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Novembre 2013 IV – Civiltà: donne e uomini, bambini e giovani, poesia e politica

1 Dic 13

A cura di Luca Ribolini

LA LINGUA STRANIERA CHE NON RIUSCIAMO AD IMPARARE DAVVERO
di Massimo Recalcati, repubblica.it, 22 novembre 2013

 
La violenza dei maschi non è solo la manifestazione scabrosa del potere tramandato da una cultura che discrimina le donne. Come l’esperienza clinica ci mostra essa è soprattutto l’espressione di una angoscia profonda di molti uomini di fronte all’alfabeto dell’amore. La donna è infatti per ogni maschio una lingua straniera che esige un continuo e mai compiuto sforzo di apprendimento. La violenza sul corpo e sulla mente delle donne è un modo per aggirare lo spigolo duro di questo alfabeto. L’incontro con una donna implica sempre, per ogni uomo, una quota di angoscia anche se essa può venire spavaldamente (ecco a cosa serve il gruppo con il quale si può barbaramente condividere la violenza) misconosciuta. La lingua straniera del femminile, l’eteros radicale che essa incarna, non può però essere mai assimilata e estirpata del tutto. Per questo la violenza maschile può assumere le forme più odiose ed efferate e concludersi con la morte della vittima. Un suo paradigma agghiacciante si può trovare nel personaggio psicotico protagonista di Figlio di Dio di Cormac Mc Carthy, il quale uccide le donne come unica condizione per poter avere rapporti, non solo sessuali, con loro. Solo il corpo ridotto a cadavere dovrebbe sancire la neutralizzazione definitiva dell’angoscia. In realtà le vittime si devono drammaticamente moltiplicare perché nessuna violenza potrà mai fare tacere la lingua straniera della donna.
 
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/11/22/la-lingua-straniera-che-non-riusciamo-ad.html?ref=search
 
 
LA PSICHE A DIMENSIONE SOCIALE. Dopo Freud, come sono cambiate le nostre forme di vita e quali prezzi comporta la necessità del vivere comune?
di Rocco Ronchi, ilmanifesto.it, 23 novembre 2013
 
