Sulla possibilità di psicanalisi scientifiche.
Per farti muover lento com’uom lasso,
Ed al sì ed ed al no che tu non vedi;
Ché quelli è tra gli stolti bene a basso,
che sanza distinzione afferma e nega,
così nell’uno come nell’altro passo;
Perch’elli ’ncontra che più volte piega
L’oppinïon corrente in falsa parte;
E poi l’affetto l’intelletto lega.
Vie più che ’ndarno da riva si parte,
Perché non torna tal quale e’ move
Chi pesca per lo vero e non ha l’arte.
Dante, Paradiso XIII, vv. 112-123.
Non puoi costruire casa su terreno acquitrinoso. Prima devi bonificarlo. Allo stesso modo non puoi costruire una psicanalisi scientifica su terreno medico, perché la medicina non è scienza; quella medica è una pratica concettualmente prescientifica, anche se applica tecniche e ritrovati scientifici. Cerco di dimostrarlo contro l’opinione comune, che parla di scienza medica, basandosi sulla classica fallacia cognitivista, ancora più generale, che ritiene la scienza l’adeguata ricognizione della realtà data. Il fondatore della “scienza medica” e del realismo occidentale fu Ippocrate; precedette Galilei di un paio di millenni di tempo cronologico; maggiore fu il divario lungo l’asse del tempo di sapere.
L’acquitrino dove si impantanò il pensiero di Freud fu il pensiero eziologico. Si tratta di un pensiero “autisticamente indisciplinato”, direbbe Bleuler, dominato dal sentimento – Bleuler direbbe dall’Affekt – di onnipotenza che pretende spiegare tutto, trovando per ogni effetto la causa determinante; è la stessa pretesa del pensiero magico o religioso, fondati rispettivamente su cause efficienti e finali secondo Lacan. Il Kausalbedürfnis – il bisogno di ragion sufficiente, come lo chiamava Freud – allagò le cantine del sistema di pensiero psicanalitico inondandolo di pseudoscienza.
La marea paludosa monta da lontano, almeno da Ippocrate, dicevo, rinvigorito da Aristotele, che codificò la vera conoscenza come scire per causas, una scienza fondamentalmente storicistica, basata sulla concezione narrativa della verità. Per giustificare l’epistemologia “causistica”, Aristotele inventò la variante cognitivista dell’ontologia parmenidea: l’ontologia analogica, che passa dall’essere in potenza all’essere in atto grazie alla causa efficiente che produce l’effetto. Il traffico dalle cause potenziali agli effetti attuali è regolato dal principio di ragion sufficiente, oggi insufficiente per la ragione scientifica. Non basta dire che le cose stanno così perché è ragionevole che stiano così. È la forza tautologica del principio di identità il nerbo dell’ontologia eziologica o c’è dell’altro?
Ovviamente, c’è dell’altro. A livello filosofico Aristotele pretese fondare cognitivamente il sapere sull’essere; perciò diede della scienza una versione cognitiva. Il sapere non basato sull’essere era per lui automaticamente sapere del non essere, quindi falso. Aristotele sarà capovolto da Cartesio, che piantò l’essere sul sapere, l’ergo sum sul cogito. La scienza cartesiana si svincolò dalla conoscenza (che sarà garantita da Dio, ma questo è secondario), avvicinandosi all’allucinazione. Quello cartesiano fu il primo pensiero debole rispetto all’ontologia, ma forte in sé stesso.
Tra parentesi, in epoca prescientifica il fenomeno allucinatorio era ignoto. Nei vocabolari antichi greci e latini non c’è traccia di “allucinazione”. Si parla solo di vaneggiamento o inganno. Chi allucinava faceva il profeta o la sibilla. Non a caso: il campo dove opera il soggetto della scienza è quello scorto all’orizzonte della spiaggia di San Lorenzo da Elvio Fachinelli. Viceversa, in epoca scientifica perfino il folle sa bene che le sue allucinazioni non sono realistiche; fanno parte di – come i sogni fanno luce su – un’altra realtà in un certo senso “pericolosa dal punto di vista dell’affermazione di un io personale, ben individualizzato” (La mente estatica, Adelphi, Milano 1989, p. 11). La psicanalisi lo sa bene e nel rapporto soggetto/oggetto riconosce un fantasma. Nasce così nel XVII secolo il moderno soggetto cartesiano della scienza, ben diverso dal soggetto aristotelico della conoscenza. Più del secondo a noi interessa il primo come agente delle nuove psicanalisi; lasciamo il soggetto cognitivo alla medicina, dopo averne detto qualcosa.
