di Fabio Santini, bergamo.corriere.it, 27 marzo 2014
A scuola di Vasco Rossi, con quattro incontri al Polaresco, per studiarne la musica, la poetica e la politica. È l’iniziativa, che si chiude stasera, di due professionisti: il filosofo e critico cinematografico Pietro Bianchi, conoscitore profondo della teoria psicanalitica e Michele Dal Lago, collaboratore alla Facoltà di Giurisprudenza di Bergamo, cantante e chitarrista country-blues. «Abbiamo organizzato il corso – racconta Dal Lago – per individuare alcuni elementi nella scrittura del cantautore di Zocca Modenese, soprattutto sul lato dei contenuti e nel rapporto tra musica e parole». Ogni incontro è a tema: il primo, «Vasco e la psicanalisi», il secondo «Vasco e la musica», con attenzione alle sue influenze musicali, a come collocarlo nel panorama dei cantautori italiani. Il terzo «Vasco e la coppia». E quello di stasera sarà «Vasco, la provincia e la classe lavoratrice», «perché il cantante – spiega Dal Lago – ha un immaginario forte del territorio decentrato che non è d’elite, né quello estetizzato dei margini “alla De Andrè”. E come Springsteen esprime una forte relazione concettuale con il mondo industriale. Noi facciamo prima ascoltare la canzone, con proiezione del video relativo, lettura del testo e analisi letteraria. Ad ogni incontro, approfondiamo cinque o sei brani di Vasco». Tra i titoli: Siamo soli, Anima fragile, Il mondo che vorrei, C’è chi dice no, Albachiara, Io no. Oggi analizzeremo Fegato spappolato, Colpa d’Alfredo, Siamo solo noi. «Vasco – continua Dal Lago – è artista autoreferenziale nel senso che sviluppa una serie di temi su cui torna in ogni album, una serie di riflessioni sulla vita, sul rapporto di coppia. La sua scrittura è complessa e articolata. È uno degli autori più complessi dal punto di vista letterario. I suoi contenuti sono centrali se analizzati dal punto di vista psicanalitico di Freud e Lacan: la pulsione di morte, la desublimazione. Canzoni desublimate sono Siamo soli oppure La nostra relazione, contenuta nel primo disco del cantautore. In questo pezzo si affronta il rapporto di coppia nelle sue fasi. Dall’innamoramento al termine della relazione». È un Vasco vivisezionato nelle modalità espressive. Il Blasco è anche cantore degli eccessi, delle trasgressioni, della ricerca del limite come in Vita spericolata: «In realtà – obbietta Dal Lago – i pezzi dedicati alla trasgressione hanno tutti una struttura ricorrente: una strofa in cui si allude a questa possibilità. E poi c’è sempre un ritornello, accompagnato da un cambio musicale che riporta alla condizione di “finitudine” della vita umana. Anche Vita spericolata ha questa struttura, così Liberi liberi, Il mondo che vorrei in cui in realtà non passa il messaggio “devi eccedere”». E come hanno reagito gli iscritti agli incontri? «Stupore e tante richieste d’approfondimento sulle canzoni dedicate alla coppia».
http://bergamo.corriere.it/notizie/cultura-e-spettacoli/14_marzo_27/al-polaresco-si-va-lezione-vasco-5ed1a136-b599-11e3-88c9-f5f1afba752a.shtml
LA CLASSIFICA DI 'TUTTOLIBRI'. RECALCATI SFIDA CAMILLERI
di Luciano Genta, lastampa.it, 28 marzo 2014
Prevedibile il primato di Camilleri, domani sera in tv da Fazio, che rialza il valore dei 100 punti a quota 10 mila copie: succede quando torna alla casa madre e indossa il blu Sellerio, mentre gli riesce più arduo con altri marchi, pur con indagini non meno avvincenti, come le ultime sulla morte di Edoardo Persico o il folle amore di Kokoschka per Alma Mahler, edite da Skirà.
Lieta sorpresa il balzo al secondo posto di Recalcati che è una solare malignità confondere con la posta del cuore. Il saggio dello psicanalista lacaniano non ha nulla del «faidate» consolatorio e buonista, offre con sobria chiarezza una meditazione teorica, e in appendice una «storia di vita», sul rapporto d’amore come «legame di responsabilità» in epoca di menzognero libertinismo narcisista e propone il duro, paziente «lavoro» del perdono per curare la ferita del tradimento e dell’abbandono. Il che non significa dimenticare, rimuovere ma rinnovare, far rinascere. Essendo l’alternativa una altrettanto «penosa e difficile» elaborazione del lutto che, per non dissolversi in frantumi, deve affrontare chi perdonare non sa o non può.
Di routine gli altri due ingressi tra i primi 10: il placido thriller della Läckberg con l’ispettore Peter e la sua Erica in dolce attesa e la conclusione della trilogia fantasy per adolescenti di Veronica Roth, emula della Collins, iniziata con Divergent, prossimamente al cinema.
1 Camilleri, Inseguendo un’ombra, Sellerio
2 Recalcati, Non è più come prima, Cortina
3 Läckberg, La Sirena, Marsilio
4 Espinosa, Braccialetti rossi, Salani
5 Roth, Allegiant, De Agostini
6 Vitali, Premiata ditta Sorelle…, Rizzoli
7 Guccini, Nuovo dizionario delle cose perdute, Mondadori
8 Friedman, Ammazziamo il gattopardo, Rizzoli
9 Giordano, Non vale una lira, Mondadori
10 Serra, Gli sdraiati, Feltrinelli
La classifica di Tuttolibri è realizzata da Nielsen Bookscan, su un campione di 900 librerie. Si assegnano i 100 punti al titolo più venduto tra le novità. tutti gli altri sono calcolati in proporzione. Tra parentesi viene indicato da quante settimane il titolo è in classifica. la rilevazione si riferisce ai giorni dal 16 al 22 marzo.(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 29 marzo)
http://www.lastampa.it/2014/03/28/cultura/tuttolibri/la-classifica-di-tu…
DIPENDENZE, ITALIA TRA PRIME 5 A SOFFRIRNE DI PIÙ IN EUROPA . Janiri, siamo già primi per consumo di cannabis
di Redazione, ansa.it, 28 marzo 2014
Alcol fumo, gioco, sesso, droghe: gli italiani non si fanno mancare niente quanto a dipendenze. Siamo infatti tra le prime 5 nazioni europee per questo tipo di patologie. A spiegarlo è Luigi Janiri, professore di Psichiatria presso l’Università Cattolica di Roma e psicoanalista della Società Psicoanalitica Italiana (Spi).
”Esistono molte forme di dipendenza – evidenzia – e la loro ricaduta sociale è elevatissima. La dipendenza da alcol ha un’alta prevalenza in Europa con più di 14 milioni di persone colpite ogni anno. Solo in Italia gli alcoldipendenti sono circa 1 milione e più di 8 milioni di persone sono considerate bevitori a rischio. Un fenomeno in crescita soprattutto fra i giovani, vittime anche di poliabuso”. In aumento anche i giocatori d’azzardo patologici, che si stima siano lo 0,5-2,2% della popolazione italiana (da oltre 300mila a oltre 1,3 milioni persone colpite), mentre il 7% degli italiani tra i 15 e 64 anni ha provato ad assumere cocaina almeno una volta nella vita, e il 2,1% ammette di averne consumato nel corso dell’ultimo anno. ”Considerando la fascia di popolazione che va dai 15 ai 64 anni – continua Janiri – siamo al primo posto in Europa (14,3%) per consumo di cannabis nell’ultimo anno e al secondo posto (6,9%) dopo la Spagna (7,6%) per uso della cannabis nell’ultimo mese. Terzi (32%) dopo Danimarca (32,5%) e Spagna (32,1%) se si considera il consumo di cannabis almeno una volta nella vita”.
L’aumento delle dipendenze si spiega, secondo Janiri, con ”la crescita dei fattori di disagio sociale – prosegue – Come terapia di riabilitazione si punta a colloqui motivazionali e lavoro in gruppo come modello di aiuto, un po’ come gli alcolisti anonimi, con il supporto di counsellor e psicologi”.