Nel saggio che introduce il dialogo a quattro voci Nuovi disagi nella civiltà (Einaudi, pp. 201, euro 19), la curatrice del volume, Francesca Borrelli, nota come il celeberrimo testo del 1929 di Sigmund Freud inauguri, già con il suo titolo, un’associazione di parole che da allora è entrata a far parte del nostro lessico comune. Che la socialità sia attraversata dal disagio psichico non è certo una gran scoperta. Freud dà però dignità di enunciato scientifico a un’altra affermazione assai più radicale. Egli infatti assegna alla civiltà come tale la causa del disagio.
Il disagio è della civiltà nel senso del genitivo soggettivo, il disagio appartiene strutturalmente al processo stesso di socializzazione e di acculturazione dell’animale uomo, da esso ne consegue, come direbbero i logici, analiticamente. Data la «civiltà», ecco il disagio, ecco l’infelicità, ecco la rinuncia pulsionale. Sebbene si trovasse anticipata presso i filosofi più radicali della tradizione occidentale, dai cinici a Rousseau, questa implicazione, dopo Freud, ha costituito l’orizzonte di un dibattito filosofico antropologico e psicopatologico, di cui questo libro è un ulteriore capitolo.
Dopo aver ricostruito la storia di questa nozione, Francesca Borrelli pone sul tappeto la domanda che funge da filo rosso di tutto il dialogo e alla quale sono invitati a rispondere il filosofo Massimo De Carolis, gli psicanalisti Francesco Napolitano e Massimo Recalcati. La questione investe l’oggi: come, oggi, la civiltà causa disagio? Quali mutamenti sono occorsi nel passaggio dalla modernità – il tempo di Freud – alla post – o alla iper-modernità – del nostro tempo? Quali nuove forme del disagio sono venute alla luce e quale è la nuova figura del soggetto che la «macchina antropogenica» della civiltà ha prodotto? Come un fiume carsico, al di sotto di tutto il dialogo, scorre l’ipotesi pasoliniana della «mutazione antropologica»: ad essere in questione nelle trasformazioni sociali, economiche e tecnologiche dell’«oggi» è, infatti, la stessa natura umana.
La risposta freudiana del 1929 è nota: la possibilità della civiltà implica repressione delle pulsioni, una repressione inevitabile. L’istanza psichica denomina nata Super-Io se ne incaricherebbe lasciando il soggetto in una dimensione di «colpa» che, come dirà in quegli stessi anni Heidegger (Essere e tempo è del 1927), non è «ontica», non è cioè legata ad azioni contingenti, ma è «ontologica», vale a dire coessenziale alla natura del soggetto stesso. Quale che siano le sue azioni effettive, la «mancanza» del soggetto rispetto alla Legge è un dato oggettivo. Il suo disagio è perciò un dato strutturale. Non è una ferita in grado di cicatrizzarsi ma una vera e propria amputazione. L’unica strategia possibile è, secondo il lucido pessimismo freudiano, una ragionevole riduzione del danno. Uno dei nomi di tale strategia sarà proprio «psicanalisi». Nessuna via d’uscita dal disagio è infatti immaginabile senza compromettere l’esito del più grande sforzo che l’uomo abbia fatto per fornire alle sue azioni un orizzonte di significato (tale è infatti il senso della «civiltà» per Freud). Il ritorno ad un innocente «stato di natura» non viziato dalla colpa avrebbe soltanto il senso dell’entropia del sistema.
Su questo modello classico s’innesterebbe, secondo gli autori del libro, la «mutazione antropologica» post o iper-moderna. Oggi la macchina antropogenica funzionerebbe infatti diversamente. Il segnale più evidente dell’avvenuta mutazione sarebbe costituito dall’indebolimento del Super-Io e, quindi, da una diminuzione dell’angoscia per la colpa. L’oggi sarebbe segnato da un affievolirsi della repressione pulsionale al quale, però, non seguirebbe una «liberazione», come era, ad esempio, negli auspici dei lettori di estrema sinistra del Disagio della civiltà.
