DARIO ARGENTO, ARRIVA L’AUTOBIOGRAFIA: RACCONTO LA MIA VITA DA… “PAURA”
di Redazione, gds.it, 1 novembre 2014
Non poteva che chiamarsi ‘Paura’ l’autobiografia di Dario Argento: 349 pagine in cui il ‘maestro del brivido’ racconta se stesso in maniera dettagliata, senza censure: la sua infanzia, la sua famiglia, i suoi film, gli amori, le passioni, le inquietudini e le paure. Dall’incontro dei suoi genitori all’infanzia passata nello Studio Luxardo dove spiava le grandi attrici come Sophia Loren che posavano per gli scatti della madre, all’uscita del suo primo film ‘L’uccello dalle piume di cristallo’ degli anni ’70 passando per i successi come ‘Profondo rosso’ e ‘Suspiria’ fino ai tempi più recenti. Il libro, edito da Einaudi, è stato presentato ieri alla libreria Feltrinelli di piazza Colonna a Roma, nel giorno di Halloween.
«Ho deciso di scrivere questo libro per raccontare la verità sulla mia vita. Sono state scritte così tante cose su di me, alcune false, alcune troppo approssimative. Ho sentito il bisogno di fermarmi, riflettere sul mio passato e scrivere senza pudore nè vergogna la mia vita» rivela Argento nella piccola sala gremita di fan. È proprio nella prefazione della sua biografia che il regista racconta un momento molto intimo della sua vita: quando si è trovato «sull’orlo del suicidio».
Era l’inverno del ’76 e viveva in una suite dell’hotel Flora a via Veneto a Roma. Dopo una festa con attrici e collaboratori, il maestro del brivido scrive di essere stato attratto dalla porta finestra, con un richiamo simile a quello che udì Ulisse dalle sirene. Scrive di aver provato una fortissima voglia di gettarsi nel vuoto. Per questo, continua Argento nel libro, aveva deciso di barricarsi nella sua stanza spostando i mobili davanti alla porta finestra e chiedendo ai camerieri di non spostare nulla. In un’ora davanti ai suoi fan, Argento racconta con tono pacato e sguardo basso alcuni segreti e alcune manie della sua vita. «Avevo l’abitudine di chiudermi nelle stanze di albergo con il mio collaboratore di fiducia per scrivere. Ricordo che tenevo sempre la finestra aperta perchè ero convinto che i pensieri, i sogni e le paure delle persone fossero come qualcosa di materiale, una sorta di nebbia emanata dalle loro teste che vagava per la città. Per questo, tenendo la finestra aperta, pensavo che potessero fluttuare nell’aria ed entrare nella mia stanza per ispirarmi» spiega sorridendo.
Un personaggio molto importante per l’attività artistica di Dario Argento è Sigmund Freud. Il regista racconta come ogni volta che visita Vienna fa ritorno nella casa del padre della psicoanalisi. «Freud è stato un genio, i suoi studi sono stati fondamentali per l’arte e la letteratura moderna. Il sogno è il fondamento dei miei film, ricevo dei messaggi dai miei sogni che trascrivo nelle mie pellicole. I film come i romanzi, in fondo, non sono altro che dei sogni ad occhi aperti. La mia scrittura proviene dall’inconscio: è automatica, scrivo ad una velocità incredibile, come un fiume in piena. Quando poi il fiume si interrompe succede che magari per 15 giorni non scrivo nulla, poi riprendo. Vedo i personaggi come in un piccolo schermo che agiscono davanti ai miei occhi. Sono senza volto, che rimane sempre offuscato. Vedo questi film davanti a me e non mi resta altro che scrivere quello che vedo. Gli spazi dei miei film, invece, sono la topografia del mio inconscio» spiega.
