Duecento anni fa, l’11 novembre 1821 del calendario gregoriano (30 ottobre di quello giuliano vigente allora in Russia), nasceva a Mosca Fëdor Michailovich Dostoëvskij, secondo di sette figli.
In Spagna, da dove torno oggi, l’evento è celebrato con la ripubblicazione di tutta l’opera da parte delle edizioni Arca di Madrid, e l’uscita del primo volume introduttivo scritto da Rafael Cansinos Assens e significativamente intitolato: Fiodor Mijailovich Dostoyevski. El novelista de lo subconsciente.
Nel 1837, anno della morte in duello di Aleksander Puskin che era l'idolo letterario dei giovani russi, perse la madre, morta tisica. Due anni dopo, nel 1839, avrebbe perso anche il padre, verosimilmente assassinato dai servi della tenuta che amministrava con durezza.
Un forte sentimento di colpa pervase l'animo di Fëdor, che Freud ricondusse a un complesso di Edipo particolarmente intenso nel suo caso, ma forse più realisticamente Joseph Frank, autore di una monumentale biografia in cinque volumi, attribuisce invece al fatto che si fosse reso conto che le sue insistenti richieste di denaro forse avevano potuto contribuire a rendere il padre più esigente, e quindi più odioso, verso i servi e a scatenare così la loro reazione.
Il 16 agosto dello stesso anno scriveva in una lettera al fratello maggiore Michail: «Sono sicuro di me stesso. L’uomo è un mistero che dobbiamo decifrare, e anche se questo intento occuperà l’intera tua vita, non dire di aver perso tempo; io mi occupo di questo mistero perché voglio essere un uomo». Possiamo dire senz’altro che questo impegno ha rispettato.
Per commemorarlo in questa data importante, avrei voluto – come già mi è accaduto per il quarantennale della morte di Franco Basaglia[i] – dare alle stampe un libro che raccogliesse questi qyuarant’anni di studio e qualcosa di più, al quale sto lavorando e per il quale anche in questo caso sono in ritardo. Così, mi accontento di ricordare gettandoli lì alla rinfusa, senza un preciso ordine né logico né cronologico , gli aspetti che più mi sono appartenuti del mio incontro con lui, un incontro che si è sviluppato appunto in oltre quarant’anni di lettura e di scrittura.
Ho conosciuto Dostoëvski nell’estate del 1980, con la lettura de I Fratelli Karamazov, che avevo trovato nella libreria dei nonni paterni nella edizione in tre volumi con cofanetto, degli Oscar Mondadori.
L’anno successivo, il 1981, è stato il centenario della sua morte, e dovendo presentare un saggio per l’esame di maturità, letti in quell’anno tutti i principali romanzi e i saggi critici di Leonid Grossman, di Remo Cantoni e di Sigmund Freud, glielo ho dedicato; è piaciuto a mio padre, che lo ha fatto pubblicare ed è stato la mia prima pubblicazione[ii].
Riletto oggi, è un saggio non privo di ingenuità che rivelano i limiti di quelle che potevano essere allora le mie conoscenze di Dostoëvskij, ma più in generale dell’uomo, della cultura e della mente. C’è una frase, però, che ricordo con affetto: «Dostoëvskij si dibatteva insomma nella crisi di ogni rivoluzionario, sempre in bilico tra il cinismo del macellaio e l’immobilismo complice del puro» (p. 50). Era il dubbio di fronte al quale si era trovato Dostoëvskij negli inquieti anni ’40 dell’Ottocento, e ci trovavamo in quell’inizio degli anni ’80 del Novecento, quando in Italia una parte della sinistra sparava per le strade e un’altra si omologava con il potere fino a rendersi sempre più indistinguibile da esso, anche io stesso e la mia generazione.