Al contrario, proprio grazie all’infiacchirsi dell’istanza della Legge, si assisterebbe alla produzione generalizzata di nuove forme del disagio, spesso ignorate dallo stesso Freud, perché non di tipo nevrotico ma decisamente orientate verso il paradigma psicotico. Anche Francesco Napolitano, che tra le varie voci dialoganti è la più fedele al dettato freudiano, riconosce che la tendenza all’acting, particolarmente a quello violento, è diventata un contrassegno della nostra civiltà, così come la coazione a ripetere ha preso il posto dell’elaborazione del ricordo.
Per Massimo Recalcati il disagio contemporaneo è generato da una civiltà che invece della minaccia della castrazione sventola la bandiera della promozione del godimento. Il Super-Io contemporaneo non è propriamente indebolito, ma un Super-Io perverso che esige il godimento come obbligo. Alla civiltà ancora patriarcale e severa del tempo di Freud si sarebbe sostituita, a partire dagli anni sessanta del secolo scorso, la civiltà neoliberale caratterizzata dalla coazione al consumo illimitato.
A guidare la civiltà non è più la legge della castrazione veicolata dal Nome del Padre, non è l’ideale del padre come condizione trascendentale capace di discriminare il bene dal male, il godimento lecito da quello illecito. Invece dell’opposizione «classica» freudiana tra legge e pulsione al godimento c’è ora un godimento compulsivo che si afferma come unica forma possibile della legge. Ma anche questa Legge perversa è gravida della sua specifica infelicità, un’infelicità questa volta muta e nuda, che nemmeno è capace di portare ad espressione il proprio disagio (alessitimica) e che perciò lo manifesta prevalentemente in sintomi che sono soprattutto corporei (disturbi alimentari, tossicodipendenze ecc.).
Ma non è solo il corpo vivente a soffrire. Il disagio investe anche il piano immateriale dell’immagine. Non ci si sente più a posto con la propria immagine pubblica, con quella immagine che offriamo agli altri. Non ci si sente adatti alle richieste dell’Altro alle quali si vuole tuttavia incondizionatamente aderire, perché essere come l’Altro mi vuole diventa il senso stesso della felicità ipermoderna.
Ai classici disturbi di adattamento, che in qualche modo tradivano ancora una resistenza inconscia alle richieste di conformità del Super-Io, si sostituiscono così i disturbi da iper-adattamento o da iper-normalità che la più recente letteratura ha segnalato (Joyce Mc Dougall). Alla dimensione della colpa, che implica comunque un riferimento ad una trasgressione della Legge vissuta nell’angoscia, si sostituisce quella della vergogna, che invece nasce dalla frustrazione di un desiderio di conformità e che, come afferma De Carolis, non è accompagnata dalla colpa. Alla scissione orizzontale della personalità tra l’«alto» del Super-Io e il «basso» delle pulsioni, si sostituiscono scissioni verticali, che fanno letteralmente a fette il soggetto, dissociandolo e pluralizzandolo.
A fungere da basso continuo in questa diagnosi collettiva è la convinzione che l’«al di là del principio di piacere» costituisca l’orizzonte del disagio contemporaneo e che per tale «al di là» valga, in ultima analisi, la lettura che ne fece il fondatore del metodo psicoanalitico nell’omonimo saggio del 1920: «al di là» ci sarebbe solo un «godimento» mortifero e rovinoso per il soggetto, oltre c’è Thanatos. Forse è da una diversa interpretazione di questo «oltre» che si potrebbe ripartire per provare a dare alla «mutazione antropologica» in corso un esito differente, questa volta rivoluzionario e non (iper)normalizzante.
 