Il gruppo rinforza la motivazione a smettere e aiuta il soggetto a prevenire le ricadute, identificando le situazioni di rischio esterno. ”La psicoterapia psicodinamica è invece lo strumento che consente – conclude – di comprendere le motivazioni profonde della fragilità dell’Io della personalità dipendente, incapace di rimandare la gratificazione e tollerare la frustrazione”.
http://www.ansa.it/saluteebenessere/notizie/rubriche/medicina/2014/03/28/dipendenze-italia-tra-prime-5-a-soffrirne-di-piu-in-europa_1f2ad247-8084-46e0-bb8e-422b25c86f4b.html
IL DELITTO PERFETTO DI JULIA DECK. Viviane Élisabeth Fauville, edito da Adelphi, è un noir costruito in modo originale. Se ne è parlato molto in Francia e fa discutere anche in Italia
di Raoul Bruni, europaquotidiano.com, 30 marzo 2014
Chi era convinto che il noir fosse ormai un genere letterario stereotipato e del tutto asservito alle leggi del mercato editoriale, sarà clamorosamente smentito da Viviane Élisabeth Fauville, il memorabile esordio romanzesco di Julia Deck, di cui si è già parlato molto in Francia e di cui si discuterà molto anche in Italia, dove è stato pubblicato da Adelphi (pp. 129, euro 15,00), nell’eccellente traduzione di Lorenza Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco.
L’eponima protagonista è una quarantenne di estrazione alto borghese, responsabile della comunicazione per una nota azienda di costruzioni, la Bétons Biron, e madre da alcuni mesi, la quale, all’improvviso, in un pomeriggio di novembre, uccide il suo psicoanalista accoltellandolo. Viviane aveva deciso di entrare in analisi per superare i contraccolpi della separazione dal marito, che l’aveva piantata per una donna più giovane. Tuttavia la «piccola stregoneria viennese» praticata dal suo analista non era assolutamente riuscita a placare le sue devastanti crisi nevrotiche, per far fronte alle quali non le restava che imbottirsi di psicofarmaci. L’impulso omicida scatta, per l’appunto quando, per l’ennesima volta, il suo analista, invece di spiegarle quali siano la natura e la causa del suo disagio psichico, la guarda senza dire nulla, attendendo che sia lei stessa a parlare.
Certamente la psicoanalisi gioca un ruolo non secondario nella strutturazione stessa della narrazione, anche se non siamo di fronte ad un romanzo a tesi, pro o contro l’analisi (in Francia ultimamente c’è stato un largo dibattito sull’argomento). La singolarità del libro di Julia Deck risiede innanzitutto nelle modalità del racconto: nel romanzo si alternano la prima, la seconda e la terza persona singolare, nonché la prima e la seconda persona plurale, il vous francese, da qui la difficoltà del compito dei traduttori. L’alternanza delle angolazioni narrative non è un espediente gratuitamente sperimentale, ma serve soprattutto a erodere il diaframma tra autore e narratore, mantenendo il romanzo aperto alle più diverse interpretazioni.
Al contrario di quel che accade nei noir che siamo abituati a leggere, in Viviane Élisabeth Fauville la suspense è affidata non tanto alla trama, e dunque alla successione dei fatti, quanto alla decifrazione e all’interpretazione di questi fatti. La nevrosi della protagonista finisce per contagiare la narrazione stessa, che perde la propria linearità: non solo passato e presente tendono a confondersi ma ogni vicenda è filtrata dal delirio, a tratti allucinatorio, di Viviane. In questo senso questo libro può essere avvicinato, oltre che a certi modelli letterari (in particolare al Samuel Beckett dell’Innominabile, da cui, non per nulla, è tratto l’esergo), ai migliori film di David Lynch, nei quali la linearità della trama si distorce assumendo la forma di un incubo allarmante.
Per un paradosso, forse sintomatico, nel romanzo di Julia Deck, una persona che nella vita si occupa professionalmente di comunicazione non riesce più a comunicare i propri pensieri, se non in modo alquanto confuso e nebuloso. Il libro è infatti, in definitiva, il tentativo di una donna profondamente isolata (Viviane non ha amici: l’unica compagnia che le è rimasta, dopo che il marito l’ha lasciata, è la figlia piccola) di comprendere se stessa e le proprie azioni. Quando la polizia inizia ad indagare su di lei, Viviane, piuttosto che cercare di scagionarsi, sembra fare di tutto per alimentare i sospetti sul suo conto: si mette seguire gli altri sospettati e, addirittura, li interroga, conducendo una sorta di inchiesta parallela a quella della polizia. Sullo sfondo dei vagabondaggi della protagonista campeggia una Parigi perturbante e inospitale, lontanissima dai clichés da cartolina.
Nel prosieguo del romanzo l’equilibrio psichico di Viviane diviene sempre più instabile, tant’è che comincia a rivolgersi alla madre morta come se fosse ancora viva. Inoltre, incalzata dagli interrogatori della polizia, finisce per confessare l’omicidio e viene ricoverata in un ospedale psichiatrico. Ma come dovrà valutare questa confessione la polizia? Può essere attendibile la confessione di una persona affetta da gravi turbe mentali, se non si possono riscontrare prove oggettive? Il nodo sarà sciolto soltanto nelle ultime pagine del libro, che metteranno in discussione anche quelle circostanze che sembravano ormai accertate: a cominciare dalla stessa dinamica, solo apparentemente trasparente, del delitto.
http://www.europaquotidiano.it/2014/03/30/il-delitto-perfetto-di-julia-deck/
L’AUTOBUS STRAPIENO
di Walter Passerini, lastampa.it, 30 marzo 2014
Potremmo chiamarla la guerra delle due dame. Lo scontro a viso aperto sulla staffetta generazionale fra la trentatreenne Marianna Madia, ministro della Pubblica amministrazione e della Semplificazione, e la cinquantatreenne Stefania Giannini, ministro dell’Istruzione, università e ricerca, è la metafora perfetta del nostro Paese. Un Paese che assomiglia a un autobus ormai strapieno, in cui adulti e anziani restano abbarbicati ai loro posti, mentre i giovani non riescono nemmeno a salirvi. Ci vorrebbe un «double-decker bus», un autobus a due piani, detto anche bipiano, icona da turisti nata a Londra, oppure un Jumbocruiser, un autosnodato, per raddoppiare la portata dei passeggeri.
Da tempo si è aperto un dibattito sulla staffetta generazionale, che ha generato una formula contrattuale, che permette ai lavoratori giovani di entrare in un’azienda con l’uscita morbida in part time di adulti vicini alla pensione: la norma per ora è stata accolta tiepidamente da imprese e parti sociali. La forse incauta versione del ministro Madia (un piano di uscite anticipate dalla pubblica amministrazione per far posto ai giovani) è invece figlia di un modello industrialista di prepensionamento, tanto usato quanto oggi vituperato, difficilmente sostenibile dopo la riforma Fornero: come si fa a proporre l’uscita anticipata di migliaia di dipendenti pubblici (85 mila secondo mister spending review, Carlo Cottarelli), quando migliaia di dipendenti privati e pubblici sono costretti a restare più a lungo ai loro posti di lavoro, generando quel mostro degli esodati, la cui soluzione definitiva è ancora una questione di civiltà per qualsiasi governo? A quali costi andrebbe incontro un sistema previdenziale giunto ai limiti della sostenibilità?
La frattura generazionale è ormai una sfida aperta nel nostro Paese, con una popolazione anziana in continua crescita e una scarsità relativa della linfa vitale dei giovani. Ora, a partire dal lavoro, lo scontro generazionale va ricomposto, almeno a quattro livelli. Il primo è la crescita economica, senza la quale la torta non si allarga e darebbe luogo solo alla redistribuzione della povertà. Il secondo è la bomba previdenziale, la cui miccia è accesa da tempo e rischia di deflagrare, creando future generazioni senza pensione. Mentre i padri prolungano biologicamente e culturalmente le proprie vite, grazie alla generosità del sistema retributivo, i giovani stentano a salire sulla giostra, con il rischio di avere un futuro senza welfare. Ogni decisione di tipo economico e contrattuale dovrà tener conto dell’effetto domino delle conseguenze previdenziali. Il terzo è l’irresistibile avvento di Internet, che ha sconvolto i sistemi delle conoscenze e delle competenze necessarie alla vita e al lavoro. Una vera rivoluzione che, mentre vede quali imbattibili protagonisti i giovani, «nerd» e digitali, osserva con malinconica comprensione le difficoltà degli adulti di capire e usare il web, costringendoli in un «digital divide» ormai diventato neo-analfabetismo tecnologico. Il quarto punto è la scarsa possibilità di programmare il futuro, la difficoltà di costruire progetti di vita, che mette in crisi sia i giovani che gli adulti. Se i giovani rimuovono e rispondono vivendo in un eterno presente, per l’incertezza del domani, anche gli adulti sembrano deprivati di progetto. Nonostante il meraviglioso allungamento della vita attiva, appaiono orfani di una inafferrabile pensione, colpiti da miopia e in debito di lungimiranza.
