E perché mai la vita dovrebbe avere senso? È davvero una fortuna avere un senso?1
La responsabilità
In un bel film, ormai di oltre vent’anni fa, Nanni Moretti, di quella pellicola regista e protagonista – si tratta di Caro Diario, che per inciso è probabilmente anche il suo ultimo vero film –, è alle prese con l’insistenza di un sintomo, quello del prurito, e dopo una quantità infinita di consultazioni da vari specialisti, senza aver ottenuto alcun risultato, si ritrova tra le mani la più classica delle interpretazioni psicologiche, ossia “questo sintomo è di natura psicologica, dunque dipende da te”. Il personaggio interpretato da Moretti, risponde a questa interpretazione con una battuta “e se dipende da me mi sa che non c’è niente da fare”. Si tratta di una risposta che va ben al di là della battuta ma che intercetta un problema scottante, quello della responsabilità soggettiva rispetto al sintomo che si patisce, con il quale qualsiasi esperienza clinica si deve confrontare, qualunque sia il contesto in cui viene praticata. La battuta di Moretti intercetta per di più il problema della responsabilità soggettiva da un’angolatura ben precisa, che è quella che vorrei brevemente affrontare qui, senza entrare nel merito dell’intera questione. A mio avviso la battuta fa risuonare gli effetti nefasti dell’intreccio, se non addirittura sovrapposizione, tra la questione della responsabilità soggettiva e il “dipende da me!”, tra la responsabilità soggettiva e l’essere causa di sé – e dunque anche del proprio disagio. Per certi versi nessun paziente è più distante dalla verità della propria responsabilità di quello che afferma: “ho capito, dipende da me!”. Infatti non c’è responsabilità soggettiva che nel rapporto che il paziente stabilisce con l’inconscio, con l’alterità che lo attraversa e lo causa. Il rapporto indicato dal “dipende da me”, dal “ho capito”, dal “sono la causa dei miei mali” è di totale rifiuto e negazione di quell’alterità che è causa, dunque non indica alcuna assunzione di responsabilità ma al contrario una distanza radicale dalla possibilità stessa di assumersi la propria responsabilità soggettiva.
Se la responsabilità soggettiva sta nel rapporto che il soggetto stabilisce con ciò che lo causa, l’assunzione di responsabilità consiste nello stabilire un rapporto con tale alterità che è causa capace di riconoscerla come tale. Il “dipende da me” che il paziente si assegna o il “dipende da te” che morettianamente il paziente si ritrova addosso – che la terapia gli assegna – sono una forma radicale di rifiuto di quel che lo causa, dunque tutt’altro che assunzione di una propria responsabilità rispetto alla causa del proprio disagio, del proprio sintomo.
Per questo se, in un’analisi, si vuole lavorare la responsabilità soggettiva – ad esempio la responsabilità del soggetto in quel di cui soffre, ammesso che lo si voglia fare – è fondamentale spingere il paziente a parlare e interrogare l’Altro – cioè l’alterità da cui è attraversato – in tutte le declinazioni possibili, dal desiderio del padre, della madre, dell’amica ecc. Se si vuole lavorare la questione della responsabilità non bisogna spingere il paziente a parlare di sé, di quel che vive e di quel che sente, di come la pensa lui di quel che pensa l’altro, di come ha introiettato le figure genitoriali, di che ruolo ha nella famiglia. Occorre al contrario esporlo all’Altro, spingerlo a parlare, interrogare l’Altro con cui ha da sempre a che fare, far risuonare lo spessore, la potenza di questo Altro, la dipendenza radicale e la sospensione radicale che in quanto soggetto ogni paziente ha rispetto all’Altro. Ciò ha una logica ben precisa: far diventare l’analizzante, il soggetto-analizzante un’incognita per se stesso a causa dell’incognita che tale alterità è diventata per lui. È questo filo a essere decisivo: diventare un’incognita per se stessi, una x per se stessi, a causa – questo ‘a causa’ è fondamentale – della x, dell’incognita, che l’Altro durante l’analisi è diventato per il soggetto. Questo è uno dei primi passi che un’analisi deve produrre ed è uno dei primi passi verso l’assunzione della responsabilità soggettiva – che evidentemente qui pongo come movimento decisivo dell’esperienza analitica. Perché questo “diventare un’incognita per sé a causa dell’incognita che l’Altro è diventato” sarebbe il passo decisivo verso l’assumersi la propria responsabilità? Perché è il segno decisivo di aver portato su di sé l’alterità come causa, dunque è il riposizionamento fondamentale rispetto a ciò che fa causa, riposizionamento a partire dal quale si può avviare un costante riposizionamento rispetto all’alterità che causa, fino all’assunzione della propria responsabilità rispetto alla causa del proprio disagio e del proprio sintomo2.