Quello che mi affascina, di Dostoëvskij, è appunto la sua capacità di interrogarsi sui grandi problemi della vita e della psicologia dell’uomo, e insieme sulla questione sociale e le sue ricadute nella politica. La sua straordinaria capacità di mettere in scena, nel romanzo, personaggi e momenti veri, che riproducono nella finzione letteraria la complessità della vita reale. Personaggi, uomini, donne, bambini, così veri che ci sembra di averli conosciuti davvero, così simili agli uomini e alle donne che incontriamo nella vita reale, e che il più delle volte non arriviamo a conoscere così in profondità nei dubbi, le vergogne e talvolta le colpe inconfessabili che si portano dentro, nelle proprie miderie che forse non conoscono essi stessi, nelle passioni, nelle idee sui grandi temi della vita sulla terra e della vita tra gli uomini.
A partire, come si è visto, dal dilemma della violenza politica: senza la quale, a volte, viene da pensare che le cose non cambino. E con la quale, forse, il rischio è che i mezzi compromettano irrimediabilmente i fini. La violenza politica e l'esercizio del potere che anche nei più nobili progetti e atti di altruismo, portano inevitabilmente nascoso in sé l'orgoglio e il segreto sentimento di onnipotenza e autocompiacimento che c'è sempre nel loro esercizio, e rischia di ribaltare progetti e atti nel loro contrario.
Per proseguire con le sue famiglie rotte, il mondo di orfani di padre o di madre che popolano i suoi romanzi riproponendo costantemente questo suo duplice dolore, famigflie dove i rapporti sono sempre altamente problematici[iii].
La povertà non solo per com’è, ma per come viene sentita, vissuta da chi è povero: le mille stupide umiliazioni, le offese che subisce la povera gente.
Con i suoi intrichi amorosi, quelli della sua vita e quelli dei suoi libri, fatti di sentimenti così complessi da non potersi decifrare, le passioni destinate a non incontrarsi, le sue donne che descrive così affascinanti che ci sembra di vederle davvero e sempre un po’ fanno innamorare di loro, le intellettuali protofemministe e orgogliose, le donne miti, doolci e buone che tutti vorremmo incontrare, e le prostitute, le tisiche, le bambine. Donne capaci di infinita bellezza, di infinita intelligenza, di infinita bontà.Gli amori neppure troppo velatamente omosessuali che uniscono inconfessabilmente, nelle relazioni più complesse, anche uomini e donne tra loro.
Le mille spigolature di quel miscuglio di egoismo e di altruismo portati entrambi verso l’estremo che è l’amore, con le sue inquietanti contaminazioni con le questioni della bellezza, il potere, il denaro, con l’odio che può arrivare all’omicidio (femminicidio) o ribaltarsi nel suicidio[iv].
La prostituzione, quella della strada, umile e modesta, di Liza e di Sonia; e quella sofisticata e capricciosa di Nastassia e di Grusenka. L’intrico indistricabile di sesso, potere, denaro, orgoglio, il disprezzo talvolta dell’uno verso l’altro o la difficoltà dell’amore o almeno dell’amicizia, la simpatia che possono legare in modo complesso un uomo e una donna quando la questione del sesso e dei sentimenti si mischia con quella del denaro. O anche, nelle stesse penombre della città e della coscienza, l’umiliante e triste situazione dell’uomo dipendente dalla bottiglia, la sua debolezza, la complessità della sua relazione con la moglie e la famiglia[v].
Fino all’estremo inquietante delle condotte pedofile[vi]. I bambini e le bambine umiliati, sedotti, venduti, stuprati, morti piccoli; i bambini che perdonano, e la bambina, Nelly, che sa ostinatamente – ribelle persino al suo autore – non unirsi al coro pacificatore e rassicurante del perdono[vii].
Le domande della teodicea che Ippolit e Ivan, echeggiando la rabbia antica di Giobbe, impongono in modo disperato, senza sconti, col presentare il conto per tutto il male, tutto il dolore, a Dio, alla natura o alla storia. Facendo domande alle quali tutti vorremmo avere una risposta.