Il principio di ragion sufficiente, architrave del cognitivismo, si annida nella cablatura anatomica del cervello. La rete neurale cablata nella corteccia prefrontale (aree 9, 10, 11, 12, 46, e 47 di Brodmann) riconosce, controlla e prefigura le regolarità associative tra cause supposte ed effetti constatati, come tra agenti morbosi e malattie; perciò la selezione naturale la premiò con la sopravvivenza e, quindi, con la maggiore discendenza di chi la possedeva. Molto probabilmente le cose andarono pressappoco così.
Associare il fruscio in un cespuglio – l’effetto – alla presenza di un predatore – la causa – poteva in certi casi salvare la vita, scatenando la reazione di fuga. Chi non si salvava, perché non aveva il principio di ragion sufficiente cablato tra i suoi neuroni, non ha lasciato discendenti. Ha lasciato discendenti con i giusti geni “eziologici”, arrivati fino ad Aristotele, solo chi aveva la cablatura neuronale giusta. Insomma l’eziologia è un artefatto dell’evoluzione naturale, ovviamente imprevisto. Oggi ha dalla sua il realismo e i successi della medicina, ma forse non tocca il reale.
Certo, in molti casi l’associazione fruscio-predatore è inutile, essendo il fruscio causato dal vento (falso positivo), ma il principio è buono in senso evolutivo, perché la vita è una sola: basta disattendere l’associazione solo una volta (falso negativo) per lasciarci le penne. Ma considerazioni statistiche del genere sono completamene estranee a Ippocrate. Nella sua Antica medicinavige un’ontologia semplicistica, fatta passare per empirica: se c’è l’agente morboso c’è la malattia; se non c’è, perché la terapia l’ha rimosso, non c’è malattia e torna la salute. Il principio di ragion sufficiente è un’abitudine, sosteneva Hume, talvolta buona, statisticamente parlando, anche se di per sé ha poco valore scientifico. Se piove, è bagnato per terra; se è bagnato per terra, è perché di solito prima ha piovuto e per lo più ci azzecchi a pensarlo. Se hai il complesso di Edipo desideri copulare con tua madre; ma se desideri copulare con tua madre, potresti avere un’altra “ragione” alle spalle
Esiste una chiara simmetria. La conoscenza stabilisce correlazioni, la scienza le smantella; la prima presuppone il vero, la seconda il falso; con Freud si può dire che la conoscenza tratta la realtà effettuale (die Wirklichkeit), la scienza la realtà psichica (die Realität). Eppure nel 1936 proprio Einstein scrisse una Physik und Realität. La fisica era una realtà psichica per l’uomo di scienza? Di certo Einstein inventò una nuova fisica più geometrica che fisica, più vicina a una geometria non euclidea che alla meccanica, per esempio a quella quantistica, che osteggiò per tutta la vita.
A sua volta Il principio di ragion sufficiente, per cui ogni effetto ha una causa, ha una causa a monte. Si tratta di un atteggiamento mentale difficile da schiodare; lo dimostrò Kahneman in Pensieri lenti, pensieri veloci (2011, trad. L. Serra, Mondadori, Milano 2012). Quello di causa-effetto è un pensiero veloce, come darsi alla fuga sentendo un cespuglio frusciare, senza perder tempo in controprove. È il cosiddetto “bias di conferma”, pietra angolare di ogni pseudoscienza, perché a trovare conferma sono sempre preconcetti indimostrati, un pensiero autisticamente indisciplinato nel senso di Bleuler; è così nella genesi del delirio paranoico che considera solo le conferme e trascura le possibili confutazioni o le configurazioni sfavorevoli nei dati del problema. Di più, si ignora – si vuole ignorare – che le conferme non confermano. Se un aereo non è caduto dopo 100 voli, la probabilità che non cada al 101-esimo è “solo” di 101 su 102 (teorema di Bayes-Laplace), che approssima ma non è la certezza. La scienza moderna pratica l’approssimazione, che l’antica ignorava. Lo affermo contro Koyré: l’approssimazione scientifica non è né precisione né pressappoco.
Invece la “lucidità” paranoica non è cartesiana: non tollera il dubbio; in modo infantile e cocciuto pretende la certezza a tutti i costi, magari illudendosi su conferme meno probabili, come nelle teorie complottiste e nei deliri narcisistici di persecuzione; al tempo stesso diffida del metodo scientifico che opera con congetture incerte, perché né dimostrate né confutate. Per trattare l’incertezza congetturale non basta l’intelligenza, il calcolo algoritmico di un alto QI individuale; ci vuole razionalità, cioè familiarità con la semantica collettiva.
