Il vecchio cuore ogni tanto sobbalza,
come per consolarmi degli intollerabili
sintomi di miglioramento1
S. Beckett
Naturalmente ho commesso nella mia vita una quantità di sbagli,
piccoli o grandi, che possono avere la loro origine in questa o in quell’altra ragione,
ma alla radice della questione,
ogni volta che ho commesso uno sbaglio,
sta il fatto che non sono stato abbastanza radicale2
Non c’è analisi senza angoscia
Si sottolinea spesso, e da più parti3, l’importanza dell’angoscia all’interno di un percorso psicoanalitico, la necessità dell’angoscia affinché ci sia un’analisi, affinché ci sia il processo psicoanalitico. Possiamo dunque affermare, senza esitazioni, che “senza angoscia non si può fare un’analisi!”4.
Quest’affermazione non è da intendersi, ovviamente, solo dal versante negativo, ossia, “se non c’è angoscia non c’è ragione di fare un’analisi” – “se uno non è angosciato, non ha ragione di iniziare un’analisi”.
Quest’affermazione è da intendersi soprattutto dal versante positivo, ossia definisce una funzione decisiva di un’analisi, e più precisamente definisce l’angoscia dell’analizzante come condizione indispensabile affinché l’analizzante possa dirsi tale, ossia qualcuno alle prese con il processo psicoanalitico.
Si tratta di una tesi sostenuta in modo radicale da Jacques Lacan: «L’angoscia, per l’analisi, è un termine di riferimento cruciale, perché, in effetti, l’angoscia è ciò che non inganna. Ma l’angoscia può mancare. Nell’esperienza è necessario canalizzarla e, per così dire, dosarla per non esserne sommersi. Questa è una difficoltà correlativa a quella di congiungere il soggetto con il reale»5.
All’interno dell’esperienza analitica, si tratta dunque di canalizzare l’angoscia, di dosarla, di farne un vero e proprio calcolo, se non un vero e proprio calco. Questo calcolo può essere inteso in termini quantitativi – né troppa, né poca – oppure in termini qualitativi – a mio avviso è questo il modo più significativo. Cercheremo di entrare nel merito di questo calcolo e di capire per quale ragione in una psicoanalisi è così necessaria la «funzione dell’angoscia»6.
Possiamo anticipare un punto. L’indispensabilità dell’angoscia in un percorso analitico è legata alla dimensione della causa, dimensione che notoriamente è al centro di un’esperienza analitica: «Se c’è una dimensione in cui dobbiamo cercare la vera funzione, il vero peso, il senso del mantenimento della funzione della causa, è nella direzione dell’apertura dell’angoscia»7.
Che cosa è l’angoscia?
Per proseguire il nostro ragionamento dobbiamo provare a definire l’angoscia. Si tratta di una faccenda molto ampia, e forse anche molto complessa. Ci accontenteremo pertanto di una definizione molto stringata: l’angoscia è un affetto, dunque qualcosa che si sente nel corpo e che sente il corpo, che diventa un segnale, il quale indica al soggetto che si è in presenza del desiderio – che è sempre desiderio dell’Altro – e/o che si è in presenza del godimento (pulsione) – che è sempre godimento del corpo.
Potremmo dire che l’incontro del soggetto con il desiderio dell’Altro e con il godimento del corpo produce un affetto del corpo, affetto che è l’angoscia, il quale segnala al soggetto dell’incontro con il quale è alle prese.
Ci potremmo chiedere come mai l’incontro con il desiderio dell’Altro e con il godimento del corpo produce l’affetto dell’angoscia, ma questo ci porterebbe molto lontano – in estrema sintesi possiamo dire che si tratta di un incontro che produce angoscia in quanto riduce il soggetto a oggetto (questa riduzione a oggetto è ovviamente differente se avviene attraverso il desiderio piuttosto che attraverso il godimento)8.
Occorrerebbe inoltre considerare tutte quelle situazioni soggettive nelle quali non è presente l’affetto dell’angoscia e quelle in cui, pur essendo presente, l’affetto non diventa segnale. Questo oltre ad essere un tema classico – che ad esempio pone il problema dell’angoscia nella psicosi – è un problema legato alla clinica contemporanea, dove sempre più spesso è assente la funzione dell’angoscia. Non possiamo affrontare questo tema, in quanto a sua volta merita una trattazione a parte. Però nel cercare di spiegare la funzione dell’angoscia daremo qualche risposta riguardo a quella parte della così detta clinica contemporanea – vedi anoressie, attacchi di panico, tossicomanie ecc… – nella quale sembra assente o debole la funzione dell’angoscia.
Da quest’ultima considerazione si deduce facilmente che l’affetto dell’angoscia non diventa necessariamente segnale, non è automatico, così come non è automatico, non è scontato, non va da sé, che ci sia l'affetto dell'angoscia.
La funzione dell’angoscia
La funzione dell’angoscia, fermo restando questa sua non automaticità – nel merito della quale non entriamo – è messa a fuoco da Freud più volte, in modi e intensità diverse, fino a trovare una messa a punto che possiamo considerare definitiva nel testo Inibizione, sintomo e angoscia9.
Questa messa a punto definisce la funzione dell’angoscia come necessaria al fine della produzione della rimozione e dunque della costituzione del sintomo. Lo schema, molto noto, è il seguente:
pulsione → angoscia → rimozione → sintomo
Questo schema afferma semplicemente che la pulsione (ciò che noi qui abbiamo nominato “godimento del corpo” e “desiderio dell’Altro”) produce un affetto (angoscia), il quale si fa segnale, il quale a sua volta determina la rimozione della pulsione (del significante della pulsione, del rappresentante della pulsione), il cui ritorno è il sintomo. Ovviamente questo schema si complica, e si deve complicare, se mettessimo al posto giusto godimento del corpo e desiderio dell’Altro – e non insieme come fatto ora – e se mettessimo fissazione, e non rimozione, dopo angoscia – il che renderebbe conto di un altro versante del sintomo.
Ma al di là di queste precisazioni nel merito delle quali non entriamo, rimane l’evidente e inequivocabile funzione dell’angoscia nella costituzione del sintomo. Senza angoscia non c’è sintomo.
Questa semplice definizione dell’angoscia ci permette immediatamente di intendere come mai è decisiva nel percorso analitico. In effetti, che cosa è un percorso analitico?È la ripetizione del sintomo, la messa in atto del sintomo, del proprio sintomo10, nel dispositivo analitico – cioè nel transfert e nell’associazione libera. Pertanto se l’angoscia è indispensabile nella costituzione del sintomo, è altrettanto indispensabile affinché avvenga quella “particolare” ripetizione del sintomo, quella “genealogia” del sintomo (poi vedremo di che cosa si tratta) in cui consiste un’analisi. Ne consegue infine, che se l'angoscia è indispensabile, e lo è nel modo indicato, e allora necessario che sia presente nel dispositivo analitico – che come detto è il dispositivo all’interno del quale avviene l’analisi.
Nel dispositivo analitico l’angoscia deve essere dal lato dell’analizzante e non dal lato dell’analista, in quanto la ripetizione “particolare” del sintomo in cui consiste l’analisi è relativa al sintomo dell’analizzante. Se e solo se l’analizzante è alle prese con l’affetto e il segnale dell’angoscia, l’analizzante sarà “costretto” a ripetere il proprio sintomo11, dunque potrà fare un’analisi – detto per inciso se ad essere in gioco è l’angoscia dell’analista vuol dire che l’analista è divenuto analizzante.
L’angoscia si definisce dunque come una funzione indispensabile affinché ci sia un'analisi, indispensabile ma ovviamente non sufficiente – inutile dire che non basta che ci sia angoscia per far si che sia un'analisi.
Prima di entrare nel merito del come fare con l’angoscia all’interno del dispositivo analitico e dunque di riprendere la questione lasciata in sospeso dell’aspetto qualitativo e quantitativo dell’angoscia, poniamoci un’altra domanda – rispondendo alla quale ci ritroveremo a dire qualcosa anche sul come fare.
Produrre l’angoscia?