http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20131122/manip2pg/11/manip2pz/348958/
 

GEMELLI PER SEMPRE

di Sarantis Thanopulos, ilmanifesto.it, 23 novembre 2013
 
Milioni di persone sono rimasti incantati vedendo su You Tube il filmato di due neonati gemelli che si abbracciano mentre l’infermiera francese Sonia Rochel fa loro il bagno. A guardare bene il filmato la scena richiama in realtà sentimenti d’angoscia: l’abbraccio è un falso sapientemente costruito dall’infermiera che manipola i due piccoli corpi in modo da tenerli legati perfino quando terminato il bagno li avvolge in un asciugamano bianco, con un gesto finale che tradisce la costrizione di fondo (e fa apparire per un attimo il panno come sudario). È nota la tendenza a enfatizzare la somiglianza dei gemelli (vestendoli, per esempio, in modo uguale) per esaltare l’importanza di un legame evidente di sangue. Questo atteggiamento potrebbe apparire incongruo visto il carattere perturbante del sosia che attiva la paura di confondersi con l’altro, perdendo la propria distinta identità. Sennonché l’accentuazione della gemellarità ha un significato apotropaico: esorcizza l’effetto perturbante del doppio, normalizzando il fantasma dell’indifferenziazione che lo determina. In fondo si tratta di una questione di giusta distanza tra sé e l’altro, di equilibrio tra il legame fondato sull’identificazione e la relazione costruita a partire dalle differenze. L’effetto perturbante, che testimonia il radicamento in noi del bisogno della differenza, difende quella lontananza dell’oggetto desiderato che tiene vivo il desiderio e lo rende lungimirante. L’investimento della gemellarità, il nostro aggrapparsi alle somiglianze, porta al consolidamento della consuetudine e al trionfo del già visto e del già vissuto che separa l’estraneo dal familiare e rende la presenza dell’altro omogeneizzante, consolatoria. Ma ogni cosa puramente consolatoria è falsa: ci protegge dalla verità della vita (che è indissociabile dal conflitto) e alimenta l’inerzia psichica (l’unica vera malattia dell’anima). Le mani dell’infermiera che spingono i due gemelli verso l’abbraccio creano un consenso che non è rivolto in realtà al gesto forzato dei fratelli ma allo sguardo degli stessi spettatori consenzienti che vogliono vedere solo ciò che li consola, che per definizione non esiste realmente ma è un’invenzione. Va in scena una concezione della fraternità depurata dal dissenso e dalle divergenze, tutta piegata sull’uniformazione dei pensieri e dei vissuti e sull’illusione di solidità e di sicurezza che crea l’assenza di movimento. Nel filmato i due gemelli soffrono l’utero artificiale in cui sono di nuovo rinchiusi per esigenze, è il caso di dire, «sceniche». Il loro corpi, le loro braccia si incontrano, si contrastano si evitano, si scontrano. Non sembrano tanto interessati l’uno all’altro ma alla conquista di spazio, alla definizione del loro movimento vitale. L’idea dell’altro da sé è di là da venire (passerà prima attraverso la madre e solo il legame di lei con il padre la renderà realmente vivibile) e quando finalmente nasce l’amore fraterno esso non ha senso senza l’odio. L’abbraccio contiene l’odio della lotta: è la forza propulsiva dello scontro che facilita l’incontro che lo rende consistente, solido. Si dice che si odia solo chi si ama (o che si potrebbe amare) ma sarebbe più preciso dire che si ama solo chi si odia (o che si potrebbe odiare). La dissociazione dell’odio dall’amore affligge in modo evidente la nostra civiltà e non c’è modo peggiore di affrontarla che avvolgerla d’amore immaginario. C’è molta violenza nel nostro sguardo se quando non trova l’amore lo inventa e la perdita della capacità di sentirsi perturbati ci impedisce di comprenderlo.
 
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GLI ADOLESCENTI E IL SESSO VISSUTO SOLO COME COLLAUDO DI SÉ. Il bisogno di sperimentare il potere della nuova corporeità

