rilevante.
Abitiamo l’impero della paura, spesso senza saperlo, ma soffrendone l’oppressione. La paura dell’avventura e la paura del conflitto mi sembrano due comportamenti particolarmente diffusi in questi anni e in diversi modi mascherati. Ne parleremo nei prossimi giorni.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03/10/la-paura-ci-salva-o-ci-imprigiona/907947/

IMPARARE AD ASCOLTARE PER DIFENDERSI DALLA SINDROME DI MEDEA
di Silvia Vegetti Finzi, il Corriere della Sera, 10 marzo 2014
Di fronte a fatti così atroci si resta ammutoliti perché sembrano smentire le sicurezze più convalidate della nostra vita: la naturale salvaguardia dei bambini, l’amore materno, i buoni sentimenti della famiglia. Visto che è impossibile comprendere quali baratri si celino dietro la coscienza, molti preferiscono passare oltre rifugiandosi nell’indifferenza emotiva. Ma la maggior parte delle persone avverte un profondo senso di compassione (proprio nel senso etimologico di «patire insieme») per le vittime di una violenza inaudita che, in questo caso, ha ucciso tre bambine e distrutto una famiglia. Definiti «normali» dai vicini di casa, i protagonisti di questa tragica vicenda mostrano la difficoltà, particolarmente in casi così complessi, di cogliere e decifrare i segnali di malessere che preannunciano ogni gesto estremo. Eppure la nostra cultura contiene, in proposito, numerosi avvertimenti. I Greci, come illustra il teatro tragico, consideravano la famiglia il luogo della tragedia e i miti ne svelavano le componenti passionali. Tra questi, il mito di Medea, maga, straniera e regina, mostra di quanta violenza possa essere capace una donna tradita e abbandonata. Nella versione di Euripide, Medea uccide i due figli per vendicarsi del marito ma, invece di essere condannata a morte, viene trasportata in cielo dai cavalli alati del Sole. Questa fantasia collettiva denuncia il pericolo insito nella distruzione del patto coniugale, la centralità dei figli nei conflitti di coppia e il rischio che l’amore materno si rovesci nel suo contrario, in pulsione violenta. Una inversione dalla vita alla morte che la donna, da sola, non riesce a contrastare e che richiede pertanto di affinare la sensibilità e mobilitare la responsabilità di coloro che le stanno accanto.
http://www.zeroviolenzadonne.it/rassegna/pdfs/10Mar2014/10Mar2014fabeba73610b596004d2919c334e0aa1.pdf

LACAN E I FILOSOFI: DUE GIORNATE TRA FILOSOFIA E PSICOANALISI

di Redazione, ilquotidiano.it, 10 marzo 2014
L’insegnamento di Jacques Lacan è attraversato da parte a parte da continui riferimenti alla concettualità filosofica. Basterebbe ricordare la presenza di Kant, Hegel, Heidegger o Sartre, per toccare con mano questa dimensione ineludibile del suo discorso. Lo stesso accade quando Lacan parla di soggetto, desiderio, godimento, scarto.
Per questo è sembrato opportuno istituire uno spazio dedicato ad approfondire e, letteralmente, sperimentare questo versante filosofico del cammino lacaniano. E per questo è sembrato opportuno dare a questo spazio la veste di dipartimento di “filosofia teoretica”. Questa è infatti la denominazione ufficiale, benché sempre più disattesa nei atti, che la filosofia assume nelle università quando non si presenta come storia della filosofia, come ricostruzione di ciò che altre epoche e altri pensatori hanno pensato, ma come filosofia al lavoro, come pratica vivente, come filosofia che si esprime non in un sapere acquisito ma in un gesto. A questa gestualità allude, tra l’altro, quella sorta di insistenza o di raddoppio presente nella definizione di filosofia teoretica”: letteralmente, “filosofia che fa filosofia”.
Si tratta, nello spazio di questo dipartimento, di svolgere un esercizio di pensiero, di praticare la filosofia come pensiero al lavoro. Esponendosi, evidentemente, al rischio di fallire, dato che per definizione la filosofia teoretica non ammette di partire da verità acquisite e non vuole semplicemente trasferire da maestro ad allievo risultati acquisiti. È un rischio che d’altra parte coincide con una vera e propria esperienza in cammino, con una sorta di performance che ogni volta deve ricreare da zero, a partire da se stessa, il proprio sfondo e il proprio senso.
29 marzo – Prima giornata
Lacan e la differenza. Tra Hegel e Heidegger
Con Matteo Bonazzi, Federico Leoni, Rocco Ronchi
Coordina Franco Lolli
3 maggio – Seconda giornata
Lacan e l’immanenza. Tra Sartre e Deleuze
Con Federico Leoni, Daniele Poccia, Rocco Ronchi
Coordina Franco Lolli
http://www.ilquotidiano.it/articoli/2014/03/10/120104/lacan-e-i-filosofi-due-giornate-tra-filosofia-e-psicoanalisi