Nella nota dell’autore alla fine del libro, si legge che molti episodi relativi all’ultimo periodo della sua vita, come la nascita del nipote o il sorgere dei dissapori con la figlia Asia, non hanno trovato spazio nel volume. Dario Argento sottolinea come tutto quel materiale avrebbe potuto dare vita ad un secondo libro. Chissà se l’artista onirico e visionario appassionato di trilogie non stia pensando di dare un seguito alla sua autobiografia.
http://gds.it/2014/11/01/dario-argento-arriva-lautobiografia-racconto-la-mia-vita-da-paura_255703
PERCHÉ L’AMORE NON È SOLTANTO DESIDERIO
di Anna La Rosa, Umberto Galimberti, d.repubblica.it, 1 novembre 2014
Non è forse l’amore di coppia l’amore più insano? La forma più egoistica d’amore perché cerchiamo forse solo l’amore per noi stessi, quello che non riusciamo a darci o quello che espande e conferma ciò che amiamo già di noi stessi? E se l’altro si innamorasse di ciò noi non amiamo, di ciò che noi occultiamo con efferata determinazione e ce lo rivelasse? Se lo rivelasse a noi che nell’amore di coppia cerchiamo solo conferme e non consentiamo all’altro (né a noi stessi) di deragliare in una spiaggia vergine, quella che nessuno calpesta, per fatica di asciugare il sudore di un cammino dove si affondano i piedi e ci sono spine inaspettate, ma si gode di sconosciuti anfratti? Glielo consentiremmo, allora, o lo tacceremmo di non amore? Nell’amore di coppia non si esclude forse per “mentito amore” l’amore? È amore che tutto include per tutto escludere in un’esclusività totalizzante che si nutre di sé ed espande un sé imprigionato, che invece vorrebbe disarcionarsi e librarsi rumoroso in esplorazione dentro l’altro che, da specchio, gli rivela celate verità e occultati piaceri incastonati in prigioni di rigidi principi. L’amore dentro una coppia dovrebbe avere il nome della scoperta, dove, nella protezione dell’amore, si è liberi di scoprirsi fragili dell’assoluta forza che ci riveste, brutti nella perfezione che ci ha confezionati, belli nella imprevedibilità dell’esserci comunque per l’altro. Nell’amore di coppia non dovremmo farci amare di un amore a noi sconosciuto, forse? Anna la rosa, mordicat@libero.it
L’amore è il luogo eminente dove si evidenzia la lacerazione caratteristica della natura umana, che da un lato desidera sicurezza, stabilità, continuità, e dall’altro l’avventura, la voglia di scoprire, il gusto del rischio di cui si alimenta la passione. Il bisogno di sicurezza lo impariamo da bambini ed è una condizione essenziale per poter crescere senza troppi traumi. Questa condizione infantile non ci abbandona mai e l’andiamo cercando in ogni relazione amorosa, che però il tempo, la quotidianità, la familiarità logorano. E allora nasce il desiderio dell’avventura, che vive la relazione di coppia come prigione, ma nello stesso tempo teme di avventurarsi nel mondo, dove ogni novità non è mai disgiunta dal rischio di perdere la stabilità, che è comunque un tratto rassicurante. «Guai a chi non ha casa!», diceva Nietzsche, anche se il richiamo di Kerouac on the road ci invita a rimetterci di nuovo sulla strada. Sulla strada incontriamo Freud che ci consegna un suo scritto, Contributi alla psicologia della vita amorosa, in cui si legge: «Dove amiamo non proviamo desiderio, e dove lo proviamo non possiamo amare». Perché? Ce lo spiega nel secondo incontro che facciamo Roland Barthes, che ci mette fra le mani i suoi Frammenti di un discorso amoroso, dove leggiamo: «Io desidero il mio desiderio, e l’essere amato non è altro che il suo accessorio». Troppo cinico? No, sulla strada non si è mai fedeli, perché a ogni incontro segue un addio. Di per sé la fedeltà non è un valore. Un valore semmai è l’amore. E quando in una coppia si dice “io non ti amo più”, chi parla? Il nostro Io o il nostro desiderio di avventura che ne ha preso possesso, portandoci su altre spiagge e altri lidi? È però vero che appartiene alla natura umana il desiderio di oltrepassare il dato, di sporgere oltre l’esistente, perché, a differenza dell’animale – che per il fatto di non conoscere l’amore, non ha storia, ma solo ripetizione come vuole il ciclo della natura – l’uomo non si rassegna alla natura, è sospinto oltre se stesso e oltre la sua storia raggiunta, da quella tensione in cui consiste amore. Che non è solo comprensione, condivisione, rispetto, suggello di fede eterna, ma anche tradimento di promesse fatte, naufragio di sogni svegliati, curiosità corrosiva e ideativa che fa nascere la storia (e le storie). Ma quando diciamo addio alla vita di coppia, siamo sicuri di aver visto l’altro fino al fondo della sua anima, al punto che più non ci stupisce, o siamo semplicemente attratti dalla gratificazione narcisistica di corpi e anche di anime che ci se-ducono (ci conducono a sé) per ritrovare alla fine di nuovo quella sicurezza da cui ci siamo congedati? Non dimentichiamo che amore è sì un’avventura del desiderio, ma anche un richiamo della casa. E qui sta la lacerazione che caratterizza la condizione umana e di cui si fa interprete amore. Scrive Freud: «L’uomo primitivo stava meglio perché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza».
