La tesi che sostengo in questo post è apparentemente eterodossa, ma a ben vedere è empirica. La psicanalisi, che l’analista “ben formato” giunge con il tempo a praticare, è in generale lontana dagli schemi ideali che ha dovuto assimilare durante la cosiddetta formazione, perché è diventata il suo particolare e personale modo di fare psicanalisi. Per fortuna che è così, altrimenti la psicanalisi si sarebbe estinta in uno dei tanti schematismi psicoterapeutici oggi messi sul mercato come professioni, protette da un codice tecnico, licenziato dallo Stato. Invece, il dato confortante è che la psicanalisi prolifera, direi, per eterodossia. “Etero” vuol dire “altro”; la psicanalisi è sé stessa se è sempre “altra”, nonostante le scuole mortifichino la sua alterità, omogeneizzando le differenze individuali. Il fenomeno è simmetrico a quanto avviene nella cura analitica condotta a buon fine: il paziente non guarisce conformandosi alla metapsicologia dello psicanalista.
Presento il mio caso clinico personale, che può essere istruttivo. Sono cresciuto in ambito lacaniano, dove si dà grande importanza al dettato freudiano. Tuttavia una piccola dissonanza tra Freud e Lacan mi ha sempre dato da pensare e alla lunga mi ha portato fuori dal lacanismo. In tutto il lacanismo – intendo il lacanismo di Lacan non quello scolastico dei suoi allievi – si estende come un’ombra inquietante il dubbio sulla scientificità della psicanalisi, forse sulla scienza in generale. Penso, per esempio, al seminario Encore del 13 marzo 1973. Questo è un tratto non freudiano, perché Freud diede sistematicamente molta importanza alla scientificità della psicanalisi, che chiamava la sua junge Wissenschaft, la “giovane scienza”. Valga per tutte l’ultima lezione d’introduzione alla psicanalisi, dove Freud propone la psicanalisi come visione scientifica del mondo. Ma quale scienza intendeva Freud? È giusto porre la domanda, perché le forme di scienza oggi in gara sono almeno due: l’antica e la moderna, l’aristotelica o la galileiana.
Proprio l’ultima lezione di Freud ha inaugurato il mio lento scostamento dalle versioni ortodosse del freudismo, prima, e del lacanismo, poi. Perché? Perché dopo Galilei non esiste la visione scientifica del mondo, die wissenschaftliche Weltanschauung. La nozione di mondo è filosofica. La parola “mondo” (die Welt) ricorre nel primo teorema del Tractatus logico-philosophicus (1922) di Wittgenstein: “Il mondo è tutto ciò che accade”. Per la filosofia, il mondo è tutto ciò che c’è da comprendere (verstehen). Questo “tutto” non esiste per l’uomo di scienza moderno, che invece pratica il lacaniano “non tutto”. Ammesso che sia universale, il “non tutto” non è concettuale. In matematica gli universali, più che universali, si chiamano “classi proprie”; sono classi “non classificabili”, nel senso che non sono membri di altre classi. Le classi proprie sono importanti in psicanalisi, perché supportano nozioni vitali come il paterno e il femminile. La filosofia non sa come pelarli.
Allora forse la scienza cui mirava Freud era una filosofia? Questo è il dubbio che ho covato da quarant’anni e più dentro di me. Oggi sono convinto: se la “scienza” freudiana fu una filosofia, fu il cognitivismo aristotelico, basato sul principio di ragion sufficiente. Se questo è vero, aveva ragione Lacan a dubitare della scientificità della psicanalisi. Oggi la scienza non è più l’eziologia dello scire per causasdi Aristotele, la ricerca delle cause prime, come cantava Virgilio nella seconda Georgica:Felix qui potuit rerum cognoscere causas, che Freud certamente conosceva.La pratica scientifica secondo Freud produce certezze, essendo deterministica nella sua eziologia. Oggi la scienza suona un’altra musica; è la pratica epistemica di Galilei e Cartesio delle “sensate esperienze e dimostrazioni necessarie”. Ci vuole più geometria che eziologia per fare scienza. Euclide serve finalmente a qualcosa, dopo essere stato per mille anni il pons asinorum. Serve sostituire il principio ingenuo di conferma – c’è l’effetto, quindi c’è stata la causa – con il più moderno principio di confutazione – c’è l’effetto, ma forse non c’è la causa. Il determinismo e le storie che racconta sono sospese. Per dirlo in termini freudiani, la verità scientifica non è storica ma materiale.
C’è da sottolineare un curioso dettaglio storico, desumibile dalla biblioteca freudiana. Freud non conosceva Aristotele, a parte i riferimenti al sogno; di lui aveva in biblioteca solo la Poetica, su indicazione di Breuer, da cui trasse la nozione di catarsi. Ma non aveva i testi di Galilei o di Cartesio. Di Cartesio analizzò malvolentieri due sogni “dall’alto”, secondo lui poco significativi, segnalati da Maxime Leroy. A Galilei Freud non dedicò neppure una citazione nelle 7000 pagine delle sue Gesammelte Werke.