DELLA COMUNICAZIONE DEMOCRATICA TRA MEDICO E PAZIENTE
di Pietro Barbetta, doppiozero.com, 11 marzo 2014

Nell’affrontare il rapporto medico paziente è necessario, a mio avviso, partire da due premesse ineludibili. La prima fu enunciata da Michel Foucault (1926-1984). Riguarda la caratteristica costitutiva del rapporto tra vita e Potere nella società moderna. Per gli antichi “Potere” è minacciare la morte del suddito da parte del Re, in quest’epoca è mantenere la vita. Il potere si coniuga con il sapere. Si crea una relazione asimmetrica inevitabile tra il soggetto e l’esperto. Come, per esempio, tra il paziente e il medico. La seconda premessa è che la relazione medico-paziente non è più interpersonale, è relazione tra un gruppo, quello dei sanitari, e un altro gruppo, quello della comunità del paziente, che è sempre di là da ogni possibile identificazione chiara e distinta: familiari, amici, conoscenti, tutori, rappresentanti legali, ecc. (Dizard a Gadlin hanno felicemente definito questo insieme col termine minimal family, cfr. Dizard & Gadlin The Minimal Family)
Da queste premesse emerge la necessità etica di accertare se, in qualche modo, per la prima o la seconda ragione, i diritti umani e civili di un paziente siano o no violati. Non in generale, ma in qualunque momento, momento per momento, durante l’intero decorso del trattamento sanitario. Il mondo anglosassone ha qualcosa da insegnare in questa ricerca perché questo problema fu posto molti anni prima da filosofi, operatori sanitari e sociali, esponenti religiosi, comunità etniche e culturali minoritarie. In tempi recentissimi le istituzioni italiane, forse un po’ timidamente, hanno ripreso alcune considerazioni da quel dibattito culturale. Così il Dipartimento della qualità della Direzione della Programmazione sanitaria, richiamandosi alle esperienze inglesi, canadesi e statunitensi, insiste nell’affermare che:
Gli autori [anglosassoni] richiamavano l’attenzione sul fatto che, spesso, le organizzazioni dei sistemi sanitari non favoriscono la pubblicizzazione e la discussione delle analisi degli eventi avversi, avendo ancora una cultura della riservatezza. Questa cultura della riservatezza potrebbe talvolta risultare svantaggiosa ai fini della sicurezza dei pazienti; è anche attraverso la circolazione delle informazioni, infatti, che si possono progettare sistemi sanitari sempre più sicuri. È doveroso perciò affrontare il problema della sicurezza dei pazienti accettando la fallibilità umana, studiando i potenziali fattori contribuenti presenti nel sistema sanitario ed imparando a gestire il rischio attraverso la partecipazione consapevole di tutti gli attori. (Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, Dipartimento della qualità Direzione Generale della programmazione sanitaria, dei livelli essenziali di assistenza e dei principi etici di sistema Ufficio III, p. 4)