Il calcolo delle probabilità (al plurale!) è un fattore essenziale di razionalità, di quella scientifica in particolare. La nozione di probabilità dovette aspettare il XVII secolo perché Pascal e Fermat le conferissero assetto scientifico. Tutta l’antichità e il medioevo giocarono a dadi, evitando accuratamente di farne la teoria. Quando si dice la volontà di ignoranza…
Curiosamente il concetto di probabilità è assente in Freud, più vicino al pensiero magico che a quello scientifico. La parola Wahrscheinlichkeitè ambigua in tedesco; significa sia “probabilità” sia “verosimiglianza”. Freud la usò praticamente solo nel secondo senso, un senso che si può ben dire fenomenologico, influenzato com’era, come i “normali” paranoici, cioè tutti noi, dal bias di conferma di ciò che già si sa. (Forse ancora di più influenzato dai seminari di von Brentano, che frequentò insieme a Husserl.). Non a torto autorevoli intellettuali avvicinano la psicanalisi all’omeopatia e all’astrologia. Non hanno torto, ma c’è da fare un discorso più ampio, che non trascuri le potenzialità scientifiche della psicanalisi.
Oggi la scienza galileiana non è più eziologica, tanto meno ontologica e cognitiva, mentre la medicina e la psicanalisi sono rimaste eziologiche, ontologiche e cognitive – si pensi all’onnipresente teoria del trauma, che in Ferenczi diventa addirittura transgenerazionale (v. C. Mucci, Trauma e perdono, Cortina, Milano 2014). La metapsicologia freudiana è nata antica; infatti, è abitata da cause mitiche: le pulsioni. Freud lo afferma nella Lezione XXXII: le pulsioni sono i suoi miti. Le pulsioni freudiane sono cause efficienti, se sono sessuali; sono cause finali, se sono di morte, secondo una distinzione che risale alla fisica di Aristotele, madre di tutte le metafisiche occidentali. In questo senso il trauma è l’effetto della pulsione dell’altro; Lacan non dice molto di nuovo affermando che il desiderio inconscio è dell’altro.
In Lacan le cose non vanno meglio, scientificamente parlando. La topologia lacaniana è dominata da un factotum, l’oggetto-causa del desiderio, “originariamente perduto”. Lacan è filosofo e fa un discorso senza oggetto; per il logocentrismo lacaniano addirittura la verità è una causa soggettiva (faccio grazia delle innumerevoli citazioni del mantra la vérité comme cause negli Ecrits, che porge la verità della causa).
Come spiega le cose senza convocarne le cause, la scienza moderna? I modi in cui la scienza galileiana e cartesiana si libera dal vincolo eziologico e abbandona il terreno medico sono in sostanza due: uno diretto, l’altro indiretto.
Il modo diretto – gettonato dal soggetto della scienza, Galilei, ma inconcepibile per il soggetto della conoscenza, l’aristotelico Simplicio – postula fenomeni senza causa, cioè spontanei. Sono tanti e sorprendenti: in meccanica c’è il moto inerziale, in fisica nucleare il decadimento radioattivo, in chimica le reazioni spontanee esotermiche, in biologia la mutazione genetica a livello del singolo organismo o la formazione di nuove specie a livello di popolazioni, tutto avviene come nell’estrazione del Lotto. Madame Curie fu sconvolta dall’aver scoperto la radioattività; pensava che la materia avesse un’anima dotata di libero arbitrio, per cui un atomo decide quando decadere. Infatti, per lo schematismo aristotelico, in genere per ogni antropomorfismo, il determinismo probabilistico è impensabile. A cavallo tra XIX e XX secolo, il creatore della fisica statistica, Boltzmann, fu non poco osteggiato, tanto che morì suicida.
Il modo indiretto fu inventato da Cartesio. È il metodo dei modelli, che Cartesio chiamava fabulae, come se non potesse prescindere dalla dimensione originariamente narrativa – mitologica – della verità. Peccato che le favole scientifiche siano narrazioni regolarmente controintuitive. In effetti, un modello è una favola meccanica. Postula l’esistenza di elementi semplici, ma non alla portata della percezione diretta, essendo microscopici, che interagiscono tra di loro in modi variamente congetturabili: possono essere le cadute degli atomi epicurei o il passaggio di spiriti animali attraverso certi pori o il formarsi di certi vortici, secondo Cartesio. Le supposte interazioni producono effetti macroscopici, più o meno facilmente calcolabili in teoria, da confrontare con gli effetti reali in via sperimentale. (La prevalenza dell’esperimento sull’osservazione è una differenza non piccola tra scienza antica, prevalentemente osservativa, e scienza moderna, prevalentemente sperimentale.) Se c’è concordanza tra effetto teorico (previsto) e reale (constatato), il modello tiene (ma non è confermato!); se c’è discordanza il modello è confutato e si cercano modelli alternativi. Questo falsificazionismo, inventato prima che da Popper dai teologi medievali, si basa sul teorema logico del modus tollendo tollens, che recita: se A implica B e si verifica non B, allora non A. Come si vede, siamo su un terreno meno acquitrinoso di quello regolato dal principio ontologico di ragion sufficiente, che non ha molta logica alle spalle.