Se l’angoscia ha questa funzione decisiva nell’analisi, l’idea che l’analisi debba produrre angoscia, che l’analisi debba in qualche modo produrre l’angoscia dell’analizzante e nell’analizzante, è un’idea più che legittima. In quest’ottica la funzione dell’analista sarebbe, tra l’altro, quella di angosciare l’analizzante, o meglio di produrre l’angoscia nell’analizzante – cosa che avvicinerebbe non poco la funzione dell’analista alla perversione. Ad oggi l’avvicinamento della funzione dell’analista con la perversione è una delle ipotesi più scabrose – è molto migliore digeribile quella con la psicosi. Ma tale avvicinamento, pur presentando degli elementi d’interesse che andrebbero senz’altro sviluppati, si sostiene su un errore di fondo che a breve cercheremo di indicare.
La legittimità dell’ipotesi che l’analisi debba produrre angoscia e che la funzione dell’analista di conseguenza stia, tra l’altro, nel determinare l’angoscia dell’analizzante, è dimostrata anche dall’esigenza di Lacan di fare chiarezza su questo punto e di sostenere con forza di non avere mai detto che l’analisi deve produrre angoscia (e quando Lacan afferma con convinzione di non avere mai detto qualcosa e perché invece l’ha fatto o quanto meno l’ha fatto intendere): «Lo psicoanalista ideale sarebbe colui che commette questo atto assolutamente radicale [cioè di mettersi in rapporto con il reale come tale], di cui il meno che si possa dire sarebbe che è angosciante volerlo compiere. Un giorno ho cercato di proporre qualcosa su questo argomento. Infatti, mentre mi si monetizzava, si voleva fare finta di interessarsi a quel che avrei potuto dire sulla formazione dello psicoanalista, e io ho affermato, che non c’è ragione che una psicoanalisi causi angoscia. (…) Il problema è mettersi in posizione tale che ci sia qualcuno, della cui angoscia vi siete occupati, che voglia venire a occupare quella stessa posizione che voi tenete o non tenete o tenete appena – voglia saperne di come la tenete o non la tenete, è perché la tenete o non la tenete»12.
In questo passaggio ci sono diverse questioni, tra le quali la formazione dell’analista e l’atto analitico. Il punto che interessa direttamente la nostra riflessione sta nell’affermazione “non c’è ragione che una psicoanalisi causi angoscia”. Come accennato, proprio dalla nostra stessa argomentazione si potrebbe dedurre il contrario, ossia che c’è un motivo ben preciso in virtù del quale è fondamentale che una psicoanalisi causi angoscia – il motivo sarebbe appunto “che ci sia psicoanalisi!”. A mio avviso la ragione di questo possibile errore deduttivo viene spiegata da Lacan in un altro passaggio: «Non esiste discorso analitico che, dopo aver fatto dell’angoscia l’estremo baluardo di ogni difesa, non ci parli della difesa contro l’angoscia. Cosicché è da quello strumento così utile in quanto ci avverte del pericolo che dovremmo difenderci. Ed ecco che, con la difesa contro l’angoscia, si spiega ogni sorta di reazioni, di costruzioni, di formazioni nel campo psicopatologico. Non c’è forse qui un paradosso che esige di formulare le cose diversamente? E cioè che la difesa non è contro l’angoscia, ma contro ciò di cui l’angoscia è il segnale?»13.
Lo abbiamo già anticipato. L’angoscia è l’affetto che segnala la presenza del desiderio (che è sempre desiderio dell’Altro) e della pulsione/godimento (che è sempre godimento del corpo). La difesa (dunque il sintomo) è rivolta al desiderio-godimento. L’angoscia è l’affetto-segnale che permette che si istituisca la difesa – dunque per certi versi l’angoscia è già una primissima forma di difesa.
L’errore teorico sta nel concepire il sintomo (la difesa) come relativo all’angoscia (il sintomo come difesa dall'angoscia). Questo errore teorico ne determina immediatamente e inevitabilmente un altro, ossia quello di collocare l’angoscia nella posizione di causa del sintomo – mentre la causa del sintomo è, come visto, il desiderio/godimento.
Questo doppio errore teorico comporta una sottile ma grave svista nella direzione della cura, cioè nel modo di intendere e dirigere il processo analitico. La svista consiste in questo: maneggiare l’angoscia diventa il modo per affrontare il sintomo – cosa che determina, in alcuni casi, l'idea che togliere l’angoscia sia il modo per risolvere il sintomo.
Lo stesso doppio errore teorico è alla base della deduzione errata alla quale ci siamo riferiti poco sopra. In effetti, il doppio errore teorico, collocando l’angoscia come causa del sintomo, rende legittima l’idea di dover produrre l’angoscia per permettere la ripetizione del sintomo nell’analisi – la deduzione è giusta ma è frutto di un errore di fondo.
Se evitiamo il doppio errore teorico, se mettiamo dunque al suo posto sia la causa, ossia la dove stanno desiderio e godimento, sia l’angoscia, ossia la dove inizia la difesa, ci ritroviamo con una logica della direzione della cura più rigorosa e con una definizione più precisa della funzione dell’angoscia. Ci ritroviamo in sostanza con questa logica: 1) ciò che una psicoanalisi deve produrre non è l’angoscia ma l’incontro con la causa, cioè con il desiderio e il godimento, 2) questo incontro determina l'angoscia, la quale se e sole se viene così determinata sarà un affetto (e un segnale) fondamentale affinché ci sia quella particolare ripetizione del sintomo che è una psicoanalisi.
Quando abbiamo fatto riferimento all’aspetto qualitativo del calcolo dell’angoscia, alludevamo proprio a questo. Il modo qualitativamente corretto di calcolare l'angoscia è quello di determinarla a partire dall'incontro con la causa. Il modo qualitativamente scorretto di calcolare l'angoscia è quello di determinarla in qualsiasi alto modo che non sia l'incontro con la causa.
Ovviamente non va cestinato l’aspetto quantitativo, ossia che non ci deve essere né troppa né poca angoscia, ma quest’aspetto è decisamente secondario, per non dire erroneo se non messo in relazione all’aspetto qualitativo – infatti, l’aspetto quantitativo di per sé non è svincolato dall’idea errata che nell’analisi si tratterebbe di produrre angoscia.
Produrre l’incontro con il desiderio
Abbiamo detto che una psicoanalisi deve produrre l’incontro dell’analizzante con la causa, cioè con il desiderio e con il godimento. Cerchiamo ora di indicare in che modo – il che ci farà forse intendere meglio in che cosa consiste questo incontro.
Per prima cosa dividiamo l’incontro in due, quello con il desiderio e quello con il godimento (dividiamo qui per esigenze argomentative ciò che ovviamente nell'esperienza è intimamente annodato).
Iniziamo dall’incontro con il desiderio. Una citazione, abbastanza corposa, di Lacan, potrebbe esserci utile: «In fin dei conti, con quale desiderio andrà ad affrontarsi il soggetto nell’analisi [l’analizzante] se non con il desiderio dell’analista? (…) L’analisi non è una semplice ricostruzione del passato. (…) Se dovessi paragonarla a qualcosa, la paragonerei a un racconto che fosse esso stesso il luogo dell’incontro di cui si tratta nel racconto. Il problema dell’analisi risiede nella situazione paradossale in cui si trova il desiderio dell’Altro che il soggetto deve incontrare, il nostro desiderio [il desiderio dell’analista], il quale è fin troppo presente in ciò che il soggetto suppone che gli domandiamo. Infatti, il desiderio dell’Altro, che il desiderio del soggetto è per noi, noi non dobbiamo guidarlo verso il nostro desiderio, bensì verso un altro. (…) Come tenere una simile posizione? Sicuramente essa non può essere tenuta se non mantenendo un artificio che è quello della regola analitica nel suo complesso. (…) L’analisi è senza dubbio una situazione in cui l’analista si offre come supporto a tutte le domande e non risponde a nessuna, ma è forse soltanto in questa non-risposta – che è ben lungi dall’essere una non-risposta assoluta – che consiste l’efficacia della nostra presenza? Non dobbiamo forse attribuire una parte essenziale a un elemento che è immanente alla situazione e che si riproduce alla fine di ogni seduta? Mi riferisco al vuoto a cui deve limitarsi il nostro desiderio, al posto che lasciamo al desiderio perché vi si situi – in breve: al taglio»14.