La questione del rapporto tra libertà e istituzione, così centrale per noi che lavoriamo nella psichiatria, evocata nelle pagine potenti di quel capolavoro nel capolavoro che è La leggenda del Grande Inquisitore.
La capacità di cogliere, molto prima che la psichiatria imparasse a farlo, l’esistenza – accanto all’intelligenza che spiega – di un’altra intelligenza, della quale forse chi soffre è più capace, che comprende per intuizione, approssimazione, immedesimazione.
Le mille spiegazioni possibili per un assassinio[viii], legale o illegale, per l’attimo nel quale lo zar può decidere di revocare o non revocare l’esecuzione, nel quale può accadere o no all’ultimo momento – la coscienza come staccata – di abbassare il dorso di un’accetta sul capo della vittima o di rinunciare, e magari di colpirne anche un’altra capitata lì per caso[ix]. I mille modi possibili di desiderare di uccidere, con piena coscienza, essendone solo poco o per nulla coscienti; un’idea della compartizione della mente che anticipa ampiamente quella che sarà la prima topica freudiana[x].
I momenti di estasi, di orgasmo e di mistero della crisi epilettica e del fermarsi della pallina della roulette dal suo giro inebriante e vorticoso [xi], che fanno quasi sperimentare la sensazione della morte, che possono precipitare in un momento nell’ebbrezza della più grande ricchezza e un momento dopo nell’inferno della più radicale povertà, nella quale tante volte Dostoëvskij stesso è precipitato senza, per molti anni, saper trovare pace.
L’esplorarsi dentro e il confessarsi di tanti personaggi, la scoperta amara della bruttura che ciascuno può, consapevole o meno, portare nel sottosuolo che è dentro se stesso; i gesti maligni, le cattiverie che ci troviamo a compiere senza che in piena coscienza lo vogliamo; l’autoesplorarsi e raccontarsi della mente di un uomo, la sua impossibilità di contenersi tutta e di conoscersi fino in fondo; la vertigine perturbante del frammentarsi e duplicarsi all’infinito della propria identità, che può divenire impossibile rimettere insieme, ritrovare[xii].
Fino all’estremo del sentimento soggettivo del venir meno della mente e dell’identità nella follia[xiii], il problema destinato a essere sempre risolto in modo insoddisfacente, incompleto, della reale responsabilità, proprietà degli atti che compie, da parte di un uomo. E il ridicolo affannarsi del tribunale dell’uomo a ricostruire trame impossibili da ricostruire, stabilire e misurare le colpe, rendere proporzionali ad esse i castighi[xiv]. E specularmente, la spaventosa responsabilità di psichiatria e psicologia, la violenza dello sguardo scrutatore che investiga fino all’”io” più profondo, spietatamente denuda, imprigiona la complessità di un soggetto nel letto di Procuste di una definizione[xv].
L’esperienza tragica del carcere vissuto in prima persona e raccontato, i personaggi che lo popolano, le sue relazioni e i suoi rituali così simili a quelli di oggi, gli incontri talvolta davvero intensi che talvolta consente, gli atti di straordinaria generosità, meschinità, violenza dei quali la sua gente è capace, il farsi talvolta gigantesca, opprimente, fino a essere talvolta insopportabile, della colpa.
Il suo e il mio amore immenso per la letteratura. Il suo e il mio scrivere soprattutto la notte, quando tutto intorno sembra tacere, quando la vita sembra fermarsi e trovano spazio le passioni e i pensieri.
Le tante pagine lette ma, confesso, anche quelle saltate. Le pippe nazionaliste e i pregiudizi sul “carattere nazionale” dei russi, dei francesi, i tedeschi, gli inglesi, gli italiani e gli odiati polacchi. Le menate se saranno i russi a “salvare l’umanità”, o magari i francesi, gli inglesi, i tedeschi. O magari, direei io, nessuno di questi, ma piuttosto gli africani, i latini o gli asiatici.