di Gustavo Pietropolli Charmet, 23 novembre 2013
 
A nessun’altra età si subisce un cambiamento di tale portata come durante la pubertà e nel periodo successivo. L’adolescente per mesi e anni è costretto a pensare il corpo, a visitarlo, imparare a usarlo e imporgli un significato etico, relazionale e sociale. A conclusione del viaggio nel corpo, l’adolescente entra in possesso di un’immagine mentale della propria corporeità sulla quale appoggiare i valori dell’identità di genere e la definizione del proprio orientamento sessuale. I giovanissimi maschi debbono imparare a conoscere e usare un corpo abbastanza facile da esplorare. Perciò il loro interesse si dedica a sviluppare la forza delle masse muscolari, la resistenza, la mira, e al confronto con i coetanei. Le «prove di collaudo» del corpo vengono affrontate con qualche preoccupazione, ma generalmente vengono superate con discreta soddisfazione. Per le adolescenti femmine il viaggio esplorativo nel nuovo corpo è molto più complicato poiché si tratta di esplorare simbolicamente le cavità generative e sessuali e appropriarsi del mistero della maternità e del piacere. È una grande impresa riuscire a capire tutto e a integrare femminilità nascente, futura maternità e realizzazione sociale.
La complessità dell’impresa può comportare insuccessi ricchi di pericolose conseguenze. Più frequentemente, le ragazze possono rischiare di sentirsi prive di fascino e vivere l’incubo di essere indesiderabili, destinate a una «squallida invisibilità». Il nuovo corpo è uno strumento efficace per competere nel mercato degli sguardi e dei desideri? Ciò fa sì che frequentemente il vero debutto non consista tanto nel rapporto sessuale, ma nella verifica di quanto si riesca a essere desiderata. È il numero dei «mi piace» su Facebook che sfata la profezia dell’invisibilità e dell’esclusione. Desiderata da tanti, da tutti, al solo apparire nel campo visivo dei coetanei; è questa estatica esperienza di eccitamento collettivo e di addensamento degli sguardi sul corpo ciò che rischia di sancire la nascita della propria femminilità. È il potere del corpo che accresce l’autostima nella società del narcisismo, ma per verificarlo è necessario capire quale sia la migliore presentazione. Nella realtà virtuale viene «postata» e proposta l’immagine più efficace, ma è facile imbrogliare ed esporre un avatar solo somigliante al corpo che lo ha generato. Il numero di faccine sorridenti decide.
Nella realtà concreta la verifica del proprio potere seduttivo comporta invece qualche rischio e una certa fatica. I rischi derivano dall’evenienza di spingersi ben oltre la barriera del pudore e di superare il limite oltre il quale la danza dei sette veli può essere interpretata non come una esibizione artistica ma come un preliminare erotico. La fatica consiste nella rincorsa verso la conquista di una visibilità da «velina», inseguendo nel labirinto della società dell’immagine un riconoscimento del proprio potere che stenta ad avverarsi e lascia numerose vittime nel campo dei casting e dei costosi portfoli.
Gli adulti, genitori ed educatori, dovrebbero provvedere alla elaborazione di una rinnovata educazione sentimentale che tenga presenti i rischi attuali e lasci perdere i miti e le leggende dell’amore romantico, per dedicarsi con intelligenza e competenza reale a garantire alle adolescenti attuali un sostegno nella lunga fatica e nelle peripezie rischiose dedicate a verificare il potere della nuova corporeità. Non sarà facile mitigare agli occhi delle adolescenti il potere dei miti sociali condivisi che glorificano il potere della bellezza e lasciare povere e trasparenti le aspiranti veline, condannate a danzare sul cubo della discoteca, col rischio di vanificare le lotte delle loro mamme e zie per fondare una nuova femminilità che attinga il potere dalle capacità della mente di sedurre e farsi desiderare come compagne nell’amore e nella vita. Le nuove adolescenti lo sanno che esiste una bellezza autentica, ma a volte hanno bisogno di collaudare, in nome delle pari opportunità, il potere sui coetanei regalato dalla nuova corporeità.
http://www.scienzaevita.org/rassegne/1d0ff5cc67a3a1b6b95c6c7ea8266967.pdf
 