Belle parole, gli è che a queste raccomandazioni si contrappone un’idea tutta italiana della fidelizzazione, della serie “i panni sporchi si lavano in famiglia”. Per esempio l’idea di una “comunicazione perfetta” a priori. Poiché “perfetta”, una comunicazione non può venire messa in discussione, tende a negare ogni tipo di fallibilità e diviene negazionista rispetto agli errori, che facilmente si trasformano in abusi. Questo accade per esempio quasi ogni volta che è esercitata la contenzione, come in alcune istituzioni psichiatriche italiane. Però in certe aree del nostro paese, a coadiuvare queste raccomandazioni, nascono gli UFE (utenti e familiari esperti). Là pazienti e familiari dei pazienti sono riconosciuti esperti. Sembrano finalmente contraddette le concezioni di un paziente lamentoso e bugiardo, cade l’idea che il resoconto del paziente o del suo familiare non è credibile. Declina la concezione che i resoconti “oggettivi” sono quelli che gli operatori sanitari si comunicano tra loro, che, come suol dirsi, se la suonano e se la cantano da soli. Sembra finalmente avere termine quel narcisismo sanitario che ha contraddistinto buona parte dei servizi sanitari negli ultimi vent’anni in alcune regioni italiane. La figura del medico onnisciente, dalla cui bocca pendono gli altri operatori sanitari, sembra forse dileguarsi piano piano.
Da parte delle massime istituzioni del paese, dopo vent’anni di sonno, si riconosce che non esiste una comunicazione perfetta ed esaustiva, ma esiste ciò che in inglese si chiama accountability. Il termine potrebbe essere tradotto in italiano con responsabilità, o, ancor meglio, responsività. Si tratta, in altre parole di mettersi all’ascolto, per parafrasare il titolo di un libro di Jean-Luc Nancy. Qualcuno dice, negoziare fino in fondo, eppure il termine “negozio”, presente nel verbo “negoziare”, non rende “fino in fondo” il tema della responsività. È ancora come se ci fossero due parti scisse, l’una che dispone e cerca di vendere il dispositivo (qualunque esso sia), l’altra che, in un modo o nell’altro, si assoggetta. Non si tratta di negoziare, si tratta di cambiare la maniera di comunicare, la salute pubblica non è un negoziato, né un negozio.
La salute pubblica riguarda la fiducia: il paziente è un cittadino, ma è anche un soggetto. E non è la stessa cosa, sono due cose fondamentali, come cittadino deve essere rispettato (il padre), come soggetto deve gettare il cuore oltre l’ostacolo (la madre). Userò un’espressione dello psicoanalista Franco Fornari (1921-1985): la salute pubblica comporta la presenza costante di “codici materni”, non come codici per l’assistenza, ma come codici per la fiducia reciproca. Codici tra pari, in cui l’operatore sanitario fa un passo indietro rispetto al paternalismo dell’onniscienza e riconosce che l’esperto della propria vita è il paziente. In quei giorni di vera democrazia, se mai verranno, persino l’usuale termine “paziente” dovrà essere abbandonato. Allora si parlerà di soggetto, imparando che il soggetto non è l’Io, ma ciò che vi eccede e che questa eccedenza non è una particolarità specifica di qualcuno, bensì il carattere costitutivo di ognuno.
http://doppiozero.com/rubriche/336/201403/della-comunicazione-democratica-tra-medico-e-paziente

