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NOLI ME TANGERE

25 Mag 13

A cura di Gianni Guasto

NOLI ME TANGERE

Nello statuto paradigmatico della psicoanalisi, tanto al di qua quanto al di là dei confini dell’ortodossia, è diffusa e apprezzata l’idea che i contatti fisici fra analista e paziente debbano essere ridotti al minimo indispensabile, e talora persino meno frequenti di quanto non ne concedano i comuni rapporti di cortesia non confidenziale; è noto infatti che alcuni analisti di formazione anglosassone non usano stringere la mano al proprio paziente al momento del saluto e a quello del commiato.
Ciò vale in linea generale: e se si vuol risalire alle ragioni storiche di tale uso, non si potrà fare a meno di prendere in considerazione il ruolo che Freud attribuiva all’eros all’interno  della relazione transferale, e alle conseguenti precauzioni in merito.
Ciò detto, occorre sottolineare come sovente il corpo rivendichi il proprio ruolo in un contesto relazionale che rischia di dimenticarne l’esistenza. Proverò a raccogliere, in merito, alcune riflessioni sparse che provengono dalla mia esperienza professionale.
 
1. Circa quindici anni fa, ebbi in psicoterapia a sedute bisettimanali una bambina di sette anni che era stata molestata sessualmente dal padre. Durante le sedute si notava spesso in lei il sorgere di una certa irrequietezza che aveva specifiche connotazioni erotiche: Lucia (la chiamerò così) si avvicinava alla mia poltrona per mostrarmi un disegno e con fare indifferente appoggiava il pube conto il mio ginocchio in un atteggiamento inequivocabile. Fu abbastanza facile per me, in quelle ripetute occasioni, districarmi da una situazione altrimenti imbarazzante con un semplice espediente: prendevo in braccio la bambina e la sedevo sulle mie ginocchia in modo che i genitali non potessero in alcun modo venire a contatto con il mio corpo. Si trattava di un gesto semplice e naturale, congeniale a una coppia genitore-figlio e totalmente privo di connotazioni a rischio di ambiguità. Facendo ciò, quel comportamento scomparve senza che ci fosse bisogno di verbalizzare alcunché. Oltretutto, qualsiasi tipo di “interpretazione” di quel comportamento erotizzato, non avrebbe potuto evitare di assumere un significato censorio e colpevolizzante; o almeno io non sarei stato capace di esprimere una tale riflessione senza correre il rischio di istillare in Lucia ulteriori e indebiti sensi di colpa. 
 
2. Parecchi anni dopo ebbi una paziente della quale, forse significativamente (lo ammetto con imbarazzo), non ricordo il nome. Si trattava di una quasi-adulta piuttosto graziosa, che, al momento del commiato, dopo esserci stretti la mano come io uso fare con tutti i miei pazienti maggiorenni o in procinto di diventarlo, con un gesto improvviso mi abbracciò e mi baciò sulle guance. L’episodio si ripeté due o tre volte, dopodiché la ragazza scomparve, e non la rividi più. Il mio comportamento in quell'occasione fu eccessivamente neutro e perciò non privo di conseguenze: sapevo bene che non avrei dovuto opporre un rifiuto e men che meno un atteggiamento troppo condiscendente. Il risultato fu che mi comportai con cortese e di certo antipatica "degnazione" verso un gesto insolito al quale non ero preparato.  Oggi, il mio rammarico è quello di non aver mai trovato il "varco" giusto per trasformare quell'agito in un pensiero condiviso che forse avrebbe potuto rivelare esperienze della ragazza di cui ero all'oscuro.
 
Questa riflessione mi è tornata alla mente oggi, mentre leggevo un passo del Diario Clinico di Ferenczi che suona così:
 
“L’aiuto offerto dal grembo materno e da un forte abbraccio rende possibile un completo rilassamento anche dopo un trauma sconvolgente, cosicché le forze proprie della persona sconvolta, non disturbate da compiti esterni di precauzione e difesa, si possono dedicare, senza dispersione, al lavoro interiore di riparare delle alterazioni funzionali causate dalla penetrazione inaspettata” ("Bendaggio psichico", 25 Marzo, pag. 132). 
[In questo caso, il termine “penetrazione” può essere riferito tanto alla brutale materialità di uno stupro quanto a un’esperienza indesiderata che “penetri” inaspettatamente nel mondo interno di chi la subisce, rimanendovi confinata].
 
E’ sempre sorprendente constatare la naturalezza con la quale Ferenczi riesce a connettere le emozioni profonde dell’anima con quelle altrettanto intense che sono destinate a radicarsi nel corpo: qui l’abbraccio non è soltanto ciò che agisce in funzione simbolica per ricordare l’amore materno o il contenimento intrauterino: si colloca come una corazza esterna che consente alla muscolatura di rinunciare alle proprie funzioni di difesa che più facilmente tenderanno a diventare permanenti, perpetuando così il senso di pericolo e di persecuzione.
 
E' per questo che ho ripensato alla paziente alla quale non seppi mai chiedere che cosa la spingesse ad abbracciarmi.
 

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