Non so se ho scritto abbastanza di Dostoëvskij, ma questo 11 novembre va finendo e, con la stessa pressione che i debiti hanno sempre fatto a lui, mi trovo a dover chiudere precipitosamente questo pezzo che ci tengo a fare uscire il giorno della commemorazione.
Alcuni dei saggi citati, pubblicati on line, possono essere raggiunti open access a partire dal link che è possibile trovare nelle note. Il video di questo articolo è stato aggiunto dopo che, il 25 novembre alle ore 9.30, ho tenuto la conversazione in diretta su Facebook e Youtube con Chiara Bombardieri della Biblioteca Carlo Livi di Reggio Emilia sul tema “La follia nell'opera di Dostoëvskij”
In Spagna, da dove torno oggi, l’evento è celebrato con la ripubblicazione di tutta l’opera da parte delle edizioni Arca di Madrid, e l’uscita del primo volume introduttivo scritto da Rafael Cansinos Assens e significativamente intitolato: Fiodor Mijailovich Dostoyevski. El novelista de lo subconsciente.
Nel 1837, anno della morte in duello di Aleksander Puskin che era l'idolo letterario dei giovani russi, perse la madre, morta tisica. Due anni dopo, nel 1839, avrebbe perso anche il padre, verosimilmente assassinato dai servi della tenuta che amministrava con durezza.
Un forte sentimento di colpa pervase l'animo di Fëdor, che Freud ricondusse a un complesso di Edipo particolarmente intenso nel suo caso, ma forse più realisticamente Joseph Frank, autore di una monumentale biografia in cinque volumi, attribuisce invece al fatto che si fosse reso conto che le sue insistenti richieste di denaro forse avevano potuto contribuire a rendere il padre più esigente, e quindi più odioso, verso i servi e a scatenare così la loro reazione.
Il 16 agosto dello stesso anno scriveva in una lettera al fratello maggiore Michail: «Sono sicuro di me stesso. L’uomo è un mistero che dobbiamo decifrare, e anche se questo intento occuperà l’intera tua vita, non dire di aver perso tempo; io mi occupo di questo mistero perché voglio essere un uomo». Possiamo dire senz’altro che questo impegno ha rispettato.
Per commemorarlo in questa data importante, avrei voluto – come già mi è accaduto per il quarantennale della morte di Franco Basaglia[i] – dare alle stampe un libro che raccogliesse questi qyuarant’anni di studio e qualcosa di più, al quale sto lavorando e per il quale anche in questo caso sono in ritardo. Così, mi accontento di ricordare gettandoli lì alla rinfusa, senza un preciso ordine né logico né cronologico , gli aspetti che più mi sono appartenuti del mio incontro con lui, un incontro che si è sviluppato appunto in oltre quarant’anni di lettura e di scrittura.
Ho conosciuto Dostoëvski nell’estate del 1980, con la lettura de I Fratelli Karamazov, che avevo trovato nella libreria dei nonni paterni nella edizione in tre volumi con cofanetto, degli Oscar Mondadori.
L’anno successivo, il 1981, è stato il centenario della sua morte, e dovendo presentare un saggio per l’esame di maturità, letti in quell’anno tutti i principali romanzi e i saggi critici di Leonid Grossman, di Remo Cantoni e di Sigmund Freud, glielo ho dedicato; è piaciuto a mio padre, che lo ha fatto pubblicare ed è stato la mia prima pubblicazione[ii].
Riletto oggi, è un saggio non privo di ingenuità che rivelano i limiti di quelle che potevano essere allora le mie conoscenze di Dostoëvskij, ma più in generale dell’uomo, della cultura e della mente. C’è una frase, però, che ricordo con affetto: «Dostoëvskij si dibatteva insomma nella crisi di ogni rivoluzionario, sempre in bilico tra il cinismo del macellaio e l’immobilismo complice del puro» (p. 50). Era il dubbio di fronte al quale si era trovato Dostoëvskij negli inquieti anni ’40 dell’Ottocento, e ci trovavamo in quell’inizio degli anni ’80 del Novecento, quando in Italia una parte della sinistra sparava per le strade e un’altra si omologava con il potere fino a rendersi sempre più indistinguibile da esso, anche io stesso e la mia generazione.