 
I LUMI DELL'OCCULTO
di Ermanno Bencivenga, ilsole24ore.com, 24 novembre 2013
 
Nel 1932 Freud era all'apice della fama. Due anni prima aveva ricevuto il Premio Goethe; l'anno successivo, su iniziativa della Società delle Nazioni, sarebbe stato pubblicato il suo carteggio con Einstein sulla guerra. Sofferente di cancro alla mandibola e impossibilitato a parlare in pubblico, si collocò davanti a un pubblico immaginario per comporre una nuova serie di lezioni sulla psicoanalisi, che facevano seguito a quelle tenute fra il 1915 e il 1917. La seconda delle sette lezioni s'intitola Sogno e occultismo. Freud la comincia esprimendo naturale perplessità e comprensibili sospetti, prosegue illustrando come l'analisi porti alla luce fenomeni "strani" e conclude: «non si dimostra molta fede nella scienza se non la si ritiene capace di accogliere ed elaborare anche quanto risulta di vero nelle affermazioni occultistiche».
Non sono tempi felici per le credenziali scientifiche della psicoanalisi; ma chi oggi riderebbe delle librerie di quarant'anni fa, in cui metà dei volumi di saggistica ricadevano in aree del pensiero disegnate da Marx e Freud, dovrebbe riflettere sul significato dell'unanimismo attuale, considerando l'esito dell'unanimismo di allora. Rimane il fatto che Freud fu un importante esponente del positivismo e nel passo citato suggerisce che un movimento culturale mantiene vitalità solo fin quando mantiene apertura, e si spegne quando il rifiuto di guardare con rispetto e con interesse all'intera gamma dell'esperienza umana rivela e impone il suo carattere di pregiudizio.
Ciò che vale per il positivismo vale anche per il secolo dei Lumi, e The Dark Side of the Enlightenment, di John Fleming, già professore di letteratura a Princeton, è qui per attestarlo. Non è un bel libro: zeppo di digressioni ridondanti e polemicamente volto a riabilitare l'autentica passione di Fleming, un medievista irritato dalla cattiva stampa che secondo lui affligge il suo periodo storico, a differenza del lucido razionalismo settecentesco. Né il suo contenuto, in particolare la sua insistenza sullo stretto legame fra magia e alchimia da un lato, scienza contemporanea dall'altro, stupirà un Paese in cui ha lavorato, per fare solo un nome, Paolo Rossi. Ma, come diceva della filosofia Peter Strawson in Individui, ogni generazione deve ricordare il passato e riformularlo nel suo linguaggio. Non possiamo dunque che approvare Fleming quando ci ricorda che «nel diciassettesimo e diciottesimo secolo l'idea di indagare l'"occulto" richiamava alla mente quel che noi chiamiamo "impresa scientifica" – il tentativo di scoprire aspetti ignoti della Natura», il che spiega come mai Newton investisse «nei misteri di profezia biblica non meno che nelle leggi fondamentali della fisica» e l'alchimia fosse «la regina delle scienze illuministiche».
Il più grande filosofo dell'epoca, Immanuel Kant, nel suo capolavoro Critica della ragion pura menziona tre esempi di quel metodo scientifico moderno che propone di estendere alla filosofia: Galileo, Torricelli e Stahl. Stahl era il principale teorico del flogisto, cioè di uno degli archetipi, oggi, di ciarlataneria pseudoscientifica. È un'altra citazione interessante. In negativo, concorda con il precedente riferimento a Marx e Freud nell'ammonirci su quanto la scienza sia un procedere a tentoni, fra scoperte ed errori, e spesso scoperte che si rivelano errori ed errori che si rivelano scoperte. In positivo, indica che il compito della ragione è quello di illuminare ogni angolo del mondo, senza preclusioni o paure.
 John V. Fleming, The Dark Side of the Enlightenment, New York, Norton, pagg. xviii+414, $27,95

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-11-24/i-lumi-occulto-084854.shtml?uuid=ABR61Lf
 

«IO E IL VECCHIO FREUD. SUL PALCO MI TRASFORMO PER REGALARE POESIA»

di Redazione, laprovinciadivarese.it, 25 novembre 2013
 
Sarà Freud, vecchio, malato, in una Vienna nel 1938, con la Gestapo che gli ha appena portato via la figlia Anna. Sarà Freud nello spettacolo “Il visitatore”, Alessandro Haber, in scena al teatro delle Arti di Gallarate domani e mercoledì alle 21, accanto ad Alessio Boni nei panni del visitatore misterioso nato da Éric-Emmanuel Schmitt, a Francesco Bonomo e Nicoletta Robello Bracciforti, con regia di Valerio Binasco e produzione Goldenart. Spettacolo che vedrà anche, in collaborazione fra il teatro delle Arti e la libreria Biblos Mondadori di Gallarate per approfondire testi letterari legati al teatro, l’incontro tra la compagnia e il pubblico proprio in libreria, mercoledì alle 18,30. E spettacolo in cui Freud riceve, in un momento di angosciosa attesa, la visita di questo personaggio misterioso, che per qualcuno rappresenta Dio.
Alessandro Haber, parliamo un po’ del suo personaggio…
Tutti sappiamo chi è Freud, come è stato vicino agli uomini per cercare di capire i problemi della mente. Ateo, ebreo, crede nel materiale: ciò che è Dio, la santità, il paradiso gli è ostico. A quest’ uomo malato di tumore alla gola, nel 1938, in una Vienna colpita dagli eventi razziali, arriva inaspettato un suo “doppio”, un personaggio che si rivela poter essere Dio. E il suo dolore, la sua determinazione, la sua logica totale del pensiero è come se si fossero rotti, le sue teorie si stanno sgretolando perché questo personaggio le mette in dubbio.
Il visitatore è stato scritto nel 1993, ma si rivela attuale…
Di grande attualità. E in teatro la gente dimostra una grande attenzione, durante uno spettacolo che spesso fa anche sorridere. Il pubblico guarda in questa grande stanza dove sembra esserci un paradosso: da una parte arriva il personaggio misterioso, lo spirituale, e una dove le cose accadono concretamente. E davanti a ciò che accade l’uomo diventa quasi un bambino.
 
http://www.laprovinciadivarese.it/stories/Cultura%20e%20Spettacoli/io-e-il-vecchio-freud-sul-palco-mi-trasformo-per-regalare-poesia_1034285_11/
 