Abbiamo detto più volte che l’analisi deve causare l’incontro dell’analizzante con il desiderio dell’Altro. Per quale ragione deve fare ciò? Per una ragione molto semplice. L’incontro con il desiderio dell’Altro è la causa del sintomo, – il sintomo è una risposta/difesa all’incontro con il desiderio dell’Altro.
Occorre dunque essere categorici su un punto: fare incontrare all’analizzante il desiderio dell’Altro è l’unico modo affinché ripeta, cioè metta in gioco il sintomo, ed è l’unico modo affinché si modifichi il sintomo – cioè affinché interpreti di nuovo e diversamente il desiderio dell'Altro, e lo interpreti diversamente rispetto all'interpretazione sintomatica, diversità “garantita” dal fatto che la condizione dell'analisi non è solo quella di poter interpretare di nuovo il desiderio dell'Altro, ma anche e soprattutto di doverlo fare senza la possibilità di rifiutarlo (rifiutarlo che è al fondo dell'interpretazione sintomatica).
Tale modifica può avvenire però se e solo se, la ripetizione messa in gioco dall’incontro con il desiderio dell’Altro è una ripetizione particolare – se così non fosse verrebbe meno tutta la logica dell’analisi. Proprio in questa particolarità della ripetizione sta la possibilità che questa produca un’alterazione del sintomo.
In che cosa consiste tale particolarità? In fondo ogni analizzante nella propria vita, al di fuori dell’analisi, dunque quando non è in posizione di analizzante ma pur sempre di soggetto, incontra il desiderio dell’Altro e vi risponde mettendo in gioco il proprio sintomo – dunque il proprio fantasma, la propria ripetizione ecc… Evidentemente questo non modifica niente. Inoltre per quale motivo andare in analisi? Se andare in analisi vuol dire fare l’esperienza dell’incontro con il desiderio dell’Altro e se questa esperienza è quella che ognuno fa tutti i giorni, non si vede quale potrebbe essere la ragione di andare in analisi, di fare una psicoanalisi. Dobbiamo allora dire le cose in modo un po' drastico: una psicoanalisi è l’esperienza di un incontro particolare con il desiderio dell’Altro, incontro particolare che determina una particolare ripetizione del sintomo. Sta in questo “doppio particolare” la ragione – e anche la logica – di una psicoanalisi – ed eventualmente anche il motivo per cui farla.
Il desiderio dell’analista
Il passaggio sopra riportato è uno fra i tanti nei quali Lacan cerca di fare intendere la particolarità dell’incontro con il desiderio dell’Altro in cui consiste una psicoanalisi. Si tratta dell’incontro con una “strana” declinazione del desiderio dell’Altro, che come visto Lacan definisce desiderio dell’analista. Affrontare questo punto ci porterebbe molto lontano. Limitiamoci allora a isolare un aspetto.
La particolarità dell’incontro con il desiderio dell’Altro in analisi, dunque con il desiderio dell’analista, sta nel fatto che si tratta di un desiderio dell’Altro che non ha nel desiderio dell’Altro, e più in generale nell’Altro e nell’altro, il suo oggetto. Il desiderio dell’Altro, e dunque anche il desiderio dell’Altro incontrato da ogni soggetto nella sua vita, ha sempre come oggetto, come referente, come mira, come causa, il desiderio dell’Altro e/o l’Altro e/o l’altro. Tutto ciò può prendere molteplici declinazioni, anche molto diverse, ma al fondo ci sarà questo nodo. Per esempio un uomo può incontrare il desiderio dell’Altro in una donna, il cui desiderio – il desiderio dell’Altro per l’uomo – avrà come oggetto quello di essere desiderata dall’uomo – dunque avrà come oggetto il desiderio dell’Altro. Un bambino può incontrare il desiderio dell’Altro nella propria madre, il cui desiderio – il desiderio dell’Altro per il bambino – avrà come oggetto il bambino stesso (dunque avrà nell’altro il proprio oggetto), oppure avrà il desiderio del bambino come oggetto (dunque avrà nel desiderio dell’Altro il proprio oggetto), oppure avrà il desiderio di un uomo, magari il padre, come oggetto (dunque avrà nel desiderio d’Altro il proprio oggetto).
Il desiderio dell’analista è quel desiderio dell’Altro che non ha oggetto – ecco il “mi riferisco al vuoto a cui deve limitarsi il nostro desiderio” del passaggio citato. Pertanto una psicoanalisi è l’incontro con questa particolare declinazione del desiderio dell’Altro.
Proprio la particolarità di questo incontro fa si che l’analizzante sia costretto a mettere in gioco il sintomo, a ripeterlo – dunque non solo a riferirsi sterilmente a un sintomo che non è in gioco nell’incontro con l’analista15. Ma questa ripetizione non basta, è indispensabile ma non basta, cioè deve essere, come detto, particolare, non deve essere la semplice ripetizione sintomatica messa in atto da un soggetto allorché incontra il desiderio dell’Altro.
La particolarità di questa ripetizione è “garantita” dalla particolarità del desiderio dell’Altro che l’analizzante incontra – cioè il desiderio dell’analista. Questo desiderio, proprio per la caratteristica sopra indicata, non può essere incapsulato, interpretato, definito, dalla ripetizione sintomatica dell’analizzante, la quale pertanto si metterà sì in atto ma, contrariamente a quanto accade ogni qual volta incontra il desiderio dell’Altro, questa volta andrà in scacco, fallirà la sua strategia difensiva16, girerà a vuoto, proprio perché questa declinazione del desiderio, non avendo oggetto, non può essere incapsulata e anestetizzata.
Ovviamente stiamo parlando qui di logica, l’esperienza insegna che il desiderio dell’analista è spesso “inquinato” da molte scorie e che anche quando non è inquinato – o lo è molto poco – la potenza del sintomo di incapsularlo, e dunque di renderlo inoperoso, può essere inarrestabile. Questa precisazione ne rende necessaria un’altra, che può farci capire meglio la particolarità del desiderio dell’Altro che è il desiderio dell’analista. Evidentemente nella propria vita ogni soggetto fa degli incontri con un desiderio dell’Altro capace di mandare in scacco la propria ripetizione sintomatica, dunque non si tratta di un’esclusiva dell’esperienza analitica. Alcune volte questi incontri possono avere anche l’effetto di modificare la propria ripetizione sintomatica, più spesso hanno invece l’effetto di rinsaldare la ripetizione sintomatica. Bisogna allora ribadire la peculiarità di quella declinazione del desiderio dell’Altro che è il desiderio dell’analista per intendere la differenza tra la messa in scacco della ripetizione del sintomo nell’analisi e la messa in scacco della ripetizione del sintomo nella vita di tutti i giorni.
Il desiderio dell’Altro che nella vita ha la capacità di mettere in scacco la ripetizione del sintomo – capita di incontrare questo desiderio, non spesso, anzi raramente, ma capita – è un desiderio che come ogni desiderio è desiderio dell’Altro, dunque ha come oggetto il desiderio dell’Altro e/o l’Altro e/o l’altro. Pertanto, quando nel corso di un’esistenza l’incontro con tale desiderio riesce a mettere in scacco la ripetizione del sintomo del soggetto che lo incontra, l’effetto sarà quello di ridurre alla posizione di oggetto (di tale desiderio) il soggetto (che ha incontrato questo desiderio dell’Altro).
Il soggetto ridotto a oggetto da tale desiderio sarà proprio per questo un soggetto che non può modificare la propria risposta sintomatica al desiderio dell’Altro – anzi sarà un soggetto costretto a intensificare il sintomo per separarsi da questa posizione di oggetto (per questo le modifiche alla ripetizione del sintomo che avvengono in tali incontri della vita sono sostanzialmente episodiche e immaginarie). Sta proprio qui la particolarità dell’incontro con quella declinazione del desiderio dell’Altro che è il desiderio dell’analista, sta cioè nel fatto che non avendo oggetto non riduce a oggetto l'analizzante che lo incontra.