Da dove proveniva, allora, la scientificità freudiana? Si stenta a crederlo, ma va detto: da Ippocrate. La scienza di Freud è la cosiddetta (male) “scienza medica”, che non è scienza ma tecnica, finalizzata alla terapia. Per la medicina, se c’è il fattore morboso, c’è il morbo; se non c’è il fattore morboso, non c’è il morbo, trascurando i falsi positivi (c’è il fattore morboso ma non c’è il morbo) e i falsi negativi (non c’è il fattore morboso ma c’è il morbo), di regola presenti anche nella situazione pandemica. Tutta la metapsicologia freudiana è una costruzione ippocratica: se ci sono le cause – le pulsioni – ci sono gli effetti psichici; se non ci sono le cause, non ci sono gli effetti psichici. Poi le cause freudiane si distinguono con Aristotele in efficienti e finali; le prime sono le pulsioni sessuali, le seconde quelle di morte. Ma, oggi dopo Galilei, questa eziologia non ha più corso; serve tutt’al più per fare della storiografia. In effetti, la psicanalisi si pasce da sempre di storie cliniche, in nome del primato della clinica della sofferenza (ma non fu così in Lacan, che da analista non scrisse mai casi clinici).
Mirare alla vera scientificità della psicanalisi, quella moderna, cioè galileiana, significa operare il distacco di Freud da Ippocrate, cioè dalla medicina in particolare, dal vitalismo in generale e dalle storielle che ci raccontiamo per mantenere in vita il discorso dell’analista, a cominciare dall’Edipo. L’operazione è a rischio. Si rischia di perdere l’aspetto psicoterapeutico della psicanalisi, ciò per cui lavorano, lautamente remunerati, gli psicanalisti. D’altra parte, chi comincerebbe un ventennio di psicanalisi per pure ragioni scientifiche? Bisogna star male per andare in analisi, supponendo che la psicanalisi sia una cura al male di vivere.
Dopo Freud
Chi è venuto dopo Freud non si è curato dell’aspetto scientifico del freudismo, né di quello vetero, aristotelico, né di quello neo, galileiano. Ha prevalso il misconoscimento della scienza galileiana, inaugurato dal processo a Galilei, conclusosi con la sua condanna nel 1633, che sancì per il senso comune la vittoria dell’aristotelismo. Della teoria scientifica della psicanalisi, insomma, tutti si sono interessati poco. Ha interessato di più la pratica della cura, la psicoterapia, da salvaguardare dall’invasione degli “psicanalisti selvaggi”, come li chiamava Freud. Tutti si sono preoccupati dell’efficacia terapeutica dalla psicanalisi, con l’eccezione di Lacan, che mirava più all’aspetto filosofico della psicanalisi. La junge Wissenschaft di Freud è rimasta la bella principessa dormiente, che aspetta ancora il bacio del principe che la svegli dal sonno – dal coma – psicoterapeutico. Io che ci provo dal 1996, introducendo in psicanalisi la logica intuizionista (non binaria, direbbe Rovatti), ho poche chance di riuscirci, non avendo l’aspetto del principe azzurro, ma la barba bianca, oltre che ottant’uno anni di età (proprio oggi sono suonati).
Il lavoro che spetta allo psicanalista “galileiano” non è da poco. Ha da smontare tutta la metapsicologia pulsionale, conservando tre o quattro assiomi, che si possono considerare galileiani: l’esistenza dell’inconscio, l’esistenza della rimozione originaria, la Nachträglichkeit, il principio di transfert, che lega le manifestazioni psichiche alle espressioni linguistiche attraverso relazioni di similarità (metaforiche) e di contiguità (metonimiche), le stesse che reggono la magia (v. il terzo saggio di Totem etabù). In pratica, si tratta di una sola sospensione; va sospesa nozione di anima e dei suoi supplementi. L’anima e la sua psicologia – das Seelenleben, la “vita psichica”, un termine che ricorre ogni venti pagine nelle Sigmund Freud gesammelte Werke – non esistono, scientificamente parlando. Esistono solo per lo psicoterapeuta che “fa sembiante” di curare il proprio paziente.
C’è da chiedersi come sarebbe una psicanalisi senz’anima. La risposta è semplice: sarebbe una psicanalisi non animistica, non ignota a Freud, che la descrisse a rovescio nel terzo saggio diTotem e tabù, intitolato appunto Animismo, magia e onnipotenza dei pensieri. Freud conosceva bene l’animismo, avendolo reinventato come psicanalisi. Si tratta di guarire lo psicanalista dalla sua malattia professionale, per la qualecrede che le sue interpretazioni, le sue idee, cambino magicamente la vita dell’analizzante. Il germe di tale malattia sta nell’origine della psicanalisi dalla nevrosi coatta di Freud, la coazione all’atto medico. Si chiama anche “onnipotenza dei pensieri”, con termine suggerito a Freud da un altro grande nevrotico coatto, il suo paziente noto come Uomo dei ratti. Il corrispondente tabù è l’Edipo, noli tangere matrem.