LA PSICHE ALLA PROVA DEL PENSIERO. Ridiscutere Freud sulla scia di Darwin e di Popper. La cura dei disturbi mentali ha bisogno dei classici

di Giancarlo Dimaggio, Il Corriere della Sera, 11 marzo 2014
Sono a cena con i miei amici psicoanalisti, Giulio e Tullio, amicizia di cui non rivelo le origini. Una pizzeria a Trastevere è il teatro della conversazione. Chi scrive è uno psicoterapeuta cognitivista. Parte dei nostri dialoghi è la ripetizione di un copione. Giulio è un’esegeta di Lacan, Tullio si posiziona nel mondo post-freudiano (il protagonista del serial tv In Treatment è un esempio verosimile di quel tipo di psicoanalisi) in cui la psicoanalisi è costruzione intersoggettiva del significato, posizione con la quale concordo — per me ho scelto una psicoanalista di quell’orientamento. Poco prima che ci servano la pizza, la recita è già al secondo atto: disaccordo completo.
Giulio sostiene un’ermeneutica radicale (si parte da Heidegger, si passa per Gadamer), per cui l’analisi è un incontro idiosincratico tra soggetti, comprensibile solo all’interno dello scambio analitico. Ogni osservazione esterna è impossibile, depriverebbe il soggetto parlante della sua voce, in nome di un’oggettività che ne schiaccerebbe la libertà.
Dissento per due motivi. Il primo è la mia avversione per Lacan, per me nulla più di una sorta di paralinguaggio. Il secondo è nel nome di Darwin e Popper. Dopo Darwin, considero le teorie pulsionali di Freud una reliquia del passato, che sopravvive in cenacoli a dimostrare che nel mondo post-moderno nulla scompare davvero. Gli umani si sono evoluti guidati da motivazioni che permettevano sopravvivenza, adattamento all’ambiente e coesione del gruppo. L’istinto di morte, postulato da Freud, è inutile, è sufficiente l’entropia a fare quel lavoro. Una psicoterapia che si basi sull’idea che siamo guidati da tale istinto nasce fallace. Popper è l’altro motivo del contendere. Si tratta della responsabilità dello psicoterapeuta verso la società. C’è qualcosa di unico e irriproducibile nell’incontro tra paziente e psicoterapeuta? Sì. Questo esime il clinico dal dovere rendere conto della sua azione? Ritengo di no. Memore delle critiche di Popper a Freud, mi colloco in una comunità di scienziati cognitivi che operazionalizza idee falsificabili e si affida alle prove per decidere cosa è buona pratica e cosa va lasciato in disuso nelle periferie della storia delle idee. Gli psicoterapeuti cognitivisti sono educati a questo. Molti psicoanalisti oggi condividono tale assunto e, per esempio, la teoria freudiana del transfert, in formulazioni più moderne e ostensibili, è stata investigata e corroborata da dati.
Ci servono la pizza, birra artigianale italiana influenza il tono della conversazione. Il cognitivismo trascura la costruzione del significato, sostiene Giulio, riduce l’uomo ai suoi sintomi e l’animo umano non è misurabile. So che in parte dice il vero. Parte della psicoterapia cognitiva resta miope al significato personale sottostante ai sintomi. Per gran parte invece vi è attenta. Sulla misurabilità mi scaldo. Si tratta di essere quanto più popperiani possibile. L’ineffabile del discorso terapeutico resterà, ma tutto ciò che si può trasformare in variabile oggetto di verifica beh, io lo voglio misurare. E vedere se cambia in una psicoterapia di successo. E voglio che parametri esterni al mio giudizio clinico valutino se ho ben lavorato o commesso errori. Tullio fa da arbitro. Tutti noi abbiamo fallimenti e successi nella nostra pratica clinica. Vero. Ma, obietto, una disciplina che riuscisse a salvare 7 persone su 10, e fornisse dati a supporto, non sarebbe preferibile ad una che ne salvasse 5 su 10? Per questo vogliamo misurare il misurabile.