http://d.repubblica.it/dmemory/2014/11/01/lettere/rispondeumbertogalimberti/186lette20141101691860186.html
AL TEATRO DUSE DI BOLOGNA IL VISITATORE DI ÉRIC-EMMANUEL SCHMITT CON ALESSIO BONI E ALESSANDRO HABER
Regia di Valerio Binasco. Da venerdì 14 a domenica 16 novembre 2014
da informazione.it, 1 novembre 2014
REGIA di Valerio Binasco.
Sipario:
venerdì 14 novembre 2014 ore 21.00
sabato 15 novembre 2014 ore 21.00
domenica 16 novembre 2014 ore 16.00
Ritroviamo la coppia Haber–Boni in questa commovente, dolce ed esilarante pièce di Éric-Emmanuel Schmitt, tradotta e rappresentata in 15 lingue in oltre 25 paesi Aprile 1938.
L’ Austria è stata da poco annessa di forza al Terzo Reich, Vienna è occupata dai nazisti, gli ebrei vengono perseguitati ovunque. In Berggstrasse 19, celeberrimo indirizzo dello studio diFreud (Alessandro Haber), il famoso psicanalista attende affranto notizie della figlia Anna, portata via da un ufficiale della Gestapo. Ma l’angosciata solitudine non dura molto: dalla finestra spunta infatti un inaspettato visitatore (Alessio Boni) che fin da subito appare ben intenzionato a intavolare con Freud una conversazione sui massimi sistemi. Il grande indagatore dell’inconscio è insieme infastidito e incuriosito.
Chi è quell’importuno? Cosa vuole? È presto chiaro che quel curioso individuo non è un ladro né uno psicopatico in cerca di assistenza. Chi è dunque? Stupefatto, Freud si rende conto fin dai primi scambi di battute di avere di fronte nientemeno che Dio, lo stesso Dio del quale ha sempre negato l’esistenza. O è un pazzo che si crede Dio?
Freud non crede in Dio, Dio non crede a Freud, ma entrambi guardano dalla stessa finestra la malattia dell’uomo, la pazzia del mondo. Credono ancora che l’uomo possa curarsi.
Sullo sfondo la sanguinaria tragedia del nazismo porta Freud a formulare la domanda fatale: se Dio esiste, perché permette tutto ciò?
NOTE DI REGIA di Valerio Binasco
“Da molto tempo la drammaturgia contemporanea ci ha abituati a pensare che le parole non servono più a niente. Che l’umanità è immersa in un buio silenzioso e che nessun dialogo è più capace di dire veramente qualcosa.
Per strano che possa sembrare, il Teatro per lungo tempo si è fatto portavoce di quel silenzio e lo ha trasformato in poesia, grazie a grandi commedie classificate dell’incomunicabilità. Autori comeSchmitt, invece, sono andati fieramente in tutt’altra direzione. Hanno continuato coraggiosamente a testimoniare una cieca fiducia nelle parole e una specie di devozione per l’umana dote del dialogo.
In questa commedia, come accadeva nel teatro di tanto tempo fa, le parole sono importanti e l’autore sembra coltivare la speranza che quando gli uomini si incontrano e si parlano possono, forse, cambiare il mondo.
C’è una fiducia buona, dentro questa scrittura. C’è un grande Sì, così come nella drammaturgia contemporanea, di solito, c’è un grande No. Questo Sì è la prima cosa che mi ha colpito de “Il Visitatore”.
