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Né sicuramente credenti, né atei materialisti: un’ipotesi sui rapporti fra Arte, Religione, Psicologia del profondo

18 Mag 19

A cura di Sabino Nanni

Faccio parte di coloro che trovano imbarazzante dare una risposta sintetica e chiara a chi chiede se si sia credenti: dire “sì”, oppure “no” significherebbe alludere a due concezioni che, entrambe, non ci appartengono. Nelle righe che seguono, cercherò di chiarire la nostra posizione. Temo che scontenterò quasi tutti coloro che ritengono valga la pena di leggermi: non sono in grado di dire nulla di cui io sia certo riguardo all’esistenza o all’inesistenza di Dio e dell’al di là come le intendono credenti ed atei; altri, che più e meglio di me conoscono filosofia e teologia, sono sicuramente capaci di offrire risposte più soddisfacenti. Quale, quindi, potrebbe essere il motivo d’interesse per quel che ho scritto? Per chi sa e vuole “guardarsi dentro” penso che esso sia la testimonianza di una delle persone che da decenni si stanno sottoponendo ad analisi ed auto-analisi, e che alimentano quest’indagine attraverso l’esperienza dell’Arte, della ricerca scientifica e soprattutto attraverso il contatto con i propri simili (malati o non malati).

Io non so se esista un “al di là” come lo intendono i credenti, né potrò saperlo con certezza fino a quando non ci sarò più in questo mondo; e questo ammesso che, allora, possa esistere in me una soggettività individuale capace di sapere o d’ignorare qualcosa. Quello di cui sono certo (facendone continuamente l’esperienza) è che esista qualcosa “al di là” della coscienza. Si tratta di quella parte del mondo interno caratterizzata dalla freudiana “Unbewusstfähigkeit” (incapacità di divenire cosciente). Essa si manifesta unicamente in modo indiretto, ed è descrivibile soltanto, in maniera allusiva, attraverso le allegorie, le metafore e i simboli dell’Arte e della Religione, oltre che in quelli che si possono ravvisare nelle nostre associazioni d’idee e nei pensieri spontanei. In questo senso, anche questo “al di là” terreno può essere definito “trascendente”. È un “al di là” destinato a sopravvivere anche dopo la fine della nostra esistenza individuale. Esiste, infatti, una dimensione intersoggettiva (da cui attinge la nostra capacità di comprensione empatica nei suoi aspetti intuitivi), in cui si fondono le soggettività individuali, e che persiste, in ogni raggruppamento di persone, anche quando vengono a mancare alcuni dei singoli individui che hanno contribuito a crearla.
Io non so se esista un “Dio” come lo intendono i credenti e come lo disconoscono gli atei. Quello di cui sono certo è che esista, nel nostro mondo interno e nella dimensione intersoggettiva condivisa, un’importante entità idealizzata che è alla base del nostro modo d’essere umano. Sono convinto che ciò che i credenti chiamano “Dio” non sia, come riteneva Freud, soltanto l’oggetto di una convinzione “di comodo”, volta a preservare l’illusione infantile di una protezione onnipotente. Possiamo dire che Dio, se esistesse, si manifesterebbe in  una struttura interiore, questa sicuramente esistente e non oggetto di una convinzione illusoria. Tale struttura è frutto di una sorta di valenza insatura filogeneticamente trasmessa, che alla nascita (e, in altra forma, già nella vita intrauterina) ci porta a volgerci alla figura materna. Dall’interiorizzazione delle cure materne, la suddetta struttura viene plasmata. Il risultato è un “oggetto interno idealizzato” (una persona ideale dentro la persona) che, come fece a suo tempo chi ci mise al mondo, ci “crea”; ossia plasma con la sua immaginazione creativa, a partire dal nostro patrimonio genetico e da una forma d’esistenza primitiva, la nostra soggettività individuale di esseri umani. È una sorta di “architetto” che continuamente (partendo dal materiale di cui dispone) progetta e dà realtà alle nostre qualità propriamente umane: la libertà interiore, la capacità di progettare (ognuno, secondo la propria personalità) la nostra esistenza, la facoltà di conoscere il mondo e noi stessi: la coscienza riflessiva, l’introspezione, l’empatia, la sensibilità artistica, la curiosità scientifica.
Non pretendo certo che le poche righe più sopra siano state esaurienti. Ho voluto soltanto rendere l’idea di come, anche quando non si riesce ad avere una fede certa, non sia affatto necessario rifiutare le convinzioni religiose ed adottare una concezione atea materialistica. Personalmente, fra le due concezioni, mi sento più vicino alla prima, anche se non posso definirmi sinceramente e con certezza “credente”.  

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2 Commenti

  1. antonello.sciacchi16

    Dio è un artefatto del
    Dio è un artefatto del principio logico del terzo escluso: o A o non A. Non lo dico io, ma lo afferma Gödel nell’analisi dettagliata (mai pubblicata per pudore) della prova ontologica dell’esistenza di Dio. Ho sviluppato l’argomento in un articolo su aut aut (n. 363, 2014, p. 137), intitolato “L’ontologia alla prova”. Per tale ragione in clinica analitica uso la logica intuizionista che sospende il principio del terzo escluso e, quindi, ogni riferimento all’ente di cui non si può pensare il maggiore.

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  2. marco.carafoli

    Una cosa è certa, alla
    Una cosa è certa, alla conoscenza profonda non si arriva con la metodologia razionalista e materialista (un tipo di intelligenza preparatoria concreta tipica dello scientismo tecnologico). L’inconscio non è, solo, la sede dei tentativi di difesa e autoguarigione dai traumi, è soprattutto una formidabile dimensione di connessione con la vera essenza delle cose. Ma la logica è di tipo et-et, la temporalità non è una dimensione rigida ( ma un eterno presente), la casualità non è lineare bensì circolare e non risponde ai principi di prossimità ma a quelli della libera associazione (che i fisici chiamano entanglement).

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