Concordiamo, non senza una nota di compiacimento, di sentirci personaggi di un dialogo platonico. Foucault interviene nella conversazione e qui siamo più d’accordo. Nel frattempo abbiamo espresso diverse scelte nelle birre: io sono per le ambrate di stampo belga. Innanzitutto me ne piace il colore. Giulio e Tullio optano per delle chiare di frumento, Weizenbier. Non considerate le osservazioni sul cibo marginali. Lasciando Cartesio alle spalle, il corpo è considerato il nucleo della nascita delle idee, la conoscenza è conoscenza incorporata. Dicevo: Foucault. Da cognitivista sono abituato a fidarmi dei dati empirici che indicano cosa è efficace in psicoterapia e cosa no. Questo rende noi cognitivisti facilmente proni a presumere di avere un sapere superiore. Ma, chi controlla i controllori? La scelta delle variabili da misurare e dei protocolli da valutare empiricamente non è un fattore da trascurare. I cognitivisti sono influenti politicamente, ben piazzati nelle commissioni che erogano i finanziamenti. Quindi un gruppo di potere. Che tende a perpetuare se stesso e accrescersi, niente di strano. Gli psicoanalisti — enclave dominante per decenni — lo sanno, lo hanno notato e hanno osservato che l’efficacia maggiore delle terapie cognitive dipendeva in parte da cosa si sceglieva di misurare.
La comunità più ampia di psicoterapeuti e ricercatori ha considerato la critica ragionevole. Di conseguenza, gli studi più recenti sull’efficacia delle psicoterapie tendono a includere misure del funzionamento interpersonale (tema psicoanalitico) e non solo il cambiamento sintomatico. I cognitivisti hanno imparato qualcosa. Gli psicoanalisti, almeno i più illuminati, si allenano a sottoporre la loro pratica a verifica. Il confronto si svolge sul campo. Cosa funziona meglio? Oggi è difficile dirlo. La psicoterapia cognitiva è sicuramente molto più studiata. Le basi della sua efficacia più solide e ampie. Ma in generale il cosiddetto equivalence effect sembra prevalere: le psicoterapie manualizzate e studiate empiricamente tendono a generare risultati di efficacia paragonabile.
Forse le psicoterapie cognitive offrono risultati migliori degli altri approcci, ma di poco e non è per niente certo. Intanto gli psicoanalisti modificano i protocolli, imparano le regole del gioco. Già, le regole del gioco. Perché alla fine di quello si tratta. Esiste una componente ineffabile, irripetibile, non misurabile nella seduta psicoterapeutica? Sì. Esiste una componente misurabile? Sì. Qual è il gioco che preferiamo giocare? Io mi sento più a mio agio nella partita in cui si debba rendere conto ad un osservatore terzo che analizza i dati.
Ma a quel punto non è più importante. Tullio onora Gigi Proietti e racconta la storiella del cavaliere bianco e del cavaliere nero. Giulio replica con qualcosa di irriferibile. La gentile ombra di Epicuro si è posata sul nostro tavolo.
http://www.stateofmind.it/2014/03/psiche-alla-prova-del-pensiero-psicoterapia-filosofia/