 
DA GRILLO A RENZI IL CARISMA ORIZZONTALE
di Massimo Recalcati, la Repubblica, 26 novembre 2013
 
Uno dei temi più vicini all’indagine psicoanalitica che attraversano il dibattito politico è quello del carisma. A destra e a sinistra, passando per il M5S, l’aggregazione del consenso non sembra poter prescindere dalla dimensione carismatica del leader. Questa constatazione appare preoccupata soprattutto in coloro che ne sono privi e che guardano il cosiddetto “uomo solo al comando” con sospetto. Non hanno però tutti i torti. Non è forse il carisma quella forma di potere che rende ciechi, che muove le masse suggestivamente, ipnoticamente? Non è il fascino carismatico del leader a spegnere il giudizio critico celebrando religiosamente l’Imago del leader come una sorta di idolo pagano?
Indubbiamente la dimensione carismatica del potere suscita legittime preoccupazioni anche se solo si rilegge la storia del Novecento e i disastri generati da masse irretite dal fascino morboso provocato dalla voce e dallo sguardo invasati del leader. Freud ne ha fornito un ritratto insuperabile nel suo Psicologia delle masse e analisi dell’Io proprio mentre l’Europa si infilava nel tunnel dei totalitarismi. E tuttavia queste condivisibili preoccupazioni sembra scaturiscano da una concezione della politica ancora ingenuamente razionalista secondo la quale il consenso sarebbe il risultato di un discernimento puramente logico del livello di persuasività degli argomenti dei diversi contendenti.
Non era certo necessario il ventennio berlusconiano per smontare questa idea solo “cognitivista” del consenso. Uno dei contributi decisivi che la psicoanalisi ha introdotto nel campo della politica consiste, infatti, nel pensare che le scelte degli individui — anche quelle elettorali — siano sempre mobilitate non solo dal giudizio ma anche da spinte pulsionali acefale, da desideri più forti, da esigenze “illogiche” che la ragione non è mai in grado di governare del tutto. Queste esigenze non sono solo quelle avidamente pulsionali del guadagno immediato, della difesa accanita ed egoistica dei propri interessi, dell’accrescere la propria potenza, ma anche quelle — altrettanto pulsionali — dell’aspirazione al cambiamento, alla trasformazione dell’esistente, alla giustizia, all’apertura di mondi nuovi, all’affermazione coraggiosa di una visione differente del nostro futuro. Questo significa che la politica implica sempre la pulsione e il desiderio e non solo la ragione. È un dato di fatto. Gli enunciati senza la forza singolare dell’enunciazione (desiderio) risultano vuoti.
Traduciamo questa tesi più semplicemente con un esempio: io posso condividere quasi tutto di ciò che dice un segretario di partito, ma il modo in cui lo dice, le parole che usa nel dirlo, il livello singolare (desiderante) della sua enunciazione, può rischiare di contraddire proprio ciò che dice e ciò ben al di là della sua volontà poiché è il livello dell’enunciazione che può fare vivere, o morire, il valore degli enunciati. Basta entrare in un’aula universitaria per rendersene conto. Il professore preparato può non sapere cosa sia un’ora di lezione. Saper tenere una lezione non risiede solo nella retorica di chi parla, nella sua capacità di comunicazione, ma nella forza di saper incarnare la verità di quello che dice, la trasformazione che la parola introduce in chi la ascolta. Questa forza ha precisamente a che fare con il carisma. Il problema, infatti, non è demonizzare il carisma nel nome di una visione razionalistica della politica che esclude dal suo orizzonte la dimensione della forza e dell’eccesso — pulsione e desiderio — , ma costruire una clinica differenziale del carisma. Cosa osserviamo a questo proposito? Semplice: l’esistenza di carismi differenti.
Il carisma berlusconiano non è assimilabile a quello renziano o a quello grillino. Si tratta di carismi che hanno supporti diversi: il carisma berlusconiano poggia sul fantasma della libertà, o, meglio, sulla riduzione della libertà al principio di fare quel che si vuole, sull’inno dell’individualismo — la riduzione della Legge a Legge ad personam — come valore antropologico assoluto che finisce per rendere impossibile la vita insieme. Gli altri suoi attributi — non secondari — sono quelli del potere, del sesso e del denaro che radunano il consenso a partire da un meccanismo elementare di identificazione proiettiva: essendo il nostro tempo il tempo della morte degli Ideali, ciò che conta è godere il più possibile senza vincoli di sorta e Berlusconi incarna con forza carismatica questo godimento libero dalla Legge e per questa ragione ha saputo generare un consenso ventennale attorno alla sua persona. Non nonostante infrangesse la Legge, ma proprio perché sottoponeva la Legge a una volontà — la sua — più forte. Si tratta, come si vede, di una versione del carisma che trova la sua linfa sulfurea nell’antipolitica, cioè in una rivendicazione di totale estraneità rispetto al mondo della rappresentanza politica.
È su questa linea — quella dell’antipolitica — che dobbiamo collocare anche il carisma di Grillo che, sebbene antropologicamente assai differente da quello berlusconiano, condivide la stessa rivendicazione di se stesso come di un corpo estraneo e separato dalle istituzioni democratiche della rappresentanza. In Grillo il vento dell’antipolitica è suscitato non da un fantasma di libertà, ma da quello di purezza e di incontaminazione sostenuto da un confine immunitario rigido e fondamentalmente paranoico che rende impossibile qualunque trattativa con chi non appartiene alla casta identitaria dei puri. Qui non è il potere, né il sesso, né il denaro, né una visione iperindividualista della libertà, a fondare il carisma. Le ragioni da cui scaturisce il carisma di Grillo sono le stesse ragioni della sinistra, ma in esso si miscelano in modo singolare e inquietante estremismo (verso l’esterno) e autoritarismo (verso l’interno) secondo la più tipica fenomenologia di tutti i leader integralisti.
Ci si può chiedere di quale natura sia il carisma di Renzi. Mi pare che questo carisma faccia perno essenzialmente su un’idea positiva della giovinezza. Non certo quella estetica perseguita pateticamente da Berlusconi, ma quella che coincide con l’esigenza del sogno e della trasformazione, del progetto e del coraggio, della necessaria assunzione di responsabilità che attende le nuove generazioni. Per questo, probabilmente, esso sa radunare attorno a sé quei giovani che abbandonano le sedi più tradizionali dei partiti, Pd compreso, e che rischiano di essere assorbiti dall’antipolitica dell’iperindividualismo berlusconiano o del fondamentalismo grillino. Si tratta chiaramente di un carisma che non si sostiene più — come accadeva per i grandi leader storici della sinistra democratica — sull’autorevolezza della figura paterna. Da questo punto di vista i funerali di Enrico Berlinguer non hanno solo chiuso una stagione politica, ma hanno anche segnato il tramonto definitivo del carisma patriarcale di cui il leader era la personificazione. Con Achille Occhetto inizia un processo di umanizzazione e fragilizzazione del leader che giunge sino a Matteo Renzi, il cui carisma sembra sganciarsi decisamente dalla forza verticale del padre per assumere una dimensione più orizzontale. Anziché aver nostalgia dell’epoca del leader-padre conviene interrogare la natura di questa nuova versione del carisma. Quale? Quella della fratellanza di una nuova generazione che chiede diritto di parola esigendo che questo sia il tempo nel quale dare prova della propria capacità di governo? Staremo a vedere.
 