Per costruire il futuro c’è bisogno dell’immaginazione di tutti: per permettere ai giovani di entrare senza inutili guerre nel mondo del lavoro; per permettere agli adulti, agli over 60 e oltre, di godersi la loro stagione della vita e di sentirsi parte attiva di nuovi progetti. Abbiamo bisogno dello sguardo dei giovani e della saggezza dell’esperienza degli anziani. E’ questo il senso del necessario nuovo patto generazionale tra Telemaco e Ulisse, così ben descritto da Massimo Recalcati. Il figlio-Edipo è quello che per conquistare il potere si lancia nella guerra contro il padre; il figlio-Narciso resta immobile prigioniero della propria immagine; il figlio-Telemaco è quello che aspetta il padre per stringere un nuovo patto, da cui entrambi potrebbero uscire vincitori.
http://www.lastampa.it/2014/03/30/cultura/opinioni/editoriali/lautobus-strapieno-LGiRcLKwT4AQymEgVDTa3L/pagina.html
L’ARCHITETTURA ALLA RICERCA DELLA DIMENSIONE AFFETTIVA. Incontro fra due grandi architetti. La città eterna nell’ottica freudiana, la lezione di Colin Rowe, l’alleanza perversa di media e computer nel vanificare il ruolo della politica
di Franco Purini, ilmanifesto.it, 30 marzo 2014
Siamo qui all’Hôtel Eden, è il 10 marzo, una giornata di sole che rende più bella questa parte di Roma. Oggi pomeriggio sarà consegnato a Peter Eisenman il premio Piranesi, promosso dalla Accademia Adrianea, che si occupa del rapporto tra architettura e archeologia in tutte le sue espressioni. Prima di questa cerimonia converso con lui su alcuni temi che ritengo importanti. Partirò proprio da Roma, perché nella sua storia recente la città ha dimostrato di avere un problema forse irrisolto, vale a dire quello di pensarsi nella modernità. Chiedo dunque a Eisenman, dal momento che conosce bene Roma, come potrebbe secondo lui diventare pienamente moderna nel rispetto della sua tradizione.
PETER EISENMAN Penso ci siano due idee prevalenti su Roma: la prima riguarda il suo essere per definizione la «città eterna», in cui le rovine costituiscono luoghi archeologici di grande importanza. L’altra è l’idea di Sigmund Freud, che ritengo molto più valida, e cioè quella per cui Roma è una traccia della storia del pensiero e dei luoghi, una traccia che è non solo nei resti archeologici ma anche nei manufatti del XVIII, del XIX, del XX secolo. Per me questa stratificazione di memorie e di fatti sempre compresenti fa di Roma più di un semplice museo: potrebbe essere solo un repertorio di chiese, di palazzi, di edifici religiosi, ma per me è la città dei grandi dipinti, delle grandi architetture, anche del XX secolo. La salvaguardia dei centri storici va ripensata: tutte le grandi città come Londra, Parigi, Berlino, devono senz’altro mantenere le testimonianze della loro storia e della loro cultura. Nello stesso tempo, però, queste stesse città hanno costruito edifici alti. Credo che l’idea che qui non si possa costruire nulla che sia più alto della Cupola di San Pietro sia del tutto superata. È necessario infatti costruire la città di oggi. Penso ad Atene, per esempio, che ha una sua regola per cui non si possono costruire edifici che superino il Partenone. Ciò mi ha convinto che non è una città attuale. Costruire oggi a Roma è importante proprio per la sua storia, e pensare solo in riferimento al passato è un errore. Per questo mi piacciono città come Milano e Berlino. Preferisco le città che non hanno paura di rischiare e dove si costruiscono edifici alti, una operazione che mi sembra importante.
F. P. Vorrei a questo punto farti una domanda di carattere biografico: che ricordo hai del tuo viaggio con Colin Rowe a Roma?
EISENMAN La mia prima visita a Roma fu dovuta al fatto che era propedeutica alla comprensione dell’arte in altre città come Bologna e Firenze.Prima di scoprire il Bronzino, i Carracci, il Parmigianino e Guido Reni dovevo venire qui. L’arte è nata a Roma, per questo Colin Rowe mi fece visitare Firenze e Bologna solo dopo aver conosciuto questa città. Questo è il primo punto. La seconda cosa è che quando venni a Roma per la prima volta non mi fu permesso di vedere Borromini e Bernini perché il loro mondo era il Barocco, legato alla Chiesa. Per Colin Rowe, che era anglicano e non cattolico, era una architettura corrotta, a servizio di una idea culturale che era religiosa. Così non mi fece cercare Bernini, Borromini, Pietro da Cortona. Vidi però Santa Maria in Campitelli, perché era una chiesa non del tutto barocca, e resta uno dei miei edifici preferiti. È infatti un misto incredibile di Palladio e di Borromini. Prima vidi il Gesù di Vignola, e poi vidi Santa Maria in Campitelli ma non San Carlino, non le opere di Bernini. Fui portato a visitare la chiesa a Piazza del Popolo, ma non quella di Bernini, a sinistra, quella di Carlo Rainaldi, a destra, Santa Maria dei Miracoli. È stato un grande insegnamento quello di Rowe, che mi ha trasmesso cosa l’architettura può essere e come distinguere un edifico dall’altro.
F. P. Della Roma moderna e in genere della architettura moderna italiana cosa ti interessa, a parte Terragni?
EISENMAN Prima di tutto ci sono tre città del XX secolo. Una è Milano, una è Napoli, una è Roma. A Milano abbiamo gli edifici residenziali di Giuseppe Terragni e le opere di Luigi Moretti del dopoguerra, come l’edificio in Corso Italia e le Case albergo. Per me, a Roma, l’Accademia della Scherma al Foro Italico, la Casa del Girasole a Viale Bruno Buozzi e la Palazzina Astrea a Via Jenner sempre di Moretti, che per inciso aveva fondato «Spazio», una straordinaria rivista, sono edifici fantastici. A Napoli vorrei ricordare il Palazzo delle Poste di Giuseppe Vaccaro. Oltre queste architetture potrei citarne molte altre, che rappresentano esemplarmente lo spirito del movimento architettonico del XX secolo. Il più importante tra la prima guerra mondiale e la seconda, quando l’Italia era ancora un paese dedito all’agricoltura, spinto verso la modernità dal governo fascista che migliorò il sistema ferroviario, fondò molte città nuove e inventò l’intero sistema delle comunicazioni. Secondo me l’architettura di quel periodo non è paragonabile a quella, meno significativa, di altri paesi. L’Italia tra il 1929 e il 1942 è incredibile, e l’Eur è uno degli esempi migliori di quella stagione.
F. P. Molti anni fa, nel 1989 se non sbaglio, ho scritto un testo in cui definivo la Palazzina Astrea di Moretti come un’antesignana della decostruzione, perché presenta un’immagine della tettonica come un ordinamento al limite del suo collasso. In effetti questa palazzina mette in scena una suggestiva e potente «rovina in progress». Ma adesso vorrei conoscere la tua opinione sulla architettura contemporanea nelle città globali, che piace molto al vasto pubblico ma che spesso noi architetti valutiamo in altri termini molto più critici.
EISENMAN I miei studenti sono un buon esempio dell’esistenza di questo problema: consumano i media e i media sono diventati uno dei problemi dell’architettura. Ogni giorno le riviste negli Stati Uniti pubblicano progetti nuovi sui siti web e nuove architetture vengono realizzate. Così abbiamo un nuovo edificio di Jean Nouvel, un nuovo edificio di Zaha Hadid, un nuovo edificio di Rem Koolhaas. I media hanno distrutto la possibilità di fare una riflessione critica sull’architettura. Inoltre, i miei studenti non riescono a costruire un’idea architettonica. Se dico loro: «prendete Villa Savoye di Le Corbusier e disegnatene in trenta secondi l’idea», loro si mettono al computer; allora io dico: «no, prendete una penna e disegnate». Ma non sanno farlo, non possono disegnare un’idea perché non sanno pensare senza l’aiuto del computer. Credo che dobbiamo tornare indietro ritrovando il disegno, dobbiamo tornare all’idea di che cosa è il progetto d’architettura come fenomeno critico, sociale, ideologico. Non c’è ideologia negli edifici a Doha o di Abu Dhabi.