Tra parentesi, le favole cartesiane, tranne quella dell’arcobaleno, sono oggi ridotte a … favole. Ciò non toglie loro valore di provvisorio tentativo scientifico, maggiore delle favole antropomorfe, elaborate da Aristotele sul moto che tende al luogo “naturale” dove finalmente – riecco la causa finale! – il mobile trova quiete e si riposa dal travaglio del tragitto. Si può dire che la scienza moderna metta tra parentesi la nozione di natura – Husserl direbbe che ne fa l’epoché. Le cosiddette scienze naturali non mettono a tema la natura; non sono ilozoiste. Paradossalmente, oggi sono le scienze umane a parlare di “scienze naturali”, tentando di prenderne le distanze. Ne deriva che la principale fonte di resistenza alla scienza moderna è la sua innaturalezza, paragonata ai paradigmi naturalmente “facili” delle pseudoscienze (fallacia naturalistica), non a caso quasi tutte con una coloritura medicale: una volta l’astrologia, oggi l’omeopatia, i no-vax, la percezione extrasensoriale, gli anti-ogm, nonché buona parte della stessa psicanalisi. In TV – si faccia caso – sono più le trasmissioni di volgarizzazione medica che di divulgazione scientifica, le quali danno comunque l’impressione di esercizi difficili, quasi come le prestazioni in una competizione di ginnastica, fuori portata per noi comuni mortali e magari un po’ noiose.
Sembra una conseguenza della selezione naturale se la nostra specie è sopravvissuta senza diventare scientifica. Geneticamente parlando, Homo sapiens è riuscito a sopravvivere meglio dei suoi congeneri, ma è rimasto intellettualmente prescientifico, per non dire anti-scientifico, nonostante il suo progresso civile e tecnologico dai tempi in cui scheggiava pietre. Non sorprenda la diffusa resistenza alla scienza dal filosofo accademico all’uomo di strada: come la xenofobia la fobia della scienza ha una base biologica; la scienza è un pensiero estraneo rispetto al cognitivismo prodotto dalla selezione naturale.
Allora le eventuali psicanalisi scientifiche dovranno fare i conti con una non piccola dose di artificiosità e di innaturalezza, sapendo quanto entrambe siano indigeste al pensiero prescientifico, ilozoista e vitalista di base. Al tempo stesso le psicanalisi scientifiche dovranno prepararsi a veder decadere la nozione di interpretazione come sostituzione di un contenuto psichico latente, determinato per esempio dal complesso edipico, al contenuto manifesto. L’Edipo non è più vero di altri archetipi; è servito a certe civiltà per regolare la sopravvivenza e la moltiplicazione dei piccoli gruppi familiari, favorendo l’esogamia.
Sul terreno cartesiano così bonificato dal virus eziologico si potrebbe avviare la costruzione di una (forse più di una) psicanalisi scientifica.
Come cominciare?
Si potrebbe cominciare alla Democrito, considerando come elementi “atomici” i significanti di Lacan, che non sono significanti linguistici ma unità corporee di godimento. La difficoltà dell’approccio lacaniano è l’essere polarizzato da una dottrina scolastica che privilegia ora l’aspetto logocentrico (“il significante rappresenta il soggetto per un altro significante”) ora l’aspetto topologico-combinatorio. Sfugge che la “topologeria” lacaniana (così la chiamava Juan David Nasio) fu un trucco mnemotecnico del maestro per trasmettere agli allievi la propria complicata elucubrazione, dandogli solo un’apparenzadi matematica. “Il matema è ciò che si insegna”, insegnava il maestro in L’Etourdit(1972).