Per queste due ragioni, ossia che l’incontro con il desiderio dell’Altro che è desiderio dell’analista è l’incontro con un desiderio non incapsulabile nella ripetizione del sintomo ed è l’incontro con un desiderio che non riduce chi lo incontra a oggetto, che si ha nell’analisi una ripetizione particolare del sintomo e si ha la possibilità di modificare e variare tale ripetizione.
Associazione libera e interpretazione
Infine non bisogna trascurare due aspetti. Il primo. Nel passaggio di Lacan sopra riportato c’è un riferimento al dispositivo analitico, cioè alla regola fondamentale – l’associazione libera. Se quella declinazione del desiderio dell’Altro che è il desiderio dell’analista non ha oggetto, è pur vero che ha un luogo dove dispiegarsi, e questo è l’associazione libera – e proprio il fatto che debba e possa dispiegarsi in questo luogo a permettergli di non ridurre a oggetto l’analizzante.
Il secondo. In questa direzione dobbiamo aggiungere un ultimo riferimento all’interpretazione. Il passaggio di Lacan prosegue nel seguente modo: «il taglio è indubbiamente la modalità più efficace dell’interpretazione analitica»17. Sinteticamente dobbiamo qui dire che l’interpretazione è al servizio della logica sulla quale stiamo ragionando, ossia è uno strumento per dare consistenza a questa particolare declinazione del desiderio che è il desiderio dell’analista – dunque è uno strumento volto a far si che l’analizzante incontri il desiderio dell’analista. Lo strumento dell’interpretazione in alcuni casi può fare tutto ciò direttamente, proprio quando l’interpretazione si dà come taglio. In altri, quando l’interpretazione si dà come allusiva, come rinvio, come sottolineatura ecc… serve a preparare il campo all’incontro con il desiderio dell’analista18 – dunque è uno strumento che indirettamente determina questo incontro.
La causa
La particolarità del desiderio dell’analista fa si che il desiderio dell’analista incarna la causa, ossia il desiderio dell’Altro come causa – dunque né il desiderio dell’Altro incapsulato nella ripetizione dell’analizzante né il desiderio traumatico che spezza la ripetizione e riduce a oggetto.
Evidentemente non ogni incontro con il desiderio dell’Altro è l’incontro con la causa, anzi nella vita l’incontro con il desiderio dell’Altro non è mai incontro con la causa in quanto, o è un incontro che viene incapsulato dal sintomo o è un incontro che riduce a oggetto. Altrettanto evidentemente questi incontri, pur non essendo incontri con la causa, hanno a che fare con la causa. Ancora altrettanto evidentemente nella vita di ciascuno ci deve essere stato qualche incontro con il desiderio dell’Altro in quanto causa, ma sono proprio questi incontri a essere stati rimossi, o negati, o forclusi. Dunque cioè che un’analisi deve ripetere non è tanto il sintomo ma l’incontro con ciò che lo causa – è questo incontro perduto che deve ripetere. Il desiderio dell’analista in quanto senza oggetto ha questa funzione, di dare corpo al desiderio come causa, dunque di permettere all’analizzante di ripetere l’incontro con la causa.
Proprio perché questa particolare declinazione del desiderio dell’Altro che è il desiderio dell’analista permette all’analizzante di incontrare la causa – cosa che determinerà angoscia, la quale innescherà la ripetizione del sintomo – viene prodotta non una semplice ripetizione del sintomo, ma una ripetizione in scacco del sintomo e per di più non una semplice ripetizione dei modi del sintomo, ma la ripetizione della sua genealogica – ecco infine la particolarità della ripetizione del sintomo nell’analisi.
Un’analisi non consiste infatti, come detto, in una semplice ripetizione del sintomo. Ma un’analisi non consiste neanche solo nella ripetizione in scacco, non realizzata, del sintomo. Consiste certo in questo, ma anche, e in parte proprio perché è ciò, nella ripetizione della genealogia del sintomo, nella ripetizione cioè degli incontri con la causa del sintomo, e dunque nella messa in gioco non solo dei modi del sintomo ma della sua costituzione – evidentemente sta in quest’ultimo passaggio la possibilità, stretta, di modificare il sintomo19.
Produrre l’incontro con il godimento
Proviamo a occuparci adesso della seconda parte dell’incontro con la causa nell’esperienza analitica, cioè l’incontro con il godimento. Molte delle cose, soprattutto i passaggi di logica della cura, scritti a proposito dell’incontro con il desiderio valgono per l’incontro con il godimento. Ad esempio si tratta anche qui di un incontro particolare con il godimento, quello in cui lo s’incontra come causa – dunque né inglobato nella ripetizione del sintomo, né direttamente e selvaggiamente tanto da esserne ridotti a oggetto. Quindi tutto l’impianto del ragionamento fatto fino ad ora vale anche per l’incontro con il godimento, il quale però presenta anche delle differenze – e se vogliamo anche delle insidie maggiori.
Affidiamoci anche adesso a un lungo passaggio di Lacan – che riporto parafrasandolo e piegandolo un po' alla nostra argomentazione: “Una psicoanalisi riproduce una determinata produzione della nevrosi, una certa ripetizione del sintomo (e del fantasma). Su questo siamo tutti d’accordo. Una nevrosi, la ripetizione del sintomo (e del fantasma), nevrosi che a ragione si considera legata e determinata all’azione dei genitori (dell’Altro), non è attaccabile (non può essere modificata) che nella misura in cui l’azione dei genitori (dell’Altro), cioè di chi l’ha determinata, viene articolata a partire dalla posizione dello psicoanalista (la posizione dello psicoanalista deve permettere all’analizzante di ripetere il proprio rapporto con i genitori – dunque non solo di riferirsi ed esso – senza che questa ripetizione venga realizzata – come detto prima. Qui "genitori" può sembrare un po’ riduttivo. Si tratta comunque dell’azione dell’Altro sull’analizzante. Ma non solo. Infatti l’azione dei genitori, o chi per loro, sul soggetto, non è solo dell’ordine dell’Altro ma anche dell’ordine dell’Uno).
È solo nella misura in cui la posizione dell’analista converge (dà corpo, incarna, fa sembiante di) sul significante del trauma, sul significante che ha fatto sorgere il sintomo (che l’ha causato), che il sintomo si dispiega nell’analisi secondo il discorso (la rete significante, le coordinate della vita dell’analizzante) che lo determina e sostiene e che determina e sostiene il soggetto. La funzione dell’analista (la sua posizione) consiste allora nel riprodurre il significante del trauma, quello che si è fatto causa del sintomo. In questo modo il sintomo si ripete nell’analisi e in questo modo viene costruito il fantasma e viene messa in atto la ripetizione sintomatica in analisi. Fare ciò, costruire un modello della nevrosi, è in sostanza l’operazione in cui consiste una psicoanalisi. Potremmo ancora chiederci il perché, come mai un’analisi deve fare proprio questo? La risposta è secca. Una psicoanalisi deve riprodurre il modello della nevrosi (la ripetizione della nevrosi nei modi particolari prima indicati) al fine di sottrarre alla nevrosi la propria quota di godimento. Ma in che modo avviene ciò? Per intenderlo dobbiamo partire da una tesi. Ogni soggetto si arrangia nella vita con il godimento in un solo modo – non ci sono due modi ciascuno di arrangiarsi. Dunque qualsiasi reduplicazione di questo modo di godimento lo uccide (ripetere il modo di godere in modo diverso cancella il modo di godere precedente, proprio perché non ce ne possono essere due). Dunque la ripetizione del modo di godere di ciascuno, del sintomo, insiste e sopravvive solo finché si ripete identica a se stessa – ripetizione che essendo identica a se stessa è anche “vana”, cioè è una difesa dal reale, un evitare il reale. La ripetizione del modo di godere (del sintomo) nell’analisi è invece una ripetizione compiuta, completa, ossia che incontra il reale, e dunque sostituisce, dissolve, il modo di godere del sintomo. Tale sostituzione di una ripetizione vana (il modo di godere del sintomo) con una ripetizione compiuta (il modo di godere del sintomo in analisi) ha la capacità di dissolvere il godimento del sintomo”20.