È un testo coraggioso, che non ha timore di riportare in Teatro temi di discussione importanti come la Religione, la Storia, il Senso della Vita… Schmitt affronta questi temi in modo diretto, con l’innocenza di una sit-com, quasi. Eliminando qualsiasi enfasi filosofica, i suoi personaggi riescono ad arrivare dritti al cuore di problemi enormi e a portare con molta dolcezza, in questo viaggio, anche gli spettatori.
Il protagonista di questo viaggio è Sigmund Freud; lo vediamo vecchio, stanco, malato. È arrivato al capolinea della vita. Per le strade della sua adorata Vienna marciano i Nazisti e lui si prepara ad andare in esilio perché ebreo. È un uomo che si scopre disperato, dopo aver lottato tutta la vita contro la disperazione degli altri uomini.
Questo povero vecchio che, sebbene sia Freud, ci sembra in vero un povero vecchio qualsiasi e ci ispira una tenera pietà, riceve la visita di un inquietante signore: è un pazzo che dice di essere Dio in persona? O è Dio, che gioca a sembrare un pazzo? Oppure il mondo è in mano a un Dio che non è niente di più e niente di meno di un povero pazzo? E ancora: il Male, che qui è interpretato da uno dei suoi migliori rappresentanti (il Nazismo), è opera di questo visitatore che dice di essere Dio o è opera dell’Uomo? Eccetera eccetera. Ecco le domande cruciali, i dubbi sanguinosi che animano questa strana commedia. Si potrebbe pensare, a questo punto, che l’autore ci abbia regalato uno dei tanti inutili e tediosi drammi filosofici; ma non è così. Ci ha regalato invece una commedia brillante, che con eleganza conduce spesso al sorriso o al riso; che offre spunti di pensiero e di commozione con sorprendente leggerezza.
La casa di Freud è una casa qualsiasi, assediata dal buio e dalla follia del mondo. Quasi quasi, sembra casa nostra. Tutto si svolge in una triste notte di tanti anni fa, ma potrebbe essere, quasi quasi, anche stanotte. Niente è quel che sembra, questa notte: i canti nazisti a volte sembrano quasi belli, Dio sembra un matto qualunque e perfinoSigmund Freud sembra disperatamente ingenuo, come ciascuno di noi.
Il Visitatore è una rara commedia per attori, a patto che siano attori capaci di sprofondare totalmente nell’umanità fragile dei loro personaggi e capaci di evitare le insidie della retorica. Anche Dio, qui, è in fondo un “povero Diavolo”; e le domande vertiginose che questa commedia ci pone, sono da lasciare tutte, umilmente, senza risposta; tranne una, forse… Una risposta importante, a ben vedere, c’è, ed è questa: Sì. La domanda, però, dovrete farvela da soli.
Per info:
http://www.informazione.it/c/C3FAD5F6-3C00-4231-87F4-15623176DC6A/Al-Teatro-Duse-di-Bologna-IL-VISITATORE-di-eric-Emmanuel-Schmitt-con-Alessio-Boni-e-Alessandro-Haber
CONFINI
di Giuliano Castigliego, giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com, 2 novembre 2014
Il saldo migratorio Italia-Svizzera nel 2013 è stato di 12.400 persone, cifra che fa dell’ Italia il secondo paese europeo per emigrazione verso la Svizzera, dopo il Portogallo. “Più del 60% degli immigrati europei va infatti in Svizzera per lavorare” e “nel 2013 il saldo tra ingressi e uscite di cittadini comunitari è stato di 66.200, il livello più alto dal 2002“, anno dell’introduzione dell’accordo sulla libera circolazione delle persone tra Svizzera e Unione Europea. Lo stesso accordo che il popolo svizzero con il referendum del febbraio scorso ha deciso di abrogare e di rivedere introducendo i “contingenti”.