Mi pare evidente a questo punto come mai il personaggio Moretti dica “e se dipende da me mi sa che non c’è niente da fare”. Spingere il paziente al “dipende da me”, o per altri versi, ma senza cambiare la sostanza, a capire quale ruolo abbia nel sistema che produce il sui disagio, è chiaramente impedire che si avvii un movimento di assunzione di responsabilità, in quanto è chiaramente una negazione dell’alterità come causa, e se si impedisce che si avvii un movimento di assunzione di responsabilità ha proprio ragione Moretti, “non c’è niente da fare”.
Dare corpo nell’analisi all’alterità come causa anziché al “dipende da me!”, anziché all’individuazione del proprio ruolo nel sistema famigliare, è infine quel che può permettere di arrivare a un’assunzione “piena” della propria responsabilità, cioè all’instaurare un rapporto con tale alterità che la riconosca come tale, cioè come causa, come ‘ciò che causa’, il che significa poi per il soggetto in questione “acconsentire a lasciarsi causare da tale alterità”. I personaggi di Beckett, esausti, e ancora di più la sua scrittura, esausta, sono una delle presentificazioni più efficaci dell’acconsentire a farsi causare dall’alterità da cui si è attraversati – dunque in tal senso sono dimostrazioni di una “piena” assunzione di responsabilità3.
Bisogna tener presente che il problema della responsabilità soggettiva è una delle questioni limite, di soglia, che richiede di essere intesa e maneggiata con rigore e tatto, altrimenti proprio l’analisi diventa il luogo in cui si rende impossibile al paziente assumerla. La pratica analitica è sempre sul rischio di psicologizzarsi, dunque di piegare la faccenda della responsabilità soggettiva al capire il proprio ruolo, quando non si tratta né di capire né di ruolo.
Per di più mi pare opportuno tenere conto che la questione della responsabilità soggettiva ha a che fare con qualcosa di insondabile e inanalizzabile e che pertanto non si tratta tanto di ipotizzarla e tanto meno di imputarla all’analizzante, ma di produrla in ogni caso, caso per caso. Allo stesso tempo mi preme precisare due cose. La prima. Mettere l’accento sull’alterità, sulla necessità di spingere il paziente a interrogarla non ha affatto come scopo il conoscerla, il gestirla, ma al contrario, interrogare l’alterità è al servizio di diventarla. La seconda. Non è questa l’ultima parola della psicoanalisi, non è l’alterità come causa la “verità ultima” della psicoanalisi, semmai quella della ripetizione dell’Uno come causa. Del resto è questo che “la teoria di fine analisi attesta”, la ripetizione dell’Uno come causa. Ma occorre tener presente che a questo punto ci si può arrivare solo passando, facendo i giri infiniti e storditi, dell’alterità come causa.
Il rischio della clinica contemporanea
Queste considerazioni sulla responsabilità soggettiva, con le torsioni necessarie, potrebbero sembrare compatibili con la così detta psicoanalisi pura, mentre fuorvianti e un po’ estremiste rispetto alla così detta psicoanalisi applicata – che è poi l’oggetto delle riflessioni di questa rubrica. Per di più, e più in generale, tali considerazioni sembrerebbero essere compatibili con una clinica classica, dove il disagio soggettivo aveva una forte componente simbolica, mentre sembrerebbero essere retrò rispetto ai così detti nuovi sintomi dove la componente simbolica è carente e prevale l’urgenza della dimensione del reale. Prendiamo un così detto nuovo sintomo, gli attacchi di panico, e ipotizziamo di incontrarlo in un paziente che si rivolge all’Asl, in un paziente che porta i tratti tipici della contemporaneità, cioè la continuità fluida dello smarrimento e la solidità incessante dell’angoscia. In questa situazione la questione della responsabilità soggettiva, per giunta intesa come quel che va prodotto attraverso la funzione della x, non è del tutto fuori luogo? Non è già abbastanza nella x questo paziente? Per provare a rispondere a queste giuste obbiezioni torniamo alla solita questione di mettere le cose al loro posto – Lacan ama ricordare che è opportuno mettere la barchetta nell’acqua prima di iniziare a remare, se si rema con la barchetta nella spiaggia non si andrà molto lontano.