F. P. Quando parli dell’alleanza tra computer e media metti in evidenza come questa verifichi una sorta di perversa convergenza che elimina dall’architettura il ruolo politico che essa non dovrebbe mai perdere. Questo non vuol dire che bisogna discutere ogni giorno ciò che sta succedendo, ma orientare la ricerca verso una trasformazione della società che migliori la capacità degli individui di essere più liberi, di comprendere meglio quello che avviene nel paese e fuori, di plasmare autonomamente il proprio futuro potendo avere accesso alle opportunità sempre crescenti che il nostro tempo ci offre. Penso sarebbe necessario che gli architetti si rimpossessassero di questa coscienza. Lo dice molto spesso anche Vittorio Gregotti quando parla di «distanza critica». Tu cosa ne pensi?
EISENMAN Da quel che dici dobbiamo dedurre che la tua è una critica della figurazione. Sappiamo che l’architettura ha una sua narratività, in altre parole è un tentativo di rendere la figura, che si sia colorata o senza colore. Ciò che avviene nell’architettura moderna ha a che fare con l’astrazione contro la figurazione, perché la figurazione ha perso criticità, ma noi non possiamo oggi tornare meccanicamente all’astrazione, non possiamo tornare direttamente al collage, perché si tratta di procedure di formalizzazione che non hanno più energia. Dobbiamo allora capire come sia possibile rendere necessaria una nuova complessità della figurazione che sia capace di farla diventare veicolo critico, direi anche ideologico, perché politico implica qualcosa di diverso. Penso che la dimensione ideologica sia qualcosa che concerne il modo di guardare il mondo attraverso l’esercizio critico possibile nella disciplina dell’architettura. Ciò che mi piace nel tuo lavoro è la presenza di antecedenti, ovvero di una temporalità storica. Tu e io siamo due autori, con punti di vista diversi ma entrambi con una presenza e un controllo autoriale. Se si passa al computer e ai media si perde l’autore e questo è uno degli aspetti più negativi dell’architettura contemporanea.
F. P. A me pare che la tua architettura sia oggi nel mondo la più difficile a essere compresa. Per questo richiede a chi la abita, a chi la vede ma anche a chi la conosce solo attraverso le riviste, un grande sforzo creativo: perché bisogna riconoscere come architettura qualcosa che apparentemente nega di esserlo o lo nasconde. Questa contraddizione è a mio avviso fondamentale, poiché indica nella necessità di una interpretazione creativa la strada che l’architettura può ritrovare nel sottrarsi a ogni convenzione.
EISENMAN Per poter capire la mia architettura è necessario un closereading, una lettura attenta. Walter Benjamin diceva che l’architettura viene sempre letta in uno stato di distrazione. La gente camminando si guarda semplicemente intorno, mentre per me la critica in architettura è importante se è in grado di fermare il flusso di informazioni e di narrazioni, se è in grado di bloccare la comprensione: pretendendo di capire tutto ciò che ci è dato non capiamo nulla. Mi piace ancora leggere Finnegans Wake, mi piace ancora leggere Umberto Eco, mi piace ancora leggere opere contemporanee perché non è facile. La letteratura non sparirà, la musica ci sarà sempre, l’arte non avrà mai fine. Se per l’architettura rimarrà la possibilità di una «lettura attenta» essa non scomparirà. E questo comporta la necessità di comprendere la componente ideologica, come è stato fatto in Germania, in Russia, Italia negli anni trenta.
F. P. Quindi si potrebbe dire, con Mario Perniola, che la tua architettura è «contro la comunicazione» e lo è nel momento stesso in cui apre un nuovo territorio più avanzato alla comunicazione stessa, che deve intrecciarsi con questioni fondamentali come le scelte ideologiche dell’architetto, a loro volta significative della valenza politica della sua architettura.
EISENMAN A Istanbul, dal momento che le elezioni sono imminenti, stiamo realizzando un progetto politico, così come in Spagna abbiamo realizzato un progetto molto critico perché ideologico. È difficile per il mio cliente guardare il progetto e capire qual è l’intento politico che lo aiuterà a essere eletto. Lavoro per clienti che vogliono una soluzione politica ma vogliono anche qualcosa di semplice. Io rispondo che la soluzione politica deve sempre essere difficile, e loro mi rispondono: «va bene, ma la soluzione difficile non mi farà prendere voti, e a me servono voti». Oggi non ci sono soldi pubblici per edifici rappresentativi e dunque sono i costruttori edili, il settore privato, che realizza musei o edifici pubblici per le città. Hanno preso il sopravvento nella maggior parte delle città degli Stati Uniti e non hanno bisogno della politica. Sono loro gli unici responsabili della banalizzazione dell’architettura. Dobbiamo cambiare la tendenza generalizzata a rifiutare la complessità ideologica. Questo è il punto. Come possiamo cambiare o come pensiamo di relazionarci ai nuovi clienti, in questa dimensione privata? Io non ho ancora una risposta.
F. P. Ti domandavo prima cos’è per te il vedere perché per molti architetti contemporanei vedere e comprendere sono atti simultanei. Invece nel tuo modo di concepire l’architettura noto una sorta di «sguardo differito»: si prende coscienza di una situazione, di una città, di un tracciato urbano, delle architetture che ci sono ma nello stesso tempo si produce uno scarto, come se la visione simultanea fosse ingannevole. Deve quindi intervenire un piano successivo di interpretazione. Questo scarto è un differenziale qualitativo più poetico che intellettuale. La mia impressione ha per te un suo fondamento?
EISENMAN Come ti dicevo prima, la società dell’arte oggi vuole una gratificazione immediata da ciò che vede: non c’è tempo per pensare, i media propongono sempre qualcosa di nuovo. Io credo che la tua e la mia carriera sarebbero più importanti fra cinquant’anni, perché i progetti di Franco Purini e quelli di Peter Eisenman non sono intonati alla cultura visiva oggi prevalente. Ieri sera sentivo dire al ristorante: «ah, che bar cool»! E cosa sarebbe un bar cool? Qualcosa che ha a che vedere con le persone che lo frequentano, con la musica. Invece per noi un bar cool è un luogo fantastico, misterioso, con un’architettura importante.
F. P. In un passo della tua risposta hai evocato la dimensione della teoria. Ecco, cosa pensi della teoria oggi? È necessaria?
EISENMAN Oggi non c’è teoria, perché gli studenti non la ritengono necessaria. Si crede che rallenti il mondo mentre in questo momento si pretende che esso vada sempre più veloce. Non serve sapere il motivo delle scelte, perché richiederebbe tempo. Chiedo ai miei studenti il perché e mi rispondono: «perché si può. Se lo posso fare lo voglio fare, non mi serve essere un critico d’architettura».
F. P. Secondo te l’annullamento del tempo e dello spazio da parte del digitale è accettabile?
EISENMAN Il computer cerca di rendere ogni frattura una possibilità. Tenterò di spiegare questo concetto citando Leon Battista Alberti, che ha inventato l’idea di spazio, ed è stato il primo a dire che questo qualcosa in cui siamo nella città e negli edifici si chiama spazio. Il tipo di spazio che ha inventato è chiamato «spazio omogeneo», uno spazio continuo e conseguente. Ogni architetto dopo Alberti –, Bramante come Peruzzi, o come Giulio Romano, Vignola, Carlo Rainaldi – tutti hanno cercato di rompere lo spazio omogeneo. Così, la storia dell’architettura è il racconto di come, volta per volta, si siano prodotte successive rotture dell’innovazione albertiana dello spazio omogeneo. È stata l’uccisione del padre. Ora, il computer ha distrutto la lezione di Alberti. Oggi è necessario pensare: «va bene, cosa possiamo fare di questo spazio?» La distruzione dello spazio – pensiamo alla Palazzina Astrea di Luigi Moretti per esempio – la sua discontinuità, la sua frammentazione sono importantissime.
F. P. In questo contesto di trasformazioni, di certezze e di dubbi volevo farti una domanda un po’ particolare. Che fine fa il corpo dell’uomo, il corpo dell’essere umano dentro un’architettura in cui la categoria dello spazio omogeneo è confusa?
EISENMAN Non credo che le necessità umane siano cambiate. Io non penso mai solo al «corpo», ma anche alla mente. Per esempio del nostro progetto di Berlino – il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, comunemente detto Memoriale della Shoah – non devi capirne solo il significato e la narratività. Mentre cammini nello spazio il tuo corpo sente qualcosa, senti quello che io chiamo un coinvolgimento empatico, qualcosa di «affettivo», che non riguarda solo la mente. Questo per me è molto importante. Nei media invece non abbiamo alcun «affetto», abbiamo solo virtualità. Paradossalmente, però, proprio perché l’architettura può fornire quella realtà tridimensionale che i media non possono ottenere, quel che si è prodotto è un ritorno alla necessità dell’affetto. Il progetto che ho realizzato a Berlino per me è il più significativo perché lì ho lasciato il mondo del virtuale, del non essere: in quella città è molto importante sentire il cemento, il suo peso, il colore del materiale, la sua temperatura. Vedo la stessa cosa nelle opere di Richard Serra. La fisicità è diventata più importante in reazione alla virtualità dei media.