MARION MILNER. UNA VITA TUTTA PER SÉ

di Cinzia Bigliosi, doppiozerco.com, 12 marzo 2014
“Questo libro è il documento di una ricerca durata sette anni. Lo scopo di questa ricerca era scoprire che tipo di esperienze mi rendevano felice” è l’incipit che punta dritto al senso del saggio Una vita tutta per sé di Marion Milner (pubblicato a Londra nel 1934 con lo pseudonimo di Joanna Field, lo stesso con il quale ne licenziò la prima versione italiana La Tartaruga edizioni nel 1977). Una vita tutta per sé – che inaugura la collana “Pensiero e pratiche di trasformazione” diretta da Annarosa Buttarelli per la Moretti&Vitali, casa editrice da sempre attenta nel fiutare i movimenti e le declinazioni in continuo divenire delle scienze umane – è una perla preziosa nel panorama della consulenza filosofica di trasformazione a cui si riferisce il Master universitario dov’è nata anche l’idea di questa collana di manuali.
Marion Blackett in Milner nacque nel 1900 a Londra dove si laureò a ventitre anni in psicologia e fisiologia. Tirocinante al dipartimento del National Institute of Industrial Psychology, lavorò su test mentali e problemi della concentrazione fino alla fine del 1927 quando vinse una borsa di studio alla Harvard Business School dove seguì i corsi di E. Mayo fino al 1930, contestualmente a un’analisi junghiana. Tra una ricerca alla Girls Public Day School Trust sul tema dell’insuccesso scolastico, e la scrittura di testi autobiografici, fu all’indomani di una conferenza del pediatra e psicoanalista Winnicott alla quale assistette nel 1938 che decise di intraprendere un’analisi freudiana e, un anno dopo, il percorso di analista, sotto la guida della dr.ssa Payne, appartenente al Middle Group – il gruppo neutrale, nel mezzo rispetto alle due scuole di psicanalisi britanniche in forte dissenso tra loro, capeggiate una da Anna Freud, l’altra da Melanie Klein. Contestualmente all’analisi, Marion Milner frequentò regolarmente la clinica di Winnicott del Paddington Green Children Hospital, l’osservatorio pediatrico rivolto a mamme e neonati e si dedicò ogni giorno al disegno e alla pittura. L’esperienza confluì nel testo Non poter dipingere (1950).
Nella prefazione Anna Freud sottolineò come il metodo filosofico-analitico della Milner non fosse di natura strettamente riflessivo, ma aderisse alla pratica della trasformazione come esercizio radicale del partire direttamente da sé. “L’approccio di Marion Milner alla creatività psichica,“ scriveva Anna Freud, “differisce sotto molti aspetti da quelli generalmente noti e accettati, con i quali i lettori di psicoanalisi hanno una certa familiarità. Come oggetto della sua ricerca, la Milner non sceglie l’artista professionale e riconosciuto, ma se stessa come pittrice dilettante. […] È affascinante, per il lettore, seguire i tentativi dell’autrice di liberarsi dagli ostacoli che le impediscono di dipingere, e paragonare questa battaglia per la libertà dell’espressione artistica alla battaglia per la libera associazione e lo svelamento della mente inconscia, che costituiscono il nucleo del lavoro terapeutico dell’analista.” Lavoro che conobbe l’apice del proprio successo nella conclusione del percorso di analisi descritto in Le mani del dio vivente (1969), storia di una paziente schizofrenica curata attraverso l’interpretazione dei suoi disegni portati in seduta.
L’intreccio tra teoria e pratica nutrita dall’esperienza personale ha disegnato l’intero arco della ricerca di analisi della Milner. L’entusiasmante lettura dei Saggi di Montaigne fatta nel 1926 le ispirò il diario alla base di Una vita tutta per sé, perché l’autore francese “insiste sul fatto che ciò che chiamiamo anima è molto diverso dalle nostre aspettative e spesso è proprio il contrario,” scrisse nella Postfazione Marion Milner. Così il suo diario voleva essere il monitoraggio quotidiano di un’anima apparentemente in evoluzione, ma in realtà bloccata, perché “mi pareva chiaro che la mia vita non fosse come la volevo.” Da una constatazione comune all’esistenza dei più – La mia vita non è quello che vorrei – prende il via questo saggio accattivante e, per sua stessa natura, ben lungi dall’essere imparziale. “Eccitante come una detective story,” recensì entusiasta il poeta W.H. Auden nel 1934, il diario ha come oggetto principe dell’indagine nel proprio universo interiore la felicità, intesa come sia dell’autrice – che si definisce “un detective” – sia di chi le sta intorno, perché “convinta che il metodo della mia ricerca possa essere utile ad altri, anche a coloro le cui scoperte su se stessi fossero l’opposto delle mie.”  Rispetto al testo a cui occhieggia il titolo scelto dalla Milner, la Stanza tutta per sé di Virginia Woolf (1929), Una vita tutta per sé pare indicare il trapasso evolutivo rispetto alle possibilità di un’esistenza, da una stanza a una vita finalmente afferrata nella sua pienezza e dove nessun cambiamento è rettilineo, ma spiriforme come gli stessi pensieri.
Al termine del saggio, Marion Milner concluse che “si possono affrontare i problemi in due modi possibili e opposti. Uno, cercare di cambiare il mondo esterno, l’altro, cercare di cambiare se stessi.” Spesso ci si muove in modo unilaterale, finendo per impantanarsi in sterili movimenti a vuoto. La giusta distanza sta nel faticoso percorso che sta nel mezzo e che deve tenere lontani dalla cecità “sulle proprie inclinazioni,” così come dall’”accettare come propri i bisogni confezionati dagli altri” per noi. È un libro divertente, pieno di comprensione, di umanità e di forza Una vita tutta per sé, ma non privo di insidie, perché, sia ben chiaro, “che nessuno pensi d’intraprendere un esperimento del genere senza essere preparato a scoprirsi più pazzo di quanto avesse pensato.” I lettori sono avvertiti.