Quello che mi affascina, di Dostoëvskij, è appunto la sua capacità di interrogarsi sui grandi problemi della vita e della psicologia dell’uomo, e insieme sulla questione sociale e le sue ricadute nella politica. La sua straordinaria capacità di mettere in scena, nel romanzo, personaggi e momenti veri, che riproducono nella finzione letteraria la complessità della vita reale. Personaggi, uomini, donne, bambini, così veri che ci sembra di averli conosciuti davvero, così simili agli uomini e alle donne che incontriamo nella vita reale, e che il più delle volte non arriviamo a conoscere così in profondità nei dubbi, le vergogne e talvolta le colpe inconfessabili che si portano dentro, nelle proprie miderie che forse non conoscono essi stessi, nelle passioni, nelle idee sui grandi temi della vita sulla terra e della vita tra gli uomini.
A partire, come si è visto, dal dilemma della violenza politica: senza la quale, a volte, viene da pensare che le cose non cambino. E con la quale, forse, il rischio è che i mezzi compromettano irrimediabilmente i fini. La violenza politica e l'esercizio del potere che anche nei più nobili progetti e atti di altruismo, portano inevitabilmente nascoso in sé l'orgoglio e il segreto sentimento di onnipotenza e autocompiacimento che c'è sempre nel loro esercizio, e rischia di ribaltare progetti e atti nel loro contrario.
Per proseguire con le sue famiglie rotte, il mondo di orfani di padre o di madre che popolano i suoi romanzi riproponendo costantemente questo suo duplice dolore, famigflie dove i rapporti sono sempre altamente problematici[iii].
La povertà non solo per com’è, ma per come viene sentita, vissuta da chi è povero: le mille stupide umiliazioni, le offese che subisce la povera gente.
Con i suoi intrichi amorosi, quelli della sua vita e quelli dei suoi libri, fatti di sentimenti così complessi da non potersi decifrare, le passioni destinate a non incontrarsi, le sue donne che descrive così affascinanti che ci sembra di vederle davvero e sempre un po’ fanno innamorare di loro, le intellettuali protofemministe e orgogliose, le donne miti, doolci e buone che tutti vorremmo incontrare, e le prostitute, le tisiche, le bambine. Donne capaci di infinita bellezza, di infinita intelligenza, di infinita bontà.Gli amori neppure troppo velatamente omosessuali che uniscono inconfessabilmente, nelle relazioni più complesse, anche uomini e donne tra loro.
Le mille spigolature di quel miscuglio di egoismo e di altruismo portati entrambi verso l’estremo che è l’amore, con le sue inquietanti contaminazioni con le questioni della bellezza, il potere, il denaro, con l’odio che può arrivare all’omicidio (femminicidio) o ribaltarsi nel suicidio[iv].
La prostituzione, quella della strada, umile e modesta, di Liza e di Sonia; e quella sofisticata e capricciosa di Nastassia e di Grusenka. L’intrico indistricabile di sesso, potere, denaro, orgoglio, il disprezzo talvolta dell’uno verso l’altro o la difficoltà dell’amore o almeno dell’amicizia, la simpatia che possono legare in modo complesso un uomo e una donna quando la questione del sesso e dei sentimenti si mischia con quella del denaro. O anche, nelle stesse penombre della città e della coscienza, l’umiliante e triste situazione dell’uomo dipendente dalla bottiglia, la sua debolezza, la complessità della sua relazione con la moglie e la famiglia[v].