Un’analisi è un particolare incontro con il godimento
Si tratta di un passaggio molto difficile – la parafrasi ha reso il linguaggio più in sintonia con il nostro ragionamento, ha tolto qualche asperità, ma di fondo rimane un passaggio molto denso e complesso. Però a mio avviso è un passaggio decisivo, nel quale sono indicate questioni basiche della pratica psicoanalitica, di come funziona una psicoanalisi. Al di là delle varie indicazioni messe tra parentesi nel passaggio, mi soffermerei su due aspetti.
Come avviene l’incontro con il godimento nell’analisi? Per prima cosa ribadiamo un punto. L’incontro con il godimento in analisi è un incontro particolare21 con il godimento, in quanto lo s'incontra come causa, cosa che, attraverso l’affetto e il segnale dell’angoscia, permette la produzione della ripetizione del sintomo, dunque del modo di godere dell’analizzante.
Come visto dal passaggio di Lacan si tratta di una ripetizione particolare, in quanto è una ripetizione completa e compiuta, e dunque proprio per questo può sostituire, cancellare, il godimento fissato nella ripetizione vana del sintomo.
Proprio perché l’analisi consiste in una ripetizione del sintomo diversa da quella della vita quotidiana, e proprio perché tale diversità sta nell’essere una ripetizione compiuta rispetto alla ripetizione sempre incompiuta della vita quotidiana (il fatto che sia una ripetizione diversa permette la sostituzione perché come detto non sono possibili due modi di godere; il fatto che sia compiuta è però la cifra della diversità della ripetizione, cosa che permette che la sostituzione sia anche una modifica dello statuto del sintomo, cioè della ripetizione, modifica che consiste nel passaggio dalla “ripetizione come evitamento del reale” alla “ripetizione come reale”) può avvenire la caduta del godimento fissato nella ripetizione vana del sintomo.
Non dobbiamo dimenticare che – come visto per il versante desiderio – questa particolare ripetizione del godimento del sintomo è determinata da un particolar incontro con il godimento (qui sta il punto decisivo di un’analisi).
Ripetizione vana e ripetizione compiuta
Definiamo le due ripetizioni alle quali ci stiamo riferendo – la faremo in modo un po’ riduttivo.
Il reale della ripetizione è il reale in quanto ripetizione, cioè in quanto insistenza senza sosta dell’urto, del taglio, della spaccatura, dell’alterazione. La ripetizione della nevrosi (sintomo e fantasma) è la localizzazione di ciò in un modo. Tale ripetizione è vana, ossia manca sempre il reale della ripetizione che tenta di localizzare. Al contrario la ripetizione reale (il reale come ripetizione) è sempre compiuta. Un’analisi consiste nell’incontro con questa ripetizione. L’incontro con questa ripetizione permette di cancellare la ripetizione vana.
Si potrebbe pensare che sia qui presente un cambio radicale nella concezione della direzione della cura. Abbiamo infatti visto, con Lacan, che un’analisi consiste nella ripetizione in scacco, non realizzata, della ripetizione del sintomo e del fantasma, dunque nella ripetizione vana di quella ripetizione riuscita, cioè soddisfatta, che è il sintomo (fantasma). L’ultimo passaggio, quello relativo al Seminario XIX, sembrerebbe affermare esattamente il contrario, e cioè che l’analisi consiste nella ripetizione riuscita di quella ripetizione vana che è la nevrosi (il sintomo e il fantasma). È un’impressione legittima, ma fondata su un errore di fondo – impressione legittima che potrebbe addirittura portare a pensare che nell’analisi si tratterebbe di realizzare il fantasma (cosa che porterebbe insomma a commettere un grave errore teorico).
Nella concezione classica della logica della cura, si tratta di far si che nell’analisi ci sia la messa in atto di quella ripetizione che è la nevrosi (dunque del sintomo e del fantasma) e che questa avvenga, come visto, in modo particolare, cioè sotto scacco, cioè non realizzata (che si ripeta senza realizzarsi). Questa concezione rimane valida. L’ultimo passaggio preso in considerazione non mette in discussione questo assunto. Ciò che questo passaggio introduce è il reale della ripetizione, dunque il reale del godimento e dunque introduce un cambiamento di statuto in quella ripetizione che è la nevrosi (sintomo e fantasma). Quest’ultima ripetizione è, in relazione alla ripetizione del reale, vana, cioè è una difesa del reale che sempre lo manca, o, per dirla meglio, che sempre lo incontra come mancanza e/o eccesso22.
Tutto ciò comporta che la ripetizione, ora vana, della nevrosi (sintomo e fantasma), si ripeta nell’analisi senza realizzarsi – esattamente come accadeva prima. Ma il non realizzarsi sarà ora diverso. La ripetizione vana della nevrosi non si realizza ora, in questa nuova concezione dell’analisi avvertita del reale del godimento (del reale della ripetizione), non essendo vana, cioè incontrando nell’analisi il reale della ripetizione. Questo incontro è la ripetizione compiuta di cui parla Lacan, ed è questo incontro a permettere di far cadere la ripetizione vana della nevrosi.
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nevrosi (fantasma e sintomo) = ripetizione riuscita → psicoanalisi = ripetizione vana della nevrosi → costruzione del fantasma e attraversamento del fantasma
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nevrosi (fantasma e sintomo) = ripetizione vana rispetto al reale del godimento → psicoanalisi = ripetizione vana della ripetizione vana, cioè incontro con il reale del godimento, cioè realizzazione della ripetizione compiuta (del reale della ripetizione) → sinthomo
Il significante del trauma e il godimento del corpo
Dobbiamo tornare sul punto lasciato sospeso e annunciato come decisivo: la particolarità dell’incontro con il godimento in cui consiste un’analisi.
L’incontro con il godimento in analisi è particolare per almeno due ragioni.
La prima. Si tratta di un incontro particolare in quanto è l’incontro con il significante del trauma, cioè con un significante al quale la posizione dell’analista deve dare corpo e posto. Si tratta di un significante enigmatico, cioè con un significante che vuole dire assolutamente qualcosa ma non indica cosa, e che proprio per questo ha effetti sul corpo. L’effetto di tale significante enigmatico sul corpo è il godimento del corpo.
Quale sarebbe però l’aspetto particolare di questo incontro se, almeno per Lacan, l’incontro con il godimento è sempre l’incontro con un significante che tocca il corpo? Sono tre gli aspetti particolari.
Il primo. Nella vita l’incontro con il significante che tocca il corpo è strutturalmente rimosso – la particolarità sta dunque nel fatto che l’analisi consiste in un incontro che altrimenti non si può che rimuovere.
Il secondo consegue il primo e per certi versi spiega anche perché nell’analisi questo incontro non viene rimosso. La posizione dell’analista non è solo quella di dare corpo al significante del trauma ma anche al luogo di una possibile risposta23. Per dirla in soldoni l’analista incarna il trauma e al contempo rimane lì affinché si dia una risposta a questo24 – non incarna il trauma e se ne va, come accade con chi incarna il trauma nella vita.
Il terzo. La posizione dell’analista che dà corpo al significante del trauma è una posizione che rimane sospesa, supposta25. È all’interno della supposizione di sapere (transfert), dunque dell’ipotesi che l’analista sia una risposta, che sorge l’analista come significante del trauma, come significante enigmatico che sta al posto della riposta domandata e attesa, significante che però rimane tale (deve rimanere tale, questo è un’altra declinazione del desiderio dell’analista), dunque non viene svelato, non viene detto, non viene rivolto all’analizzante26.
Sono proprio queste tre caratteristiche a far si che in una psicoanalisi ci sia ripetizione del sintomo, dispiegamento della nevrosi, ma ripetizione del sintomo vana, in scacco, proprio perché il modo di godere che così si ripete (quello dell'analizzante) non trova nel godimento che incontra (quello incarnato del significante del trauma che è l'analista) occasione e modo di fissarsi, essendo questo un godimento enigmatico, non decifrabile e che al contempo non riduce a oggetto colui che lo incontra.
Il godimento dell’analista
La seconda ragione per la quale possiamo dire che un’analisi è un incontro particolare con il godimento è quella più delicata – e che pertanto mi limiterò solo ad accennare. Tra l’altro a mio avviso è questa seconda ragione, e forse solo questa, a rendere ragione di quella ripetizione completa alla quale fa riferimento Lacan, ripetizione completa in cui consiste l’analisi, la quale solo attraverso questo e per questo, può dissolvere il godimento del sintomo.
