“Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l’alba,
da’ lampi notturni e da’ crolli
d’aeree frane!
Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch’è morto!
Ch’io veda soltanto la siepe
dell’orto,
la mura ch’ha piene le crepe
di valeriane.
Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch’io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che dànno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.
Nascondi le cose lontane
che vogliono ch’ami e che vada!
Ch’io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane…
Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch’io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest’orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.”
(Nebbia, Canti di Castelvecchio, G. Pascoli)
Una coltre di nebbia, con il suo velo impalpabile e malinconico, cerca di nascondere dallo sguardo altrui quel colosso che impera tra i campi della prima periferia bolognese.
Il carcere ben si camuffa col grigiore circostante, prendendo quella forma evanescente tipica dei castelli nei film gotici che tutto sommato gli dona.
Nell’avvicinarsi la percezione che si ha è di entrare in un tunnel umido e denso che ti porta in un luogo irreale.
come la nebbia fuori, così dentro i suoi abitanti si adeguano al mondo esterno che festeggia l’inizio di un nuovo anno.
Solito presepe enorme in infermeria prepotente ricorda che fuori è trascorso un altro natale.
Solito alberello cinico di psicofarmaci in direzione, per non farci illudere che il periodo festivo possa essere diverso dagli altri giorni.
Ogni tentativo di fare “festa” tuttavia sembra una nota stonata, un versetto allegro in una composizione tragica.
Affisso in bacheca un messaggio di auguri da parte dell'arcivescovo per la polizia penitenziaria. Ringrazia l'operato degli agenti verso coloro che hanno turbato la pace fuori ma che di ritrovare la pace hanno molto bisogno.
Chissà che emozioni ha suscitato nei lettori.
D’altronde i fantasmi sono quelli che vagano nel mondo alla ricerca disperata di trovare la pace. errando senza meta, condannati al desiderio mai esaudito di trovare un posto nel mondo, vagano tra le mura di un luogo che contiene senza contenere, sospesi in un limbo in terra.
Qualcuno più esplosivo si fa notare con gesti d’ira, altri si perdono nelle spire di una sostanza col desiderio dell’oblio.
Qualcuno resta in silenzio nella sua cella, in attesa di non sa cosa, in balia dei suoi pensieri.
Il tempo è offuscato come la vista, la nebbia si ripercuote nell’animo costruendo barriere dense e umide che rendono invisibile la sofferenza altrui.
Non so quante volte ho sentito in questi giorni dalle persone dire che il loro tempo è fermo, che sentono di non esistere o peggio, che si augurano di non esistere.
Di non avere altro posto nel mondo, di ritrovarsi, tristemente, a sentirsi più accolti nello stare in carcere dove bene o male sentono un senso di appartenenza.
Spesso mi chiedo chi ha inventato le carceri di preciso che ha pensato. Ma come direbbe Basaglia “la logica dell’emarginazione poggia sull’espropriazione del corpo altrui”.
Credo che invece di interrogarci su cosa funziona e cosa non funziona nelle carceri bisognerebbe interrogarsi sul perché ci sia bisogno di un contenitore di degrado in cui congelare vite col risultato di creare delle gabbie mentali da cui la persona non è più capace di affrancarsi.
Nel frattempo schiavi di un loop senza via di fuga, come fantasmi non trovano modo di esistere in giro per le strade, “infestano” il loro castello lontano dagli sguardi della gente comune.
Il carcere a quel punto è l’unico luogo che in qualche modo fa ricordare loro che seppur spettri, esistono.
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