Fino all’estremo inquietante delle condotte pedofile[vi]. I bambini e le bambine umiliati, sedotti, venduti, stuprati, morti piccoli; i bambini che perdonano, e la bambina, Nelly, che sa ostinatamente – ribelle persino al suo autore – non unirsi al coro pacificatore e rassicurante del perdono[vii].
Le domande della teodicea che Ippolit e Ivan, echeggiando la rabbia antica di Giobbe, impongono in modo disperato, senza sconti, col presentare il conto per tutto il male, tutto il dolore, a Dio, alla natura o alla storia. Facendo domande alle quali tutti vorremmo avere una risposta.
La questione del rapporto tra libertà e istituzione, così centrale per noi che lavoriamo nella psichiatria, evocata nelle pagine potenti di quel capolavoro nel capolavoro che è La leggenda del Grande Inquisitore.
La capacità di cogliere, molto prima che la psichiatria imparasse a farlo, l’esistenza – accanto all’intelligenza che spiega – di un’altra intelligenza, della quale forse chi soffre è più capace, che comprende per intuizione, approssimazione, immedesimazione.
Le mille spiegazioni possibili per un assassinio[viii], legale o illegale, per l’attimo nel quale lo zar può decidere di revocare o non revocare l’esecuzione, nel quale può accadere o no all’ultimo momento – la coscienza come staccata – di abbassare il dorso di un’accetta sul capo della vittima o di rinunciare, e magari di colpirne anche un’altra capitata lì per caso[ix]. I mille modi possibili di desiderare di uccidere, con piena coscienza, essendone solo poco o per nulla coscienti; un’idea della compartizione della mente che anticipa ampiamente quella che sarà la prima topica freudiana[x].
I momenti di estasi, di orgasmo e di mistero della crisi epilettica e del fermarsi della pallina della roulette dal suo giro inebriante e vorticoso [xi], che fanno quasi sperimentare la sensazione della morte, che possono precipitare in un momento nell’ebbrezza della più grande ricchezza e un momento dopo nell’inferno della più radicale povertà, nella quale tante volte Dostoëvskij stesso è precipitato senza, per molti anni, saper trovare pace.
L’esplorarsi dentro e il confessarsi di tanti personaggi, la scoperta amara della bruttura che ciascuno può, consapevole o meno, portare nel sottosuolo che è dentro se stesso; i gesti maligni, le cattiverie che ci troviamo a compiere senza che in piena coscienza lo vogliamo; l’autoesplorarsi e raccontarsi della mente di un uomo, la sua impossibilità di contenersi tutta e di conoscersi fino in fondo; la vertigine perturbante del frammentarsi e duplicarsi all’infinito della propria identità, che può divenire impossibile rimettere insieme, ritrovare[xii].
Fino all’estremo del sentimento soggettivo del venir meno della mente e dell’identità nella follia[xiii], il problema destinato a essere sempre risolto in modo insoddisfacente, incompleto, della reale responsabilità, proprietà degli atti che compie, da parte di un uomo. E il ridicolo affannarsi del tribunale dell’uomo a ricostruire trame impossibili da ricostruire, stabilire e misurare le colpe, rendere proporzionali ad esse i castighi[xiv]. E specularmente, la spaventosa responsabilità di psichiatria e psicologia, la violenza dello sguardo scrutatore che investiga fino all’”io” più profondo, spietatamente denuda, imprigiona la complessità di un soggetto nel letto di Procuste di una definizione[xv].
L’esperienza tragica del carcere vissuto in prima persona e raccontato, i personaggi che lo popolano, le sue relazioni e i suoi rituali così simili a quelli di oggi, gli incontri talvolta davvero intensi che talvolta consente, gli atti di straordinaria generosità, meschinità, violenza dei quali la sua gente è capace, il farsi talvolta gigantesca, opprimente, fino a essere talvolta insopportabile, della colpa.
Il suo e il mio amore immenso per la letteratura. Il suo e il mio scrivere soprattutto la notte, quando tutto intorno sembra tacere, quando la vita sembra fermarsi e trovano spazio le passioni e i pensieri.