L’incontro particolare con il godimento nell’analisi è l’incontro con il godimento dell’analista, faccenda delicatissima, ma che non indica altro che il sinthomo dell’analista27 – il tic di godimento che ha fabbricato nella propria analisi e attraverso cui si è deciso per farsi analista28.
È proprio questo incontro con il godimento/sinthomo dell’analista, che evidentemente un analizzante fa ripetutamente e quasi senza sosta nella propria analisi, a scombinare la difesa dell’analizzante, cioè la ripetizione del proprio sintomo, cioè il proprio modo di godere (ovviamente andrebbe qui spiegato perché sia possibile affermare ciò, ma la cosa ci porterebbe molto lontano).
L’incontro con il sinthomo dell’analista fa si che la ripetizione del sintomo dell’analizzante non avviene in primis nel proprio discorso e poi nel proprio modo di stare in analisi, ma fa sì al contrario che la ripetizione del sintomo si canalizzi intensamente nel proprio modo (dell’analizzante) di stare e di fare l’analisi29.
Determinato ciò, l’incontro con il sinthomo dell’analista risuona con il modo di stare in analisi dell’analizzante – che è il proprio modo di godere. Tale risonanza finisce per scombussolare questo modo di godere, facendone balenare lo statuto di difesa, dunque facendo risuonare il reale che questa difesa copre. Così facendo, e forse solo così facendo, l’analizzante può incontrare il reale che il proprio modo di godere, il proprio sintomo, copre. In questo incontro sta il compimento della ripetizione in cui consiste una psicoanalisi.
Tutto ciò andrebbe evidentemente articolato nei dettagli, ma per questo rimandiamo a un prossimo incontro.
Come non fare
In una psicoanalisi si tratta dunque di produrre l’incontro dell’analizzante con una particolare declinazione del desiderio dell’Altro e del godimento del corpo. Tale incontro non può non produrre l’affetto e il segnale dell’angoscia e di conseguenza la ripetizione del sintomo. La ripetizione del sintomo sarà una ripetizione particolare proprio perché causata da un incontro particolare. Per certi versi, in estrema sintesi, questo è il come fare che abbiamo cercato di argomentare in queste pagine – il come fare sta dunque nella funzione del desiderio dell’analista e nella funzione del sinthomo dell’analista, funzione che ha appunto il compito di permettere quell’incontro particolare con il desiderio e con il godimento in cui consiste un’analisi.
C’è infine una piccola nota sul come non fare che permette di intendere una declinazione ulteriore sul come fare. In parte lo abbiamo detto. Non si tratta mai di fare angosciare l’analizzante e non si tratta mai di fare incontrare il desiderio dell’Altro e il godimento del corpo nella loro declinazione “classica”. C’è un’altra cosa relativa all’angoscia che si tratta di non fare. Lacan ne parla con precisione in una delle ultime lezioni del Seminario VIII. Qui Lacan sta mettendo a fuoco la funzione decisiva dell’angoscia: «l’angoscia è la modalità radicale con la quale viene mantenuto il rapporto con il desiderio (…) l’angoscia è l’ultima modalità, una modalità radicale, con cui il soggetto continua a sostenere, anche se in modo insostenibile, il rapporto con il desiderio»30. Nel fare questo Lacan riprende un’indicazione di Freud: «diciamo, con Freud, che il segnale dell’angoscia si produce a livello dell’io»31, e la declina a modo proprio, cioè ribadendo che di fatto, al fondo, l’io altro non è che l’immagine dell’altro: «io in quanto immagine dell’altro»32.
Rispetto alla riflessione condotta da noi fino ad ora, nella quale l’affetto dell’angoscia diventa segnale – riflessione tarata sul Seminario X – in questo passaggio, tarato sul Seminario VIII, l’affetto dell’angoscia diventa segnale se e solo se interviene la funzione dell’io a produrre un tale segnale: «il segnale d’angoscia: e dall’alter ego, dall’altro che costituisce il suo io che il soggetto può riceverlo»33.
Questa leggera differenza tra l’angoscia che si fa segnale a prescindere dalla funzione dell’io e l’angoscia che si fa segnale attraverso la funzione dell’io, è una differenza che per il nostro ragionamento è, per un verso trascurabile, per un altro verso determina una risonanza con quanto abbiamo detto sino ad ora. In effetti proprio nella riflessione sull’angoscia interna al Seminario VIII, Lacan pone una distinzione che risuona con tutto quanto abbiamo sostenuto fino ad ora. La distinzione è, in effetti, tra ciò che segnala l’angoscia e ciò che causa l’angoscia, tra l’oggetto del desiderio che causa l’angoscia e l'io che la segnala: «gli viene la strizza [l’angoscia] davanti all’altro a [non all’a che è l’io ma all’a del desiderio], non già immagine di se stesso, ma oggetto del suo desiderio»34. È attraverso questa distinzione, che evidentemente si lega a tutto quello che abbiamo detto sul rapporto tra la causa e l’angoscia, che Lacan mette in gioco la posizione dell’analista, e dunque il come fare/come non fare nella direzione della cura: «il salto consiste nell’indicarvi qui quello che vi annuncio da molto tempo come il posto a cui si attiene veramente l’analista»35.
Siamo dunque alle prese con il legame tra la posizione dell’analista e la differenza tra l’io come luogo di produzione del segnale dell’angoscia e l’oggetto del desiderio come causa dell’angoscia, siamo dunque alle prese con «qualcosa di molto importante nella clinica e nella pratica analitica. L’angoscia alla quale i vostri soggetti sono esposti non è affatto o non è unicamente come si crede e come voi la cercate sempre – se posso dire così – interna al soggetto (…). L’angoscia con cui ha a che fare il vostro nevrotico, (…) è un’angoscia che egli ha l’abitudine di andare a cercare a palate, a destra e a manca, dal tale o talaltro dei grandi A con i quali ha a che fare. Questa è per lui altrettanto valida e utilizzabile della farina del suo sacco. Se non tenete conto di questo aspetto nell’economia di un’analisi vi sbaglierete di brutto. (…) Non è necessariamente la sua [l’angoscia con la quale si ha a che fare in un’analisi]. Da mettere in conto c’è anche l’angoscia dei vicini, e poi la vostra»36.
Lacan introduce, a partire dalla distinzione tra ciò che segnala l’angoscia e ciò che la causa, la questione dell’angoscia dell’analista. Il passaggio continua: «Certamente credete che là vi ci ritroverete [cioè sulla faccenda dell’angoscia dell’analista]. Sapete che su questo punto vi sono già stati dati degli avvertimenti. Temo però che non vi abbiano avvertito un granché, dato che implicano, per l’esattezza, che la vostra angoscia non debba entrare in gioco. L’analisi deve essere asettica per quanto riguarda la vostra angoscia»37.
Lacan non sembra essere molto convinto di questa idea che l’angoscia dell’analista non debba entrare in gioco nell’analisi, ma non perché sostenga il contrario, ossia che debba entrare in gioco. Questa idea della non-angoscia dell’analista non convince Lacan in quanto la considera mal posta: «che la vostra angoscia l’abbiate già ampiamente superata nella vostra analisi precedente non risolve niente, perché ciò che si tratta di sapere è quale debba essere il vostro statuto attuale, rispetto al vostro desiderio, perché non emergano da parte vostra, nell’analisi, né il segnale d’angoscia né l’angoscia stessa, giacché se essa insorge, è bell’e pronta a riversarsi nell’economia del vostro soggetto, e questo in misura proporzionale al suo avanzamento nell’analisi, ossia nella misura in cui sta cercando la via del suo desiderio a livello di quel grande Altro che voi siete per lui. A ogni modo (…) bisogna far intervenire la funzione dell’Altro, A grande, riguardo al possibile insorgere dell’angoscia come segnale»38.