Insomma, il programma di una psicanalisi scientifica inizia da due assunti negativi, tra loro correlati da una pratica intellettuale relativamente recente, quella scientifica galileiana. Il primo assunto è non religioso – non esiste l’anima – e l’altro non eziologico – esiste il moto inerziale “psichico”: la ripetizione dell’identico senza causa. Non tanto di meno – meno animismo – ci vuole per salvare il freudismo da Freud (o Freud dal freudismo), con il piccolo aiutino di Nietzsche, il vero Galilei dell’“anima” che non c’è.
In pratica, il lavoro da fare è elementare, cioè riguarda gli elementi della procedura scientifica. Detto con le originarie parole tedesche, si tratta di passare dalla Verständnis, la “comprensione”dei fenomeni psichici, supposti esistenti, alla Erklärung, la loro “spiegazione”. Il passaggio è epocale. Consiste in una diversa applicazione dell’“intelletto”, der Verstand.
Nel caso della Verständnis si ragiona in termini di Wesen, “essenze”; si vuole trovare l’adeguamento della realtà di qualche forma “essenziale” di schematismo cognitivo precostituito, tipicamente il principio di ragion sufficiente, declinato come storia; insomma, nel caso della Verständnis,si cercano conferme ontologiche nel tempo alla corrispondenza essere-sapere. È tutto scritto in Essere e tempo di Heidegger.
Nel caso della Erklärung, invece, si tratta di scomporre la realtà in componenti elementari, relativamente arbitrari; possono essere le particelle della fisica o le specie biologiche, di cui Darwin riconosceva di non sapere la definizione, e di immaginare delle interazioni tra di loro, gli urti tra particelle o la struggle for life tra le specie. Si crea così un “modello” della realtà. Se i risultati del funzionamento del modello o, come si dice, della “simulazione”, sono troppo diversi dai dati sperimentali, il modello si confuta e se ne cerca un altro. Il procedimento scientifico è diverso dal caso precedente: procede per negazioni, non per verifiche. A differenza della filosofia e della scienza aristotelica, la scienza moderna cerca il falso, non il vero. I paradigmi scientifici si negano, non si affermano. Invece, Freud mira sistematicamente a trovare conferme alle sue interpretazioni analitiche, le edipiche in testa.[1]
Bene, la differenza è tutta qui: la scienza freudiana procede per conferme, non per confutazioni; non produce modelli del reale e tanto meno li falsifica. Il termine Interaktion, essenziale alla definizione di modello,non ricorre nelle Sigmund Freud gesammelte Werke. Non ricorre nemmeno nella definizione di collettivo, che è una massa omogenea di individui identificati al loro Führere isolati gli uni dagli altri, senza interazioni collettive reciproche.
La sintesi del discorso fin qui tenuto è semplice: Freud fu un vetero-scienziato. La sua scienza fu la storiografia; la sua verità fu la verità storica, il cui capolavoro è L’uomo Mosè e la religione monoteista. La raccolta di saggi in Totem e tabù permette di argomentarlo in modo non polemico. Prendiamo la falsa citazione darwiniana sull’esistenza dell’orda primordiale, die Urhorde. Non è solo un errore filologico. Voluto? non voluto? Non è questo che importa, perché è il segnale dell’appartenenza a un’epoca. Freud appartiene all’epoca scientifica pre-galileiana di quando la scienza era lo scire per causas.
C’è una considerazione strutturale da premettere a proposito dell’orda. L’orda primordiale non poteva ontologicamente essere darwiniana, perché non permetteva nessun vantaggio selettivo, quindi non aveva futuro biologico. In questo senso la falsa citazione darwiniana di Freud non è neppure falsa; è fuori dal contesto scientifico moderno; ricade nel contesto scientifico aristotelico; è semplicemente anacronistica. Freud ha prodotto un bel romanzo storico, che racconta la sua storia di immigrato ebreo nella grande capitale borghese, in cui non si integrò mai. La storia del parricidio e del divieto di appropriarsi della donna d’altri è la sua storia, per altro molto comune, di profugo della civiltà. In mezzo alle falsità collettive, individualmente molto vere, che Freud ci ha raccontato c’è una perla scientifica, anzi potenzialmente scientifica nel senso galileiano del termine: la psicanalisi. Diciamo che la psicanalisi fu la verità malgré soi di Freud, malgrado l’Edipo e la connessa metapsicologia pulsionale.
Cosa vogliamo farne? Forse, come punto di partenza, dobbiamo smettere di farne materia di romanzetti psicoterapici.
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