http://www.zeroviolenzadonne.it/rassegna/pdfs/26Nov2013/26Nov20138bb74d0f99e642fcd5484bec8dc43cc6.pdf
 
 
FARE IL PADRE, ESSERE MAMMA
di Andrea Bocconi, ilfattoquotidiano.it, 28 novembre 2013
 
“Come somigli a tuo padre, fa impressione”, mi dice una signora ultranovantenne, ricordando quell’uomo morto quaranta anni fa. Mi fa piacere e mi inquieta l’osservazione, “Come ti somiglia tuo figlio!”. E allora, per la proprietà transitiva, collego questi maschi importanti e così lontani, che non si sono incrociati nella vita. Penso a che padre era mio padre, a che padre sono io: la linea maschile, così tronfia di atavico orgoglio, la trasmissione patrilineare del cognome, così incerta sul da farsi. La madre sa fare la madre, quei due corpi che sono stati uno rimangono per sempre, a fare il padre si impara, più o meno bene. Il bel libro di Michele Serra, Gli sdraiati, va a ruba, perché con disarmante sincerità confessa la lontananza dei padri che siamo dai figli sempre connessi, digitali, abitanti di un mondo psichico tutto loro, che ha accessi difficili per noi: in una paginetta esilarante Serra cerca di immaginare cosa accade nella mente del figlio che chatta al telefono, legge chimica, ascolta la televisione e sente la musica, tutto insieme.
Pare che di questi tempi escano diversi libri sulla paternità e diano voce alle nostre incertezze: Scena padre, è come un coro, o meglio un canto a più voci, molto diverse ma apparentate. Magnifica la risposta del poeta a Magrelli, che gli chiede – Ma com’è, com’è avere un foglio? L’amico si avvicina alla scrivania e con un gesto deciso spazza via tutto: “Così, Non resta niente. Niente di prima, intendo. E’ un disastro, il più splendido disastro che ti possa accadere”. Il libro battistrada, fondamentale è Il gesto di Ettore, dello psicoanalista Zoja: dimostra con messe di dati e di esperienze che la paternità si impara, si inventa, è diversa da cultura a cultura, cambia nei secoli, la maternità la si vive come se fosse già iscritta nei geni.
Mio padre si appoggiava a regole antiche, che sembravano immutabili, a volte dure, ma giuste, oneste, dignitose. E quando c’era la guerra, lotta di territori da conquistare, principi da difendere, lontananze politiche abissali, eravamo nemici leali, pieni di rispetto l’uno per l’altro. Sembrava sapere bene che fare, lui che il padre lo aveva perso presto e le regole le aveva imparate da ragazzino in Marina. Ora mi chiedo se non bluffasse almeno un po’, come faccio io se devo passare ai figli sicurezze che non ho: sì, guarirai prestissimo, il tuo male dipende da questo, con la prof deficiente ti consiglio di fare così. Ed è una finzione sana, perché a che servirebbe lasciarli ancora più soli di fronte alle inevitabili sofferenze della vita?
E magari qualche volta la azzecchiamo anche e ci sentiamo genitori, se non saggi, utili. Un continuo cercare di fare la cosa giusta, come seguire i segnalini del Cai in un bosco, sempre sul punto di perderli. E così diversi col figlio e con la figlia, amori grandissimi simili e diversi, quell’essere nello stesso corpo di maschio ti sembra che dovrebbe aiutare, avere più informazioni, la figlia femmina è mistero nel vederla diventare donna, impercettibili distanze e  polarità. Bello scambiare i ruoli, tra padre e madre, ma poi anche cose di donne e cose di uomini, non credo che sia sbagliato.
Un altro elemento cambiato è che molte paternità arrivano ben dopo i quaranta, all’asilo ti chiedono se sei il nonno e tu rispondi piccato: no! Il padre. Da un lato sembra di avere più esperienza, meno voglia di carriere e più voglia di godersi fino in fondo   quei fiori d’autunno, dall’altro fai i conti degli anni che restano, loro quanti ne avranno quando sarò il mio momento di andarmene, ce la farò a mantenerli agli studi, ad aiutarli nel difficile avvio? Dovranno emigrare per avere un lavoro? Ogni ipotesi di ritiro eremitico, o almeno di pensione, tramonta. Morirò sulla breccia, conscio delle bollette e delle tasse universitarie? Ha ragione il poeta: “Un disastro, il più splendido disastro che ti possa accadere”.
 
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/28/fare-il-padre-essere-mamma/793929/

FREUD IL CONQUISTADOR
di Idolo Hoxhvogli, ilfattoquotidiano.it, 30 novembre 2013

L’eterodossia è una forma di ortodossia. Per andarsene da un luogo, bisogna partire da e in esso. L’allontanamento da qualcuno conferisce un’identità a quel qualcuno. La condizione affinché l’eresia si dia è la precisa consapevolezza della forza intima, della configurazione statuaria del pensiero che si sovverte. Per uccidere un padre bisogna esserne figli, altrimenti si uccide solo un uomo.
Non è un caso che sia un freudiano eterodosso a porre la domanda più scandalosa, se riferita al padre della psicanalisi. Elvio Fachinelli (1928-1989) in Su Freud, edito da Adelphi, si chiede: «Chi è Freud?». Con Freud è in questione proprio il «chi», il «chi» che l’egologia volgare ha cristallizzato disconoscendo o banalizzando le pulsioni morbose che reggono, come una fragile ragnatela, la parabola esistenziale dell’individuo. Freud è un conquistador, che inizia la conquista dell’America interiore – l’io – vivisezionando anguille alla ricerca dei loro testicoli, studiando la cocaina e saggiandone le proprietà antidepressive. Da ragazzino si sognava generale, e lo divenne di un’armata intellettuale – colma di disertori, a dire il vero – assediante quella Troia – l’io – che il suo modello Schliemann scoprì. Come Troia fu sconfitta da un banale cavallo di legno, così l’io è scardinato da banali sbadigli, insignificanti sogni significativi, lapsus e dimenticanze: l’imperioso Io della tradizione si scopre i-o, fratturato e intessuto di morbosità che sono, nella dimensione del conscio, vergogne. L’Io della filosofia si rivela, più che soggetto della conoscenza e della storia, raglio d’asino: i-o. La metafisica e il tecnicismo psicanalitici riportano l’uomo con la mente per terra, e non con i soli piedi come aveva fatto Darwin.
Fachinelli, consapevole della lezione freudiana – per la quale «non è possibile possedere la verità biografica», poiché «la verità non è praticabile» e «gli uomini non la meritano» – tenta di avvicinare Freud, perché la verità può essere solo un tentativo di avvicinamento. Durante questo lavorio attorno Freud, Fachinelli mostra i volti parziali dello psicanalista viennese: personaggio dickensiano pieno di rivalse, materialista giurato, discepolo di Paracelso e Novalis, narratore origliante, malinconico nichilista, uomo che teme il dono e la gratitudine.
Colui che più ha indagato il soggetto, ne riconosce infine la natura di
maschera.
 

http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/30/freud-il-conquistador/796547/

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

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