La questione non sta tanto nel mettere in gioco la propria angoscia – che l’analista non la metta in gioco. Questo per certi versi va da sé, è ovvio. La questione decisiva è che l’analista faccia intervenire la funzione del grande Altro la dove è atteso e convocato l’altro immaginario, l’io, a emettere il segnale dell’angoscia. La questione decisiva non sta nel mettere in gioco o meno la propria angoscia da parte dell’analista, ma sta nella funzione dell’analista di lasciare «sguarnito il posto in cui è chiamato come altro a dare il segnale dell’angoscia»39.
Ecco che in questo modo ritroviamo una questione di fondo di tutto il nostro ragionamento. Per l’analista si tratta di lasciare vuoto il posto in cui è chiamato a dare il segnale dell’angoscia – si tratta dunque di non rispondere come altro immaginario. Se l’analista non lascia vuoto questo posto40, se risponde da questo posto – cioè se risponde a partire dal proprio io, dalla propria immagine di sé, dalla propria idea di sé, dalle proprie idee in generale, a partire da quello che sa, se risponde dal posto dove la domanda dell’analizzante lo attende, se risponde a partire dal controtransfert, se risponde introducendo senso ecc… – inevitabilmente fornisce il segnale d’angoscia.
Ecco perché per Lacan la questione decisiva non sta nella capacità o meno dell’analista di mettere in gioco la propria angoscia, quanto nella capacità dell’analista di non rispondere come io41 – se risponde come io inevitabilmente fornisce il segnale d’angoscia, e questo avviene anche se non mette in gioco la propria angoscia42.
Per l’analista si tratta inoltre, al contempo e di conseguenza – cioè questo secondo momento non sarebbe possibile senza il primo – di dare corpo e valore al grande Altro, che non è il luogo della saggezza e della sapienza, del sapere e del senso, ma il luogo della causa del desiderio. Detto altrimenti, il grande Altro è il luogo della catena significante, dunque l’analista da un verso, con l’interpretazione e l’atto, deve far sorgere questo luogo, renderlo operativo, dall’altro – sempre con l’interpretazione e l’atto – deve dare corpo alla causa del desiderio che nel luogo di questo Altro insiste. Solo in questo modo l’analisi permette all’analizzante di incontrare la causa – ecco il nostro tema di fondo.
Viceversa, se l’analista occupa la funzione di dare il segnale di angoscia, continuerà ad alimentare la nevrosi dell’analizzante, nevrosi che confonde regolarmente la causa dell’angoscia con il segnale dell’angoscia, o meglio ancora copre e misconosce la causa dell’angoscia attraverso il segnale dell’angoscia.
L’incontro ripetuto con la causa del desiderio in cui consiste un’analisi permette all’analizzante di fare, proprio per questa caratteristica di incontro ripetuto, l’esperienza propria del desiderio, cioè «che il desiderio presenta in se stesso un carattere pericoloso, minaccioso»43, cioè angosciante.
Questa esperienza permette la caduta dell’ideale del desiderio – cioè di un desiderio senza angoscia -, la separazione dalla fissazione del desiderio a oggetti immaginari, il lutto dell’unicità dell’oggetto, dell’esistenza dell’oggetto del desiderio – fissazione che come visto avviene proprio in nome della negazione della causa del desiderio e che rende ragione della confusione tra il luogo che segnala l’angoscia e quello che la causa.
«Non c’è un oggetto che abbia più valore di un altro: è qui il lutto attorno al quale è centrato il desiderio dell’analista»44, il lutto, aggiungiamo noi, attorno al quale è centrata un’analisi. Per farlo è necessario che l’analizzante incontri, attraverso la funzione dell’analista, la causa dell’angoscia – cioè il desiderio in quanto causa – e non il segnale dell’angoscia – segnale che come detto è fatto apposta per negare il desiderio in quanto causa, cioè per fissare il desiderio a un oggetto supposto colmarlo.
1 S. Beckett, Lettere, Adelphi, Milano, 2018, p. 176.
2 J.-P. Sartre, Autoritratto a settant’anni, Il saggiatore, Milano, 2005, p. 76.
3 Cfr. W. Bion, Cogitations-Pensieri, Armando, Roma, 2010; M. Klein, Le origine della traslazione, in Scritti, Bollati Boringhieri, Torino, 2006; D. Winnicott, L’odio nel controtransfert, in Dalla pediatria alla psicoanalisi, Giunti, Firenze, 2017.
Firenze, 1975
4 «Un soggetto non angosciato è un soggetto che non è più disponibile al lavoro analitico» (C. Soler, La direzione della cura: l’inizio e la fine dell’analisi, in La Psicoanalisi n. 7, Astrolabio, Roma, 1990, p. 80).
5 J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 2003, p. 41.
6 J. Lacan, Il Seminario. Libro X. L’angoscia, Einaudi, Torino, 2007, p. 43.
7 Ivi. p. 83.
8 Mi permetto di rimandare al mio Il sintomo di Lacan (Galaad, Teramo, 2016), in particolare al capitolo Sull’angoscia.
9 S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, in Opere, vol. X, Bollati Boringhieri, Torino, 2000, pp. 231-317.
10 Occorre però precisare che non si tratta di ripetere nell’analisi un sintomo presente altrove – questa è una ripetizione immaginaria da tenere in considerazione in analisi. Si tratta di produrre un sintomo nell’analizzante attraverso l’incontro con il desiderio dell’analista. Non essendo tale incontro che l’incontro con la causa – ecco la ripetizione dell’analisi – il sintomo che si produrrà altro non sarà che il sintomo che l’analizzante ha da sempre – ecco la ripetizione – e del quale il sintomo che lo ha condotto a domandare un’analisi altro non era che uno spostamento ed un effetto.
11 Un’analisi deve fare emergere che «il sintomo è ciò intorno cui ruota tutto quello di cui possiamo avere – come si dice, sempre che questo termine abbia ancora un senso – un’idea. È sul sintomo che voi vi orientate, tutti quanti. Le uniche cose che vi interessino e che non vadano a vuoto, che non siano semplicemente insulse come informazione, sono quelle che hanno l’apparenza di sintomi, vale a dire, in linea di massima, delle cose che vi fanno segno, ma di cui non ci si capisce niente. È l’unica certezza: ci sono delle cose che vi fanno segno e di cui non ci si capisce niente» (J. Lacan, Il Seminario. Libro XVIII. Di un discorso che non sarebbe del sembiante, Einaudi, Torino, 2010, p. 45-46).
12 J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 2001, p. 203. Su questa linea curiosa la domanda rivolta a Lacan da un partecipante al Seminario: «D. A proposito dell’angoscia, credevo fosse il contrario del godimento. R. Io dico, al contrario, che l’angoscia non è senza oggetto. L’ho articolato già parecchio tempo fa, ed è ben evidente che devo continuare a spiegarvelo. A quel tempo, quest’oggetto non lo designavo con il termine più-di-godere, e questo prova che c’era qualcosa da costruire prima di poterlo nominare così» (J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII, cit., p. 182). Si tratta di una domanda curiosa in quanto Lacan dall’inizio del suo insegnamento, ed in modo inequivocabile a partire dal Seminario X, ha saldato in modo netto angoscia e godimento.
13 J. Lacan, Il Seminario. Libro X, cit., p. 149-150.
14 J. Lacan, Il Seminario. Libro VI. Il desiderio e la sua interpretazione, Einaudi, Torino, 2016, p. 534-535.
15 J. Lacan, Discorso all’École freudienne de Paris, in Altri Scritti, Einaudi, 2013, pp. 257-278.
16 C. Soler, L’interpretazione nell’insegnamento di Lacan, in La Psicoanalisi n. 3, Astrolabio, Roma, 1988, pp. 43-60. Notevole che in un testo degli anni 80 Colette Soler metta già l’accento su quella declinazione della pratica psicoanalitica che seguendo l’ultimissima fase dell’insegnamento di Lacan ha messo al centro la funzione dell’Uno: «[in un’analisi] c’è da far valere l’ “uno”, l’uno da solo, il “c’è dell’uno”» (Ivi., p. 48). Sull'origine della centralità dell'Uno nella clinica psicoanalitica si veda anche J.-A. Miller, Insegna, in Introduzione alla clinica lacaniana, Astrolabio, Roma, 2012, pp. 61-68.