Non conoscendo la matrice hegeliana del suo pensiero, potrebbe sembrare che Lacan abbia voluto rendere scientifica la psicanalisi. Anch’io da giovane lo credevo e fu uno dei motivi della mia adesione al lacanismo: un abbaglio, da cui mi sono ripreso molto tardi. La verità è che Lacan non ha maifatto matematica: non ha né dimostrato teoremi né ha aperto campi di ricerca matematica. Certo, anche Cartesio, Galois, Riemann non dimostrarono “grandi” teoremi, ma cambiarono il modo di pensare la matematica. Cartesio algebrizzò la geometria, Galois matematizzò le simmetrie, Riemann generalizzò le geometrie non euclidee. Fu il trionfo dell’algebra. Perciò dall’esegesi dei matemi lacaniani non si può spremere alcuna scienza ma solo versioni più o meno fedeli del suo insegnamento. A chi può interessare, se non a qualche lacaniano fanatico? (I maestri creano regolarmente i loro fanatici.)
Per raccontarmi una favola scientifica della psicanalisi, torno a Freud, ma non alla metapsicologia pulsionale, che è una versione medica ormai obsoleta del funzionamento psichico. Senza lasciarmi affascinare dalle sirene neuro-scientifiche, tra le possibili nuove psicanalisi ne adotto par provisionuna versione ridotta, quella definita da un minimo di tre assiomi freudiani: a) l’esistenza dell’inconscio come sapere che non si sa di sapere, b) l’esistenza della rimozione originaria, come luogo di tale sapere, che non diventa mai del tutto saputo (non c’è prosciugamento dello Zuidersee), c) la Nachträglichkeit, l’acquisizione differita del sapere, interpretata alla luce del saggio di Lacan che istituisce l’equivalenza tra tempo logico individuale e tempo di sapere collettivo.
Quest’ultimo riferimento pone la questione, vitale per le psicanalisi scientifiche, della transizione – del transfert – dal soggetto individuale al collettivo, dalla diacronia del singolo alla sincronia dei molti. Chiamerei la psicanalisi dei molti la meta o post-analisi, concependola come l’analisi dell’analisi, condotta collettivamente già durante l’analisi individuale; riguarda la formazione della teoria analitica prima che la formazione dell’analista.
Infatti, devo precisare chea me interessa poco la formazione dello psicanalista, ma molto la formazione della teoria psicanalitica, che oggi si aggira per plaghe desolate (The Waste Land), poco scientifiche e molto mediche. Allo stesso modo la terapia dell’analizzante a me interessa meno della cura del suo pensiero. La terapia si fonda sul narcisismo di coppia analista-analizzante (bisogna essere in due per attivare il narcisismo): sull’onnipotenza del primo e l’idealizzazione del secondo; la cura del pensiero, invece, si inserisce nel movimento collettivo della psicanalisi.
Concludo. Il passo dalla psicanalisi metapsicologica alle psicanalisi scientifiche sembra arduo, per la generale diffidenza che soprattutto in Italia, la terra dei Galilei e dei Fermi (entrambi esiliati, senza contare Ettore Majorana autoesiliato), si nutre nei confronti della scienza, con il risultato di fare del Bel Paese il paesello della pseudoscienza, dove si coltivano stamina, no-vax e anti-ogm. Ancora ai miei tempi Croce vociferava sul primato della storiografia sulla fisica, sulla priorità della verità diacronica rispetto alla sincronica; la sua eco vichiana (verum et factum convertuntur) non si è ancora spenta nel senso comune, sempre giuridicamente conformato, dopo mezzo secolo di storia e un paio di repubbliche, forse tre. Tuttavia, una volta messo piede in una psicanalisi scientifica, il passo alla politica dovrebbe essere breve, evitando il giro vizioso delle scuole di psicanalisi, che trasmettono dottrine ortodosse e inconfutabili (come religioni) e inibiscono la scienza (come vuole il potere, cui la scienza va bene se produce tecnologia, ma non se produce democrazia).
Insomma, c’è molto da fare, anche fuori dal setting divano-poltrona, per favorire l’avvento di psicanalisi scientifiche, svecchiando i paradigmi eziologici freudiani. Ammesso che sia vero – siamo costretti a crederlo, anche se non ne siamo sicuri – che l’evoluzione scientifica favorisca il progresso sociale e la democrazia, forse da qualche psicanalisi scientifica ben scelta potremmo aspettarci qualcosa di meglio per la civiltà di quel che la vecchia psicanalisi metapsicologica ha prodotto, magari meno psicoterapia, meno medicina e più pensiero.
Ma i vecchi didatti di ogni ordine di scuola lo permetteranno? Ne va della loro autorità che una qualche psicanalisi scientifica potrebbe incrinare. Ma ne va anche della nostra cartesiana libertà di pensiero, messa a rischio dai senili e servili indottrinamenti.
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