Le tante pagine lette ma, confesso, anche quelle saltate. Le pippe nazionaliste e i pregiudizi sul “carattere nazionale” dei russi, dei francesi, i tedeschi, gli inglesi, gli italiani e gli odiati polacchi. Le menate se saranno i russi a “salvare l’umanità”, o magari i francesi, gli inglesi, i tedeschi. O magari, direei io, nessuno di questi, ma piuttosto gli africani, i latini o gli asiatici.
Non so se ho scritto abbastanza di Dostoëvskij, ma questo 11 novembre va finendo e, con la stessa pressione che i debiti hanno sempre fatto a lui, mi trovo a dover chiudere precipitosamente questo pezzo che ci tengo a fare uscire il giorno della commemorazione.
Alcuni dei saggi citati, pubblicati on line, possono essere raggiunti open access a partire dal link che è possibile trovare nelle note. Il video di questo articolo è stato aggiunto dopo che, il 25 novembre alle ore 9.30, ho tenuto la conversazione in diretta su Facebook e Youtube con Chiara Bombardieri della Biblioteca Carlo Livi di Reggio Emilia sul tema “La follia nell'opera di Dostoëvskij”
[i] P.F. Peloso, Scrivere di Basaglia a quarant’anni dalla morte, POL it, 29 agosto 2020 (vai al link)
[ii] P.F. Peloso, Cenni biografici e critici su Dostoëvskij romanziere (1821-1881), Genova, S.A.G.A., 1981.
[iii] P.F. Peloso, Elementi di psicopatologia della famiglia nel romanzo di Dostoëvskij, Atti dell'Accademia Ligure di Scienze e Lettere, XLV, 1988, pp. 133-143.
[iv] P.F. Peloso, Data in pegno. Impraticabilità dell’amore e dell’odio per “La mite” di Dostoëvskij. Parte I. Un esperimento psicologico, POL. it., 31/7/2016 (vai al link); Data in pegno. Impraticabilità dell’amore e dell’odio per “La mite” di Dostoëvskij. Parte II. Un femminicidio sui generis, POL. it., 3/8/2016 (vai al link).
[v] P.F. Peloso Problemi relazionali e sociali correlati all'alcoolismo. Rappresentazione e autopercezione di un bevitore problematico in Delitto e Castigo di F.M. Dostoevskij, Atti dell'Accademia Ligure di Scienze e Lettere, LII, 1995, pp. 171-192.
[vi] P.F. Peloso, C. Schinaia, G. Tabò: Contributi alla definizione e alla tipologia delle personalità e delle condotte pedofile attraverso il romanzo, in: C. Schinaia, Pedofilia e psicoanalisi. Figure e percorsi di cura. Nuova edizione rivista, aggiornata e ampliata, Torino, Bollati Boringhieri, 2019, pp. 193-213.
[vii] P.F. Peloso, Vendicarsi per necessità, vendicarsi per gioco: considerazioni in tema di fisiologia e patologia della vendetta in: Psicopatologia e clinica dell’aggressività: la vendetta (a cura di A. Berti e C. Maberino), Firenze, Ely Lilly, 2004, pp. 75-95.
[viii] P.F. Peloso, Cinque ipotesi di lettura per il caso Raskolnikov, Rassegna Italiana di Criminologia, 6, 4, 1995, pp. 547-564; P.F. peloso, 150 anni con Raskolnikov, POL. it., 10/12/16 (vai al link).
[ix] A.M. Ferro, P.F.Peloso, L. Ferrannini, Alcune vicissitudini del sentimento del valore altrui, della responsabilità e della colpa nell’omicidio, Psicoterapia e scienze umane, XLI, 2, 2007, pp. 171-190.
[x] P.F. Peloso, L’inconscio prima di Freud: aspetti medici e letterari, Atti dell’Accademia ligure di Scienze e lettere, 6, 7, 2004, pp. 245-284.