17J. Lacan, Il Seminario. Libro VI, cit., p. 535.
18A quel «luogo intervallare che proprio in quanto intervallare Lacan chiamerà “desiderio dell’analista» (A. Eidelsztein, Il grafo del desiderio, Mimesis, Milano, 2015, p. 204).
19 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVI. D’un Autre à l’autre, Seul, Parigi, 2006 (cap. XIV, XIX, XXI).
20 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XIX. …ou pire, Seuil, Parigi, 2011, p. 151-152.
21 Qui sarebbe più corretto introdurre la categoria del singolare e dire che per quanto riguarda il godimento si tratta di singolare e non di particolare. Per la nostra argomentazione è tuttavia accettabile trascurare questa differenza.
22C. Soler, Quel che resta dell'infanzia, Edizioni Praxis, Roma, 2015.
23 Nello scritto La scienza e la verità (J. Lacan, La scienza e la verità, in Scritti vol. II, Einaudi, Torino, 2002, pp. 859-882). Lacan sostiene che l’analista è depositario di un impossibile da sapere e al contempo di un sapere possibile.
24Recentemente Massimo Recalcati ha fornito una propria interessante versione di questa doppia posizione dell’analista, sostenendo che l’analista da un verso deve incarnare il reale (il trauma) e dall’altro deve incarnare il luogo di una possibile conversione di questo stesso reale. (M. Recalcati, Note sula costruzione di un caso clinico, in La pratica del colloquio clinico, Cortina, Milano, 2017, pp. 249-266).
25Queste considerazioni sull'analista come significante del trauma andrebbero intimamente articolate con una riflessione sull'analista come oggetto piccolo a.
26 Così come abbiamo fatto per il desiderio andrebbe qui sviluppata una riflessione sul ruolo dell’associazione libera e dell’interpretazione nel permettere alla funzione dell’analista di dare corpo in questo modo al godimento. Lasciamo in sospeso questo passaggio, il cui sviluppo lo rimandiamo per un prossimo incontro. Ci limitiamo ad una considerazione. La distinzione tra un versante del desiderio e uno del godimento del processo analitico è funzionale al ragionamento che stiamo portando avanti, ma non va riversata su di un piano empirico – di fatto nella pratica analitica c’è un nodo stringente tra i due versanti. Per fare un esempio di tale nodo, quando nella nostra riflessione, occupandoci del versante desiderio, abbiamo sottolineato l’importanza della non realizzazione del sintomo-fantasma in analisi, stavamo di certo facendo riferimento alla questione del godimento del sintomo-fantasma e dell'analista come posto vuoto nel quale, proprio perché vuoto, viene collocato il godimento del sintomo-fantasma dell'analizzante (il quale ha così la possibilità di separarsene). Vediamo dunque che il versante desiderio, da cui il versante desiderio dell'analista ha intimamente a che fare con la faccenda del godimento.
Tuttavia questo nodo, non deve nemmeno farci perdere di vista una differenza presente anche nella pratica – differenza della quale la nostra riflessione cerca in qualche modo di rendere conto. Anche qui solo per fare un esempio. Quando nella pratica clinica l’accento è sull’asse desiderio al centro c’è la funzione del desiderio dell’analista in quanto vuoto e l’interpretazione in quanto taglio al servizio della funzione del desiderio dell’analista – è questo il modo per trattare il godimento del sintomo-fantasma e per modificarlo. Quando nella pratica clinica l’accento è sull’asse del godimento, sul reale del godimento (ossia su in godimento che non è solo quello del sintomo e del fantasma ma del quale questo è difesa), è chiaro che le cose cambiano. Al centro c’è qui l’atto analitico come modo di far risuonare il godimento del sintomo e la funzione dell’analista sinthomo come unico modo per far intendere lo statuto di difesa di tale godimento.
27 «Non è la psicoanalisi a essere un sinthomo, ma lo psicoanalista» (J. Lacan, Il Seminario. Libro XXIII. Il sinthomo, Astrolabio, Roma, 2006, p. 133).
28«Se Lacan aveva invitato l’analista a occupare il posto dell’oggetto piccolo a, nel Seminario Il sinthomo egli formula: l’analista è un sinthomo. È supportato dal non-senso, per questo gli si farà grazia delle sue motivazioni, non si spiegherà. E si dovrà sacrificare molto per meritare d’essere o essere preso per un pezzo di reale» (J.-A Miller, Cose di finezza in psicoanalisi, in La Psicoanalisi n 59, Astrolabio, Roma, 2016, p. 179).
29«Accanto alla dimensione della verità c’è la dimensione dell’inconscio reale ovvero di ciò che soddisfa pulsionalmente, sempre all’insaputa del soggetto, nella ricerca stessa della verità, nella sua vita attuale come nella sua vita scorsa, e quindi anche nel modo stesso di fare la propria analisi: parlare di sé come se si trattasse del vicino, non pronunciarsi, menare il can per l’aia, mantenere una sorta di riserva mentale, essere cerimonioso; o non cessare di lagnarsi, avere sempre ancora qualcosa da dire senza potersi fermare, senza potere lasciare la seduta ecc… In questa dimensione, che è quella del transfert, da intendere non come ripetizione del passato ma come “messa in atto del reale dell’inconscio”, si tratta meno di decifrare o d’interpretare un messaggio che di imbattersi, di urtarsi con ciò che nel sintomo, che faceva soffrire, si isola, si riduce a un “modo di godimento” (…). Per quanto riguarda l’analista, l’accento è allora messo soprattutto sull’atto analitico, l’atto della sua presenza, della sua punteggiatura, della scansione della seduta» (A. Zenoni, La nozione di reale in Lacan, in La Psicoanalisi n.58, Astrolabio, Roma, 2015, p. 214-215).
30 J. Lacan, Il Seminario. Libro VIII. Il transfert, Einaudi, Torino, 2008, p. 399.
31 Ivi., p. 396.
32 Ibid.
33 Ivi., p. 398.
34 Ibid.
35 Ivi., p. 396.
36 Ivi., p. 401.
37 Ibid.
38 Ibid.
39 Ivi., p. 403.
40 La nostra riflessione si sta ora centrando sul versante del desiderio. Se tornassimo dal versante godimento ci ritroveremmo con la stessa logica ma con una variazione sostanziale degli elementi che la animano. Ad esempio ci troveremmo alle prese con la funzione dell’analista in quanto Uno: «Il primo passo dell’esperienza analitica è quello di introdurre l’Uno che l’analista è. La prima manifestazione dell’analizzante è di rimproverare all’analista di essere solo uno tra i tanti dei suoi pazienti. L’analizzante non vuole avere niente a che fare con questi altri e questo perché vuole essere il solo per l’analista, affinché analizzante e analista facciano Due. Ma questo Due che l’analizzante vuole realizzare altro non è che l’Uno che crede di essere e che l’analista deve invece puntare a dividere. [L’analista in quanto Uno reale divide l’Uno immaginario che l’analizzante crede di essere e vuole essere]» (J. Lacan, …ou pire, cit., p. 127).
41 Che cosa deve sapere un’analista? È una domanda classica alla quale non possiamo certo rispondere in questo spazio. Però seguendo questo punto del nostro ragionamento possiamo affermare che un’analista deve sapere distinguere ciò che segnala l’angoscia da ciò che la causa e deve sapere non rispondere come “io”. Su questo rimane decisivo uno scritto classico di Lacan, Varianti della cura tipo (J. Lacan, Varianti della cura tipo, in Scritti, vol. I, cit., pp. 317-356). Preziosi gli avanzamenti proposti sull’argomento in, tra l’altro, …ou pire (J. Lacan, Le Séminaire. Livre XIX, cit., cap. XXIII e XIV) e Proposta sullo psicoanalista della scuola (J. Lacan, Proposta sullo psicoanalista della scuola, in Altri Scritti, cit., pp. 241-256).
42 Cfr. J.-A. Miller, Logiques du non-savoir en psychanalyse, in La cause freudianne n. 75, Navarin, Parigi, 2010, pp. 169-184.
43 J. Lacan, Il Seminario. Libro VIII, cit., p. 403.
44 Ivi., p. 433.
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