F. P. Sono contento di questa tua riaffermazion<CW-11>e del valore che assume la corporeità dell’architettura contro ogni seduzione virtuale. Possiamo concludere così: in queste strade, qui attorno a via Veneto, si aggirava sessant’anni fa Kunt, il personaggio di una famosa commedia di Ennio Flaiano, uno scrittore che è stato anche sceneggiatore di Fellini. Nella commedia si immaginava che l’extraterrestre fosse arrivato a Roma. All’inizio tutti lo cercavano, ma dal momento che i romani sono molto indifferenti e amano solo le novità, dopo una settimana non lo voleva frequentare più nessuno. Kunt si aggirava qui vicino triste e abbandonato. Se venisse di nuovo qui, o ti chiedesse da Marte che cosa è oggi l’architettura per Roma, cosa risponderesti in una battuta?
EISENMAN Se mi chiedi cosa vuol dire lavorare qui, piuttosto che a Milano, «in Roma per sé», direi che prima di tutto a Roma c’è una differenza qualitativa dei materiali, una sensibilità diversa. Negli Stati Uniti, forse non ce ne rendiamo abbastanza conto, non abbiamo archi e questo mi suggerisce una sfida alla quale non possiamo sottrarci quando guardiamo il panorama romano fatto di cupole. La cosa importante è come si passa dal quadrato alla cupola, vale a dire come si risolve il rapporto tra il quadrato strutturale inferiore dei pilastri o delle colonne e il tamburo di imposta della cupola. Il «pennacchio» è quell’importante elemento architettonico che permette tale transizione strutturale e formale. Non è quindi tanto importante la «cupola» stessa, o il quadrato dalla quale essa nasce, ma lo spazio tra il quadrato e la cupola, in cui avviene una vera e propria «trasmutazione geometrica». Come questo si possa realizzare oggi, ovviamente in modi molto diversi è per me di grande interesse.
(traduzione di Monica Manicone)
http://ilmanifesto.it/larchitettura-alla-ricerca-della-dimensione-affettiva/
AUTISMO, PRIMO OBIETTIVO LA DIAGNOSI PRECOCE. Bonaminio, qualunque ritardo rischia di compromettere recupero
di Redazione, ansa.it, 31 marzo 2014
“L’importanza della diagnosi precoce, non oltre i 24 mesi è il vero obiettivo cui deve tendere la Giornata Mondiale sull’Autismo: qualunque ritardo rischia di compromettere la possibilità di recupero di questi piccoli pazienti”. A spiegarlo è Vincenzo Bonaminio, direttore del corso ASNE-SIPSIA, dell’Istituto di Neuropsichiatria Infantile di Roma. La questione delle vaccinazioni come causa dell’autismo, inoltre, fanno rilevare gli esperti della Spi (Società Psicoanalitica Italiana), ”risulta a tutt’oggi priva di evidenza scientifica, generando una disinformazione che mette a rischio i risultati che hanno portato a debellare malattie infettive dagli esiti gravissimi, come la poliomelite”.
“E in questo senso – per il dottor Marco Mastella, segretario scientifico del Centro Psicoanalitico di Bologna – è necessaria una formazione specifica per l’individuazione dei segnali di allarme precoce per i pediatri, i medici di base, il personale paramedico, per gli insegnanti, in particolare di scuola materna”. Nelle sue molteplici forme, di autismo soffrono in Italia circa 600.000 persone. Patologia largamente più diffusa nel sesso maschile, secondo dati Usa del 2013, ne sono colpiti attualmente un bambino su 54. Dati allarmanti che segnalano oltretutto un aumento di ingenti proporzioni, aumento in parte, sperabilmente, dovuto alle migliorate tecniche diagnostiche e anche all’ampliamento dei criteri diagnostici: attualmente si parla infatti di “spettro autistico”.
L’approccio psicoanalitico cerca di comprendere il senso del vuoto emozionale che il bambino autistico manifesta così precocemente nel corso del suo sviluppo affettivo, relazionale e cognitivo, durante il quale egli acquisisce una tale progressiva distorsione che si determina un autentico distacco dal mondo dell’interazione sociale. Il trattamento psicoanalitico di questa psicopatologia si propone come strumento interattivo e relazionale essenziale per entrare nel mondo chiuso e pieno di terrori del bambino autistico. In particolare, la terapia si fonda sul “fattore umano”, sullo scambio emozionale tra terapeuta e bambino, con lo scopo di indurre e determinare un cambiamento in questi piccoli pazienti, arroccati in Sé stessi per difendersi da un mondo percepito come ostile o “diffusi” nello spazio per l’assenza di identità personale. E per gli esperti è importante sottolineare la necessità di salvaguardare quel residuo di umanità che il bambino autistico difende strenuamente dentro di sé, dentro quella che Bettelheim ha definito con un’efficace metafora, una “fortezza vuota”. La psicoanalista Stefania Nicasi, caporedattrice del sito della Società Psicoanalitica Italiana, invita ad approfondire il tema dell’autismo sul sito http://www.spiweb.it.
http://ansa.it/saluteebenessere/notizie/rubriche/medicina/2014/03/31/autismo-primo-obiettivo-la-diagnosi-precoce_aae96aae-75fb-410e-afb1-e8ffd4e24b8e.html
NEI ROMANZI È NASCOSTO IL SEGRETO DELL’IO. Giudicare se stessi in modo oggettivo è un’arte difficile da mettere in pratica. Ma può venirci in soccorso la grande letteratura
di Eugenio Scalfari, espresso.repubbica.it, 31 marzo 2013
Mantengo l’appuntamento che avevo dato in questa pagina due settimane fa; allora avevo scritto alcuni miei pensieri sul viaggio che ciascuno di noi compie nel mondo che ci circonda. Oggi racconto il viaggio che ho effettuato dentro me stesso. Non c’è ovviamente niente di eccezionale in queste due dimensioni della propria vita e nel raccontarne lo svolgimento; coincidono con la vita di ciascuno, quella vita terrena che tutti sappiamo essere un transito con un inizio e una fine.
Quello che avviene nel mondo che ci circonda ciascuno in qualche modo se lo ricorda; l’altro, quello dentro di sé, non tutti sono consapevoli di farlo e quindi non tutti se lo ricordano e pochi lo mettono sotto esame. Lo fanno, ma spesso senza saperlo e quindi senza ricordarlo se non in alcuni tratti principali: il rapporto con i genitori, con i fratelli e le sorelle, gli amici più vicini e più fedeli, il primo amore e quelli successivi, i propri figli, i propri nipoti, ma per quello che sono non per quello che hanno significato per noi.
È questo il viaggio dentro di noi? Non esattamente. Diciamo che queste ne sono le premesse, ma la vera essenza consiste nel capire come e perché questi eventi ci hanno cambiati.
All’inizio dei suoi Essais Montaigne avverte i lettori che in quel libro parlerà soltanto di se stesso. Perciò li avverte: se quest’argomento non vi interessa è inutile che proseguiate la lettura, chiudete il libro e basta così. Ma se invece il tema vi incuriosisce sappiate che io non vi racconterò la mia storia ma piuttosto un passaggio perché ciascuno di noi cambia continuamente, non è mai lo stesso di prima e anche la memoria cambia, il mondo del nostro passato ci appare col trascorrere del tempo in modo diverso da come lo ricordavamo qualche anno prima. Questo è il passaggio di cui parla Montaigne.
Vogliamo dire un nome che meglio orienti chi si sofferma su questi problemi? Diciamo psicanalisi e facciamo il nome di Freud e della sua scuola che è stata al tempo stesso una terapia che cura alcuni disturbi mentali e una filosofia che serve a mettere in luce quel passaggio del quale scrive Montaigne.
La psicanalisi presuppone il confronto tra due persone: l’analista e l’analizzato. Ma è possibile l’autoanalisi? È possibile che una persona analizzi se stessa? Il viaggio dentro di sé è appunto un’autoanalisi ma è evidente che questo procedimento solitario presenta notevoli rischi il primo dei quali è il giustificazionismo. Noi tendiamo, ma naturalmente senza saperlo, a giustificare noi stessi, a non cogliere i nostri difetti, a rimuovere le nostre cattive azioni verso il prossimo privilegiando invece le nostre virtù o chiamando tali quelle che un altro giudicherebbe invece debolezze, vizi o addirittura malvagità.