http://www.doppiozero.com/materiali/recensioni/marion-milner-una-vita-tutta-s%C3%A9#.UyFWE3Nlszo.twitter 
*Grazie a Michele Nenna (@MicheleNenna) per la segnalazione (L. R.).

GUSTAV KLIMT. LE FONTI DEL DESIDERIO. I misteri dell’universo femminile messi a nudo sulla tela attraverso il candido stupore di un artista rapito dai sensi

di Roberta Scorranese, Il Corriere della Sera, 12 marzo 2014
Com’era nuda quella fin de siècle viennese! Nude sotto i veli dell’Art Nouveau erano le donne di Alfons Mucha; nuda era Alma Mahler, che – sebbene ancora giovane e lontana da quel rosario di amori maschili che srotolò con perizia – si diceva votata al bello. Nudi saranno, di lì a poco, i corpi perturbanti di Egon Schiele. E nude erano le donne di Gustav Klimt. Di certo, nei suoi occhi. «Per lui, il corpo, era prima di tutto al naturale. Dipingeva sempre i soggetti senza veli e, solo in un secondo momento li vestiva», dice Alfred Weidinger, vicedirettore del museo Belvedere di Vienna e curatore della mostra «Klimt – Alle origini di un mito». 
E il Klimt che qui si racconta è (anche) quello degli inizi, prima della rivoluzionaria Secessione, che prese avvio nel 1899. È il Klimt della donna rugiadosa; di quella flessa su se stessa, divorata dalla sua bellezza. È il Klimt di Ritratto femminile (1894), quasi un manifesto dell’iconografia materna: capelli raccolti, espressione seria, abito finemente decorato. «Non è la madre, però. Forse è Emilie Flöge, una delle donne che gli furono accanto», chiosa Weidinger. 
Una delle , perché le donne di Klimt furono tante e importanti. Amava innamorarsi. Per poi sparire, con la naturalezza di un bambino. «Non sono interessato a me, ma alle donne», scrisse in una lettera, anzi, in una cartolina – furono inventate a Vienna e in mostra se ne trova una selezione ben studiata. 
Qui c’è il Gustav che, da bambino, spalancò gli occhi davanti alle decorazioni d’oro nella bottega del padre, orafo. L’oro che poi volle riprodurre, ossessivamente, nella sua arte: il Fregio di Beethoven, l’opera monumentale che Klimt eseguì nel 1902 e che qui si presenta in una colta riproduzione, è un «inno all’amore per le cose che luccicano», come dice il curatore. 
Eccolo il cuore segreto di questo artista così amato (Il bacio è una delle opere moderne più riprodotte) ma anche così frainteso: la sua non era ricerca intellettuale, era sincero stupore; non era speculazione onirica quale retaggio freudiano applicato all’arte: più semplicemente, era che lui le ragazze se le immaginava così nelle fantasie: fluttuanti, acquatiche, costantemente svestite. Era semplicità maschia davanti a un seno femminile. Si guardi, in mostra, la bellezza di Adamo ed Eva, con la nudità della donna che copre con grazia quella maschile, un po’ imbarazzata. 
Era il dominio dei sensi che, in quella fine secolo, imbastiva un nuovo linguaggio culturale nella «città più erotica del mondo», come Lou Andreas-Salomé definì Vienna. Ecco perché non riusciamo a vedere nei ritratti klimtiani di giovani ragazze (si osservi Ritratto di bambina del 1880) la profondità spirituale che c’era, per dire, nel quasi contemporaneo Felice Casorati. C’era invece quella sensualità spontanea del figlio dell’artigiano, cresciuto con madre e due sorelle e, dunque, avvezzo a vedere carni femminee imperfette nell’intimità domestica. 
C’era, chissà, la suggestione dei primi esperimenti naturistici che prendevano vita in Svizzera, nei pressi di Ascona, sul Monte Verità. C’era quel sottilissimo senso di spaesamento maschile di fronte a nuove donne, più emancipate e forti. Pochi anni dopo, mentre si struggeva per Felice Bauer, Franz Kafka giunse a implorarla: «Via, Felice, trasformami in un uomo che sia capace di ciò che è ovvio!». 
È stato proprio il cerebrale inventore della psicoanalisi a cogliere questa temperie. Un giorno Freud disse ad Arthur Schnitzler: «Con la sua arte lei ha capito molto di più sull’animo umano di quanto abbia fatto io in lunghi anni di ricerche». Ecco perché la mostra va visitata più con l’istinto che con la ragione, lasciandosi sedurre dai fregi, dalle musiche (Gustav Mahler fu una presenza-chiave nella vita di Klimt) e dalla vividezza dei ritratti, senza farsi domande. 
«Klimt stesso non se ne poneva – spiega Weidinger – : chiamato a realizzare un’opera su Beethoven ha pensato bene di concluderla con quello che per lui era la summa dell’arte: un abbraccio. L’amore». Si attraversino le sale dedicate ai ritratti familiari (la società di decorazioni che fondò con il fratello è alla base della sua formazione pittorica); si passi accanto ai paesaggi, alle sirene e ci si fermi davanti al Girasole. Un monumento vegetale al fiore, punteggiato d’oro, che culmina con una testa-corolla. Ecco, per Klimt era il vero simbolo femmineo: il potere vivificatore, autarchico, prono solo di fronte alla natura.
http://www.zeroviolenzadonne.it/rassegna/pdfs/12Mar2014/12Mar2014283700abd59d47634eae7ad695cb8560.pdf
 
Sulla mostra vedi anche, a cura dell’autrice, la infografica al link:
http://www.corriere.it/cultura/14_marzo_14/klimt-origini-una-rivoluzione-cea5fcaa-ab85-11e3-a415-108350ae7b5e.shtml

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

 

 

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