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Non si scherza con Freud! Le storie che curano e un’intervista (troppo) immaginaria

30 Giu 21

A cura di vastopolis

Chi tocca Freud, muore!
Non è possibile pensarla diversamente se è vero che da martedì scorso, 29 giugno, dopo aver pubblicato su Huffingtonpost un articolo piuttosto duro sul libro del neurologo Rosario Sorrentino, un’intervista immaginaria, troppo immaginaria, dedicata al fondatore della psicoanalisi, sono stato piacevolmente inondato da mail e messaggi wa. Scrivo piacevolmente, perché non ho registrato un rimprovero o un insulto. Anzi, tutti messaggi di grande entusiasmo e condivisione.
Evidentemente, il neurologo Sorrentino deve averla fatta grossa. Non si può scherzare con Freud, non lo si può trattare alla pari, facendo l’intervista con il “tu” e non con il “lei”, non si può raffigurare Freud con il cappello in mano al cospetto del mondo scientifico a elemosinare il sigillo della scientificità per il suo metodo che, mi sia permesso, va oltre la scienza.
Il libro di Sorrentino avrebbe bisogno di un altro libro per rispondere punto su punto, passo su passo, per ristabilire la verità, per rendere il dialogo quanto meno verosimile, accettabile. Invece, con l’ausilio dei prof. Altamura e Corbellini, è stata tesa una trappola al Maestro della psicoanalisi, che è un genio, non semplicemente un neurologo

Tra l’altro, sono contento poiché mi giunge in soccorso il magnifico libro di James Hillman, riedito da Raffaello Cortina in questi giorni, che ha per titolo: “Le storie che curano. Freud, Jung, Adler”. Già, le storie curano, come curano le parole. Certo, se si pretende di curare con le parole una gravissima malattia, la colpa non è di Freud ma di chi attribuisce a Freud questa volontà. Il libro di Hillman va citato e riletto in quanto fin dalle prime righe, nel paragrafo sul Freud narrativo, contiene un estratto di un’intervista vera, a Giovanni Papini, del 1934, in cui il padre della psicoanalisi afferma: “Tutti credono che io tenga al carattere scientifico della mia opera e che il mio scopo principale sia la guarigione delle malattie mentali. È un enorme malinteso che dura da troppi anni e che non sono riuscito a dissipare. Io sono uno scienziato per necessità, non per vocazione. La mia vera natura è d’artista. (…) E c’è una prova inconfutabile: in tutti i paesi dov’è penetrata la Psicoanalisi essa è stata meglio intesa e applicata dagli scrittori che dai medici. I mei libri, difatti, somigliano assai più a opere d’immaginazione che a trattati di patologia”.




Ecco, Freud sapeva, nel 1934, che un giorno anche Sorrentino gli avrebbe fatto dire cose che mai si era sognato di dire. Purtroppo, Sorrentino non ha letto l’intervista vera a Freud. L’avesse letta, lo avrebbe intervistato in altro modo e con altro intento. Non ha letto neppure “Epistemologia e Psicoanalisi: attualità di un confronto”, uno dei Quaderni del Centro Milanese di Psicoanalisi dove avrebbe trovato significative illuminazioni per evitare di scadere in imperdonabili banalità.
È facile, troppo facile, ma pericoloso, giocare con Freud. Il libro di Hillman aiuta, al contrario, a non giocare, ma a recuperare la grandezza di tre giganti del pensiero e della psicoanalisi. C’è un base poetica nel lavoro terapeutico che non può essere né trascurata, né sottovalutata. Hillman, forse, forza un po’ troppo la mano sugli Dei e sulla capacità immaginativa ma, vivaddio, la vitalità di un percorso psicoanalitico intenso non potrà mai essere paragonata all’assunzione di un farmaco. Spesso occorrono l’una e l’altra cosa, ma demolire un impianto, che in centoventi anni ha dimostrato di saper reggere ad attacchi ben più potenti di un’intervista immaginaria, è un’operazione vana. Ci sono libri che restituiscono emozioni, ci sono lavori teorici di fior di psicoanalisti che si chinano sui pazienti e sui libri, ci sono passioni che sanno misurarsi sul senso perduto della vita, che sanno calarsi nell’abisso dello sconforto e della malattia. Su tutto questo, e su chi tutto questo ha fondato, non si può scherzare.
Adesso, però, vi prego, basta con mail e messaggi wa. Chi doveva capire, ha capito. Almeno, me lo auguro.

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