Insomma un giudizio presuppone un giudice. L’analisi è fatta, come sappiamo, da due persone. La confessione, che è un sacramento cristiano, si svolge anch’essa tra un penitente ed un confessore. L’autoanalisi la fa una sola persona che riassume in sé l’imputato e il giudice, il paziente e il medico, il penitente e il confessore.
Il rischio l’abbiamo già detto, è la tendenza a rimuovere gli aspetti sgraditi o a giustificarli adducendo circostanze interpretate secondo la propria convenienza. Il tutto – non dimentichiamolo – avviene inconsapevolmente perché è la nostra natura che guida e anche la verità è relativa.
Qual è il rimedio per evitare un’eccessiva distorsione della verità e recuperare nella misura del possibile l’oggettività dell’analisi?
Il rimedio è quello di pensare noi stessi come oggetto, il che significa usare il pensiero come strumento spassionato di indagine su noi stessi. Distaccare la mente dall’io e mettere l’io sotto esame. È possibile?
Teoricamente sì, è possibile. Come tutti sappiamo, ciò che distingue la specie umana dalle altre specie animali è proprio il pensiero, la psiche, la mente riflessiva, la consapevolezza di avere un io. Questo fu l’“homo sapiens” quando l’evoluzione rese possibile all’uomo di alzarsi in piedi e di guardare le stelle e poi di scoprire che esiste il tempo, che il tempo trascorre attimo per attimo, che il nostro corpo invecchia e invecchiano le cellule che lo compongono, e infine che noi moriremo perché tutte le cose che hanno un inizio hanno anche una fine.
Lo strumento per l’autoanalisi è dunque questo: la mente che teoricamente è in grado di distaccarsi dall’io e di sottoporlo ad un esame né malevolo né benevolo ma oggettivo.
Si fa presto a dirlo, assai più difficile farlo. Che cosa può aiutarci? Spero non si stupiscano i lettori se dico ci può aiutare la letteratura, il romanzo, il racconto. La ragione è semplice: l’autore d’un romanzo crea i personaggi e li fa agire. Accadono fatti, si accendono sentimenti, si scatenano passioni d’amore, di odio, di potere, si descrivono concupiscenze, crimini, carità, solidarietà. Tutte queste vicende nascono nella mente dell’autore e dal talento che ha nel raccontare, ma è evidente che l’autore trae da se stesso, dalla propria esperienza, dal proprio vissuto la guida per muovere i suo personaggi.
La grande letteratura è questo, i grandi scrittori sono questo: testimonianze, spesso anch’esse inconsapevoli, del proprio se stesso calato in personaggi creati, inesistenti, ma quanto mai significativi. I Promessi sposi, la Recherche du temps perdu, Anna Karenina, Delitto e castigo e tantissimi altri non sono che una sorta di autoanalisi che l’autore mette a disposizione dei suoi lettori.
La cultura nasce dalla vita e a sua volta aiuta a vivere.
http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2014/03/26/news/nei-romanzi-e-nascosto-il-segreto-dell-io-1.158593
FEDELTÀ E AMORE AI TEMPI DI MEETIC. MASSIMO RECALCATI. NON È PIÙ COME PRIMA
di Pietro Bianchi, doppiozero.com, 31 marzo 2014
Qualche mese fa il settimanale francese Les inrockuptibles pubblicò un reportage sul grande successo che stanno riscuotendo in Francia i siti di dating on-line. Meetic, Match.com, OkCupid sono soltanto alcune delle più celebri piattaforme che offrono la possibilità di cercare avventure sentimentali tramite la rete. Negli Stati Uniti oramai da tempo internet è diventato il luogo più diffuso dove inizia una storia d’amore e tuttavia la diffusione dei cellulari di ultima generazione con la geolocalizzazione e la connessione permanente al web hanno estremizzato ancora di più questo processo. Oramai è possibile controllare in tempo reale se nel locale o nel quartiere che si sta frequentando vi sia qualcuno interessato a un’avventura sentimentale e le cui caratteristiche corrispondano a quelle desiderate. Sì, perché i siti didating on-line promettono soprattutto questo: di ricercare un partner che corrisponda perfettamente ai propri voleri. Titolo di studio, caratteristiche fisiche, provenienza, etnia, interessi culturali saranno tutti filtrati da un algoritmo che eviti le brutte sorprese, così come saranno chiare sin dall’inizio le intenzioni nei confronti della relazione da intraprendere (se si tratti di one-night-stand o di una relazione più impegnativa).
La cosa interessante però è che in questa riduzione dell’amore a “incontro di domanda e offerta”, lo spazio che separa il primo incontro con il proprio partner, il primo rapporto sessuale e la fine della relazione è sempre più breve fino a diventare di poche ore. Uno degli intervistati di Les inrockuptibles sostiene che tra il primo click sul profilo della ragazza e il momento in cui si va a letto insieme a volte si riesce a far passare solamente un paio d’ore. E un altro, Théophile, un fedele utente di Meetic, spiega il motivo delle continue separazioni: continuando a mantenere un proprio account anche dopo un incontro soddisfacente con una ragazza, si ha sempre la tentazione di andare a vedere se nel frattempo non sia “arrivato qualcosa di meglio”.
La cosa in effetti non deve stupire né far gridare moralisticamente allo scandalo. È ormai qualche decennio che – forse per attaccare politicamente il Sessantotto – viene usato il nome improprio di “liberazione sessuale” per una pura e semplice mercificazione del godimento sessuale. Nel frattempo generazioni di interpreti (non sempre fedeli) di Deleuze, soprattutto nei gender studies più spregiudicati, hanno ripetuto fino alla nausea quanto il desiderio sia un flusso inarrestabile e impossibile da “imbrigliare” nel binarismo punitivo della coppia borghese e mononucleare. E che l’unica cosa da fare sia lasciare che si esprima liberamente, senza alcun vincolo e senza alcun ostacolo.
Slavoj Žižek lo dice ormai da più di vent’anni: l’ideologia contemporanea non si sostiene più sulla repressione del desiderio ma sull’ingiunzione a godere. “Godi!” o “trasgredisci!” sono diventate le parole di richiamo all’ordine fondamentali. Ma se è sempre più facile godere della sessualità, anche in solitudine (sesso via web-cam, pornografia) o con un partner ridotto a oggetto (prostituzione), è ancora possibile credere alla promessa di un amore che sia capace di andare oltre la fugacità dell’incontro? Un amore che voglia scommettere contro lo scorrere del tempo che sembra destinato inevitabilmente a consumarlo? Se ormai è possibile godere della sessualità pur rimanendo eternamente single, non è l’orizzonte dell’amore di coppia destinato inevitabilmente al tramonto?
Ci parla di questa inattualità dell’amore l’ultimo libro di Massimo Recalcati, Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa (Raffaello Cortina, 2014): un “cantico dedicato all’amore che resiste e che insiste nella rivendicazione del suo legame con ciò che non passa, con ciò che sa durare nel tempo” (p. 12). Un libro che consigliamo di leggere insieme a un’altra grande riflessione lacaniana sull’amore: quel piccolo capolavoro che è Elogio dell’amore di Alain Badiou, recentemente tradotto in italiano dall’editore Neri Pozza. Perché in un mondo iper-sessualizzato com’è quello in cui viviamo oggi a farne le spese è proprio l’amore, come dicono eloquentemente i manifesti pubblicitari di Meetic che annunciano la possibilità di “amare senza innamorarsi” o “senza soffrire” o ancor più chiaramente “senza correre alcun rischio”.
Dietro all’apparente trasgressività della libertà dai vincoli della coppia, dietro alla regola del no- commitment (nessun impegno) vi è infatti semplicemente un atto di difesa, o per meglio dire una paura, nei confronti di quell’esperienza per nulla pacificante, e anzi, spesso alquanto traumatica, che è l’esposizione al desiderio di un’altra persona. Perché come ci ricorda Recalcati l’amore è soprattutto un’apertura verso il desiderio dell’Altro, una passione per la libertà dell’Altro. O come dice Badiou, è un’esperienza del Due, della differenza, che va contro alla fusionalità dell’Uno e all’idea che tra l’Uno e l’Altro possa esserci una perfetta sovrapposizione. Ma in che senso?