Mettere le cose al loro posto, cioè nel tempo e nello spazio. Tempo. Dar corpo all’alterità per avviare il movimento di produzione della propria responsabilità non è mai la prima cosa da fare all’interno di una cura, a maggior ragione non lo è in una cura quando si è alle prese con un paziente che presenta le caratteristiche sopra indicate. Se non è la prima cosa è però qualcosa da far balenare, magari in modo sfumato e delicato, molto presto. Spazio. Il dar corpo all’alterità all’interno della cura va fatto nel punto giusto, cioè nei punti di incertezza e di difficoltà del discorso, della domanda e della storia di ogni paziente. Non si tratta certo di dar corpo a un’alterità generica e sganciata dalla particolarità del singolo caso.
Senso/Vita
Torniamo infine al solito problema. Applicare la psicoanalisi fuori dai luoghi a essa deputati e dai suoi sintomi non significa, e non deve significare, abbandonare le sue fondamenta, fondamenta che non vanno intese come immobili pilastri ma come mobilissima causa – la sua causa sempre in atto. Enuncio così una delle fondamenta della psicoanalisi – forse è il caso di aggiungere lacaniana?4 – che ritengo sempre più decisiva: “la psicoanalisi è una pratica di svezzamento dal senso”. Questo assioma, al cospetto dei nuovi sintomi, nei luoghi limite nei quali si cerca di applicare la psicoanalisi, e in un’epoca che sembra contrassegnata da un diffuso non-senso, va cestinato? “Assolutamente no!” È, a mio avviso, la risposta più corretta. Questo per molte ragioni. Ne indicherò solo alcune. Prima ragione: l’assioma va capito. Svezzamento dal senso non significa produzione del non-senso – che del resto non è altro che l’altra faccia del senso. Svezzamento dal senso indica separazione dall’appello al senso, dall’esigenza di dare senso all’accedere della vita, alla pulsione. I nuovi sintomi, i luoghi limite, il nostro tempo – metto in serie tre cose che evidentemente sono di ordine diverso – non testimoniano affatto la separazione dall’esigenza del senso, ma al contrario un’estrema esigenza di senso, di spiegare, di computare, di sezionare, di ordinare e infine di contabilizzare la dimensione pulsionale della vita – ecco il capitalismo. La cementificazione angosciante del senso e lo smarrimento nel non-senso, di cui testimonia la nuova clinica – la serie a cui mi sto riferendo –, sono due facce della stessa medaglia che non indicano la separazione dall’esigenza del senso ma il fallimento, in taluni casi, o la riuscita forzata, in altri casi, di questa esigenza di dar senso al fuori senso della pulsione. La psicoanalisi, di fronte a queste situazioni, deve andare nella direzione di sostenere, evidentemente in modo diverso, tale esigenza del senso, di dare senso alla pulsione, o deve essere fedele al suo assioma, produrre svezzamento dal senso, ossia la possibilità impossibile di vivere il fuori senso della pulsione?
Se la psicoanalisi ha deciso di diventare una psicoterapia, cioè una forma moderna di religione, ossia una disciplina nella quale si cerca di trovare il senso al fuori senso della vita, deve seguire la prima opzione. Se la psicoanalisi ha deciso di continuare a essere una prassi, cioè una pratica simbolica che tocca il reale, deve seguire la seconda. A scanso di equivoci, sono radicalmente per questa seconda versione.
Ancora Beckett! La sua scrittura non scrive appunto che, separandosi dall’esigenza del senso, fuori senso c’è qualcosa di inestinguibile da frequentare?
1A. Badiou, Beckett. L’inestinguibile desiderio, Il Melangelo, Genova, 2008.
2Preziosissimo a tal proposito J. Lacan, Il Seminario. Libro VIII. Il transfert, Einaudi, Torino, 2008 (in particolare i capitoli XII, XIII, XIV, XVIII, XXVI, XXVII).
3G. Deleuze, L’esausto, Nottetempo, Roma, 2015.
4Ad esempio leggendo l’ultima pubblicazione italiana di André Green tale aggiunta diventa assolutamente necessaria. Cfr. A. Green, La clinica psicoanalitica contemporanea, Cortina, Milano, 2016
0 commenti