[xi] P.F. Peloso, Finché rimane un gioco… Considerazioni sul gioco d’azzardo patologico, Il vaso di Pandora. Dialoghi in psichiatria e scienze umane, 13, 2, 2005, pp. 83-103; P.F. Peloso, Sensazioni estreme e ordalie senza fine. «Il giocatore» dal descrivere diagnostico al comprendere psicopatologico, Tysm review. Phylosophy and social criticism, 30 dicembre 2017 (vai al link); P.F. Peloso, Il giocatore. Tra Dostoëvskij, ICD10 e DSM5, POL. it, 17/11/18 (vai al link); P.F. Peloso, Sensazioni estreme e ordalie senza fine. Fëdor Dostoëvskij e i “suoi” giocatori, Atti dell’Accademia Ligure di Scienze e Lettere, serie VI, vol. XVII, 2017-2018, pp. 266-291 (vai al link).
[xii] P.F. Peloso, Io, il forestiero. L'individuo infranto in F.M. Dostoëvskij, Il reo e il folle, 21-23, 2002-2003, pp. 75-90.
[xiii] P.F.Peloso, Nonostante affrontassi la vita con furore. Catastrofe del soggetto ed esordio della psicosi nella letteratura e nella clinica, Atti dell'Accademia Ligure di Scienze e Lettere, LIV, 1997, pp. 175-214.
[xiv] P.F. Peloso, Dostoëvskij e la psichiatria positivista del suo secolo: le tre direzioni dello sguardo di Mitja Karamazov, Il reo e il folle, 9-10, 1999, pp. 309-324; poi in Pol. it, 2012 (vai al link).
[xv] P.F. Peloso, Violenza dello sguardo e relazione di aiuto: il problema psichiatrico in F. Dostoëvski, in: Tra follia e salute: L'arte come evento (a cura di M. Ercolani), Genova, Graphos, 2002, pp. 27-41.
Grazie dottor Peloso. Queste
Grazie dottor Peloso. Queste sono le pagine e gli scritti che ogni buon fenomenologo vuole vedere sorgere e prendere vita. Le pagine del Lebenswelt dostoevskiano, del suo mondo-della-vita così carico di bellezza e al contempo di terribili enigmi. Una vita quella di Dostoevskij pienamente realizzata alla luce di una superiore consapevolezza ovvero che il Male è connaturato all’uomo in quanto uomo per cui il florilegio, come lei stesso descriveva, di ladri, truffatori, giocatori d’azzardo, prostitute, banditi e così via dicendo fra i suoi personaggi. Grazie ancora, e che questa luce, molto più delle giostrine e dei giochetti della misera politica attuale, possa illuminare la sua e le nostre menti di riflesso! Grazie ancora!
Ho apprezzato molto questo
Ho apprezzato molto questo commento, e ti – tra colleghi credo che possiamo usare il tu – ringrazio di cuore per la tua attenzione, e per le belle parole che hai usato. La consonanza che ho avvertito mi ha fatto molto piacere. Sono senz’altro d’accordo con te sul fatto che è davvero sorprendente come, interrogandosi sull’uomo, i suoi enigmi e la sua mente, Dostoëvskij oltre a creare personaggi che hanno la stessa ricchezza e complessità degli uomini reali, abbia saputo anticipare tanti aspetti che avrebbero poi formato il nucleo della riflessione fenomenologica, come anche di quella psicoanalitica del resto, prima che la fenomenologia e la psicoanalisi, e gli uomini che hanno reso possibili l’una e l’altra, nascessero. E credo i duecento anni dalla sua nascita siano un’occasione per ritornare, noi che ci occupiamo che abbiamo nella mente lo strumento e insieme l’oggetto del nostro lavoro soprattutto, a questi suoi libri che si ha sempre l’impressione di non avere letto abbastanza.
Non dà la mano…
Non dà la mano…