La psicoanalisi ci insegna che esistono due tipi d’amore. Vi è un amore di tipo narcisistico, quello per cui si sostituisce l’altro e la sua traumatica alterità con un’immagine ideale e irreale. Il principe azzurro nella sua perfezione fuori dal tempo, le coppie degli “…e vissero felici e contenti” che si vedono al termine dei film romantici appartengono tutte a questa categoria. Dove l’amore non ha nulla dell’esposizione al baratro del desiderio dell’Altro, ma è semmai amore per un’immagine, amore per un ideale. Non è un caso che Lacan chiami questo registro dell’esperienza immaginario, perché nel mondo delle immagini idealizzate non esistono fratture, differenze, incomprensioni. È un mondo dove regna la finzione dell’Uno indiviso. A volte la passione per l’immagine ideale diventa così forte che capita persino che alcuni preferiscano sacrificare il rapporto reale per quello vissuto nell’ideale dell’Uno. Il cinema c’ha costruito un’intera tradizione di racconti di amori impossibili che, da Brief Encounter di David Lean a Titanic di James Cameron, ritraggono coppie che impossibilitate a esprimere la loro unione perfetta nella realtà, finiscono per essere trasfigurate in idealità pure e fuori dal tempo. Perché l’amore dell’Uno può effettivamente esistere. Ma solo pagando un prezzo altissimo: quello dell’annientamento della realtà.
Più spesso è la realtà a prendere il sopravvento. Il tempo finisce per erodere l’immagine ideale, che non può reggere la prova del reale. “Alla minima sbavatura – ci ricorda Recalcati – l’enfasi amorosa potrà facilmente evaporare lasciando il passo a un odio più o meno rancoroso. Basta poco perché questo avvenga: un colpo di tosse imprevisto, il colore sbagliato di un calzino, la scoperta della misura eccessiva dei piedi, la carenza nella cura dell’igiene orale, un naso troppo pronunciato o troppo piccolo… basta poco, pochissimo perché l’altro cada dalla sua posizione di Ideale e si riveli nudo nel suo reale” (pp. 49-50). Ma è solo detronizzando l’altro dalla posizione dell’Ideale che è possibile superare la dimensione narcisistica dell’amore per trovare quella seconda tipologia dell’amore, che Badiou definisce dell’ordine della verità. Si tratta di un amore che non cerca la fusione nell’immagine ideale dell’Uno ma che si costruisce sulla differenza di un altro reale.
L’amore è allora la costruzione nel tempo di un mondo nuovo a partire da una differenza, e che per questo non può che considerare la fusionalità dell’Uno la più grande delle imposture. L’amore è sempre una questione di fedeltà, ma non di fedeltà alla stessità, ma di fedeltà alla differenza.
Contro il cinismo di chi pensa che gli amori siano solo incontri contingenti dei sensi destinati a svanire con il tempo, Badiou oppone l’idea di un amore che dura nel tempo e che anzi si intensifica con il tempo. Si tratta, sulla scia di Mallarmé, di “sconfiggere la contingenza parola per parola” e di fare dell’amore un luogo di manifestazione di una verità universale. All’inizio l’incontro d’amore sarà sempre un evento contingente e casuale, ma a un certo momento deve essere piegato verso un’eternità, ed è solo allora che “la casualità di un incontro viene sconfitta giorno dopo giorno dall’invenzione di qualcosa che durerà”.
“La dichiarazione d’amore – scrive Badiou – segna allora la transizione dal casualità al destino”, dalla contingenza alla necessità, ed è per questo che è così rischiosa e causa una terribile ansia. Ma cosa succede quanto questa dichiarazione viene violata? Quando il patto d’amore viene disatteso – si chiede Recalcati? Se l’esposizione a questa eternità non funziona più e si ripiomba nella temporalità contingente degli incontri? Cosa succede quando l’amore “non è più come prima”?
Se l’eternità del “per sempre” non è dell’ordine della fedeltà all’origine dell’incontro, all’idealità dell’Uno fuori dalla storia e fuori dalla realtà, ma è una fedeltà alla differenza, una fedeltà a un amore che è dentro la realtà e la storia, che cosa vuol dire allora essere fedeli? Possiamo concludere che la fedeltà non è mai un adeguamento alla lettera di ciò che è stato nel passato e che il tempo è destinato a far svanire, ma è una fedeltà rivolta al futuro. Una fedeltà rispetto a qualcosa che è sempre da costruire. A quello Stesso che – come dice Recalcati – non può che diventare sempre Nuovo.
http://www.doppiozero.com/materiali/teorie/fedelt%C3%A0-e-amore-ai-tempi-di-meetic
LA COGNIZIONE DEL TRADIRE
di Annalena Benini, ilfoglio.it, 31 marzo 2014
Julie era bella, non più giovane, a corto di denaro e da sempre all’altezza di qualsiasi dramma, purché fosse sentimentale. Feriva e incassava, e se si fermava un istante vedeva tante Julie del passato, traditrici, tradite, dolci, feroci, abbandonate, consolate, sincere e bugiarde nello stesso istante, sempre vive: tutto avviene in forza dell’amore, scrisse Colette, che in “Julie de Carneilhan” (Adelphi) raccontò molto di sé e di quella forza oscura, ma accesa, che spinge di volta in volta verso la verità o verso il segreto, verso l’inganno o verso gli addii. Verso il momento in cui si decide di non perdonare oltre, o di non mentire più. L’amore, “miracolo da spaccarvi le ossa”, può resistere a molto, può tenere insieme luci e ombre, può rispettare le distanze e fare molte rinunce, o anche nascondersi in bagno a mandare messaggi a un’altra, “non posso vivere senza di te”, e poi tornare nella stanza illuminata, a tavola con tutti, felice, deciso a difendere i sotterfugi ma anche a dire, credendoci profondamente: non ci lasceremo mai. Se ci amiamo, saremo felici e infelici insieme. Vivremo un’autentica vita umana, un po’ folle e un po’ bugiarda, cercando di non essere ridicoli o cattivi, e non sempre riuscendoci. E se saremo costretti, confesseremo, come ne “La panne” di Friedrich Dürrenmatt (“Giovanotto, giovanotto, che cosa intende dire? Non vuole abbandonare finalmente la sua tattica sbagliata, continuiamo a fare gli innocenti? Bisogna confessare, che lo si voglia o no, c’è sempre qualcosa da confessare, dovrebbe cominciare a intuirlo!”). Confesseremo di avere flirtato, di essere stati ambigui, di avere detto “no” intendendo “sì”? Oppure, anche, chiuderemo Twitter, perché c’è un video porno che ci riguarda. Ci infileremo un casco integrale per portare i croissant alla ragazza che ci fa tremare anche solo mentre si sfiora i capelli, diventeremo euforici, impazienti, terrorizzati, troppo sicuri, pazzi e traditori, infliggeremo dolore insensato, chiederemo a un certo punto perdono, diremo: è anche colpa tua. Non rispondevo al telefono perché ero in una riunione molto importante, dirà lui, o lei, con gli occhi ancora lucidi, con addosso quelle ore rubate alla ragionevolezza, al rispetto, alla promessa di stare sempre dalla stessa parte. Oppure correremo a mostrare questo cuore che sanguina e che non può aspettare, sbatteremo in faccia tutta la verità, chiedendo un’impossibile comprensione: non ti ho mai tradito, ma adesso me ne vado perché c’è un’altra persona e non voglio ingannarti. E’ meglio, così? Non è tradimento, in fondo. Anche se un giorno lei gli aveva detto: per sempre. E lui aveva risposto: per sempre. Ed era vero, erano invincibili, sereni, al riparo da tutto il mondo fuori, anzi erano nel mondo insieme, certi di possedere qualcosa di importante e di definitivo. Ma adesso “non è più come prima”, come il titolo del saggio di Massimo Recalcati sul perdono nella vita amorosa (Raffaello Cortina), sulla fedeltà, la gelosia, la libertà, il narcisismo, e il pericolo che risiede in ogni amore. “Nessun amore è al riparo dal rischio della fine, perché ogni amore umano implica sempre l’esposizione assoluta all’Altro, che non esclude mai la possibilità del suo ritiro e della sua scomparsa”. L’esposizione assoluta all’Altro non riguarda soltanto chi viene tradito, però, non è solo la ferita di chi, fiducioso, aspettava il ritorno per cena e credeva alla storia della riunione improvvisa e delle preoccupazioni di lavoro e della trasferta di una notte a Parigi e di quella camicia nuova comprata in aeroporto. Riguarda tutti, anche chi ci ha ferito e adesso è corrotto, alterato, trasfigurato, si è rivelato diverso da quello che pensavamo, è diventato, scrive Recalcati, “un non essere”, che ha fatto infrangere per sempre la corsa, la promessa, dell’amore e non può essere perdonato. L’impossibilità del perdono è qualcosa di molto reale, che si nutre di vita pubblica e privata insieme, che tiene conto non solo del dolore privato, ma dell’umiliazione che arriva dal mondo fuori (gli altri bisbigliano, oppure urlano certezze e buon senso, come accadde a Anne Sinclair, la moglie di Strauss-Kahn, come accade adesso a Valérie Trierweiler, ex compagna del presidente della Repubblica francese: nessun perdono, nessuna redenzione, in nome della dignità, in nome di una promessa perduta; ed è anche questo a fare molto male: quell’assenza improvvisa di dignità, come se chi venga tradito se la strappasse di dosso per il solo fatto di esistere, di non avere capito prima o di non essere affatto certo di accettare la fine, di sbarrare il passo a qualcosa di diverso, un nuovo inizio perfino). L’incontro con l’Altro, la ricerca dell’altro, il pensiero dell’altro, anche solo l’immaginazione di un altro, o di cose indicibili, impresentabili, imperdonabili sognate con altri, le stesse davanti a cui scuotiamo la testa quando qualcuno le racconta o le subisce, perché riusciamo sempre a trovare qualche differenza con i nostri pensieri inconfessabili e ad assolverci allegramente: è questo il rischio assoluto che va evitato o fuggirlo sarebbe, in fondo, un enorme fallimento dell’immaginazione?
Chissà se ci si può fidare di qualcuno che non ha mai pensato più cose insieme, come in un ascensore che unisce fra loro molti piani: alcuni piani sono in bella mostra, lucidati, e altri invece un po’ nascosti, sono i piani in cui si finge di non scendere mai, quelli in cui usciamo da noi stessi, oppure ci entriamo furtivamente. Elsa Morante ha raccontato le telefonate notturne di Luchino Visconti in piena notte, mentre lei dormiva accanto ad Alberto Moravia e doveva rispondere al primo drin, Luchino le chiedeva imperioso gemiti e sospiri e lei obbediva rassegnata e fiera, timorosa che Alberto si svegliasse: sembra un incontro nella mente, e in fondo non fa nessuna differenza, lei ha pensato e svelato le parole di Visconti, lui che le sibilava all’orecchio e poi riattaccava senza una parola, le piaceva la follia di un tradimento telefonico, irrazionale, magari mai avvenuto. In “Stoner” di John Williams (romanzo americano del 1965, in Italia pubblicato un anno fa da Fazi), lui è un uomo silenzioso, onesto, dalla vita immobile, un matrimonio terribilmente angoscioso, una moglie di cui si è innamorato con uno sguardo, senza sapere nulla dell’amore, e che fa di tutto per distruggerlo e gli strappa e rovina anche il legame con la figlia (e lui, però, permette che accada con una rassegnazione desolata). Quando Stoner incontra Katherine Driscoll, una giovane insegnante che segue il suo seminario di letteratura nel Rinascimento e tradizione latina, non fantastica su di lei, non crede che la vita possa riservargli qualcosa, non pensa a intrecciare le dita con le sue, a baciarla sul collo, a guardarla dentro gli occhi per scoprire che sono viola. Lo pensa chi legge, e subito ci si infastidisce davanti alla serietà triste di William Stoner, quarantatré anni, alla sua totale assenza di fiducia nei movimenti dell’esistenza. Così, quando tutto accade fra loro, quello non è un tradimento, ma è la grande storia d’amore, la ricompensa (“Solo con un grande sforzo di volontà riusciva a ricordarsi che stava tradendo Edith”). E’ il suo mondo più vero, che dà un senso agli altri, quello accademico e quello coniugale, ma è il mondo segreto e impossibile di un uomo che si guarda intorno e scende le scale come un ladro prima di arrivare da lei: “Il tuo piccolo flirt”, gli dice un giorno la moglie (i cui pensieri e azioni segrete non vengono mai rivelate, ma le possiamo scoprire lo stesso), con una risatina indulgente, mostrandogli di sapere e rivelandogli anche la percezione esterna di qualcosa che per Stoner era tutto, ma non poteva diventare niente. Era solo un tradimento, insomma, un piccolo inganno, non il senso di una vita. La cosa sconvolgente è che anche Stoner e Katherine accettano che sia così, non pensano di andare via e basta, di scavalcare davanti a tutti il muro di quel “piccolo flirt”. “Entrambi diventeremmo qualcos’altro, qualcosa di diverso da noi – le dice Stoner – Non è la paura dello scandalo, o di quello che potremmo soffrire, tu e io. Non sono le difficoltà che dovremmo attraversare e nemmeno la perdita di ogni affetto. E’ la paura di distruggere noi stessi e tutto quello che facciamo”. Noi che leggiamo sappiamo che il loro era un vero amore, importante, e che non avrebbero mai dovuto rinunciarvi, e che quella rinuncia segna la fine di tutto. Ma la vita sommersa può esistere senza la vita salvata o invece ne esce sempre stravolta, perché fuori da quella dimensione di assurda purezza in cui il segreto e il tormento la confinavano è tutto diverso? Nel tradimento non esiste la vita quotidiana, e nemmeno l’imperfezione. Il nuovo incontro, anche solo immaginato e subito scacciato, è misterioso, intatto, è proprio quel pezzo di mondo che ci manca, un’altra prova della nostra esistenza. Avvolto in una grande quantità di eccezioni, spiegazioni anche fantasiose e piene di volontà (mi sentivo trascurata, sono così stanco, i bambini ci hanno resi diversi, mi lasciavi sempre sola, ero ubriaco, mi avevano appena licenziato, avevo vinto lo scudetto, ha fatto tutto lei, è stato lui, volevo solo farti ingelosire, comunque è stato orribile, non mi ricordo niente, solo una volta massimo due, non è come pensi, avevo paura che si suicidasse se dicevo no, adesso ho la conferma di quanto ti amo, l’ho fatto per vedere se te ne accorgevi, in realtà lui è omosessuale e grazie a me l’ha capito), giustificazioni che in fondo non hanno davvero a che fare con quel desiderio, con quel caos che stravolge gli equilibri e procura dolore, fatica di resistere, bugie ripetute, richieste di perdono oppure il tentativo di una nuova vita e il desiderio immediato di possedere la libertà di un altro, e di dirgli: però tu non tradirmi mai. “La ricerca compulsiva del nuovo non è libertà, è la nuova schiavitù”, ha scritto Recalcati, ma il desiderio che due ginocchia si sfiorino non può essere incasellato nei danni del consumismo, in un’esaltazione del narcisismo. Ci si guardava negli occhi anche prima di Twitter, anche prima di Ingmar Bergman, prima di Anna Karenina, prima che in “Affari di cuore” il padre di Meryl Streep tradita, incinta, disperata, le dicesse: “Non c’è niente che tu possa fare, vuoi la monogamia? Sposati un cigno”. Un cigno bianco, con il collo lungo, bellissimo e con le piume soffici, che non incrocerà mai lo sguardo di un altro, che ci regalerà la sua libertà. Che non disattiverà le notifiche di WhatsApp e non farà la doccia con il telefono in mano per essere sicuro che nessuno legga i messaggi. Che non registrerà rumori di Frecciarossa per fingere di essere in treno, non essendoci. Che non deluderà mai quel miscuglio di aspettative e promesse e abbagli, e non dirà: proviamo a essere infelici insieme, adesso, aspettando che torni la felicità, e perdoniamoci tutto, la tua distrazione e la mia debolezza, le gambe nude di lei che ballava quella sera alla festa e sorrideva troppo. Scrive Recalcati che per gli uomini è molto più difficile perdonare un tradimento, in loro l’umiliazione anche sociale brucia troppo, l’attaccamento all’Io è più forte, e quindi anche il rifiuto stizzito, la rabbia cieca. Una specie di castrazione, a essere lacaniani, la distruzione di un’identità. Ma se ti tradissi, preferiresti che ti tradissi per capriccio o perché mi innamoro di un’altra?, le chiese una sera lui, mentre si raccontavano di una coppia di conoscenti che si stava sbriciolando attraverso due vite parallele sempre più distanti. Lei si alzò in piedi di scatto, già furiosa, lo insultò per la domanda, gli fece altre mille domande e poi, quando si calmò: “E tu, che cosa preferiresti?”. Non si può mai rispondere, non si può immaginare, non si può nemmeno sapere se si potrebbe mai perdonare. Non si può guardare da fuori e capire il segreto di un matrimonio, e non lo si vede nemmeno se si è lì dentro. Ma l’unica risposta sensata, da tenere segreta a tutti gli psicanalisti, i filosofi, gli scrittori e le femministe, è che se negli occhi c’è ancora quell’amore, se non lo si è prosciugato con troppi errori, troppa poca fatica, allora forse non c’è molto altro che conti di più. Nemmeno la possibilità di una luce senza ombre.
@annalenabenini
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