Per l’Italia è il triste ritorno all’emigrazione, anche se con connotati molto diversi da quelli del passato. Negli anni 60/70 la Svizzera – e gli altri paesi meta di emigrazione – aspettavano, come riassumeva nel suo celebre aforisma Max Frisch, braccia. Ora espatriano soprattutto cervelli. Allora come oggi, arrivano però, come concludeva Max Frisch, uomini e donne, con bisogni e aspettative difficilmente contingentabili. Appartengono a quelle generazioni (X, Y, Millenials) che vogliono sfuggire non solo alla mancanza di lavoro ma anche a una certa italiana mancanza di cultura del lavoro – come testimoniano ad es. i racconti dei giovani talenti ai microfoni di Sergio Nava. Sono per lo più nativi digitali – più raramente migranti digitali – che si trovano generalmente a loro agio in un mondo globalizzato dove i confini sono cambiati e hanno cambiato significato.
Dopo la caduta delle frontiere politiche e geografiche, vengono abbattute anche quelle tra i vari campi del sapere; i confini tra scienze naturali e scienze umane si sono progressivamente ridotti. L’esempio più evidente è costituito dalle neuroscienze. La psicoanalisi, il cognitivismo e la neurologia dopo essersi spiati, più che guardati, in cagnesco per oltre 100 anni hanno cominciato negli ultimi decenni a comunicare tra loro dando vita, con le neuroscienze, a una delle più affascinanti sfide della nostra epoca, la comprensione del nostro cervello e di noi stessi. Non a caso il bellissimo libro di Merciai e Cannella (così come il loro aggiornatissimo blog) è dedicato a La psicanalisi nelle terre di confine Il digitale dal canto suo non solo ha ridisegnato le frontiere tra pubblico e privato ma ha anche dato nuovi contorni – e modalità di narrazione – alle diverse parti di noi stessi, così come al loro rapporto con quelle altrui costringendo il nostro io a varcare nuove frontiere di aggregazione ed individuazione. Provenienti da una tradizione di disintegrazione dell’io che risale almeno al barocco, ci intratteniamo ora come frammentarie chimere onlife sui social media. L’intersoggettività è la cifra della nostra epoca e si riflette, variamente declinata, dalla filosofia alla psicoterapia alle neuroscienze ai Social networks. Ai solidi, rigidi e contrapposti concetti di soggetto e oggetto, è subentrata la relazione flessibile tra pari che si costruiscono interagendo e modulandosi reciprocamente.Gallese, uno degli scopritori di quei neuroni specchio che costituiscono una delle basi neurofisiologiche dell’intersoggettività – sintetizza così :
“non nasciamo autistici e poi scopriamo che c’è anche l’altro, imparando a socializzare. L’altro è già fin dall’inizio co-presente. Impariamo a divenire chi siamo attraverso un processo di co-costruzione che deriva dalla possibilità di incontrare l’altro in maniera competente con gli strumenti neuronali giusti che funzionano correttamente”
Ma se siamo il prodotto intersoggettivo delle nostre relazioni, se the Smartest Person in the Room is the room e la condivisione sui social media è il nuovo imperativo categorico – al punto che lo slogan della Missionary Church of Kopimism è ‘‘Information is Holy. Code is Law. Copying is Sacrament.’’ – che significato assume oggi il confine, la frontiera?
Uno splendido Magris – forse meno ammirato dai maturandi che ne hanno dovuto commentare il testo da dietro la frontiera dei loro banchi – scrive
“Non c’è viaggio senza che si attraversino frontiere – politiche, linguistiche, sociali, culturali, psicologiche, anche quelle invisibili che separano un quartiere da un altro nella stessa città, quelle tra le persone, quelle tortuose che nei nostri inferi sbarrano la strada a noi stessi. Oltrepassare frontiere; anche amarle – in quanto definiscono una realtà, un’individualità, le danno forma, salvandola così dall’indistinto – ma senza idolatrarle, senza farne idoli che esigono sacrifici di sangue.” (L’infinito viaggiare)
È intuibile il desiderio normativo e d’appartenenza che ci porta ad amare le frontiere geografiche e mentali, fino all’eccesso, all’idolatria, alla xenofobia e al razzismo. O anche alla nevroticamente rassicurante lode del buon tempo (analogico) antico, in cui “anche il futuro era migliore”.
Ma qual è l’origine della frontiera e cosa ci aiuta a superarla? Il pediatra e psicoanalista Winnicott, ancora in epoca pienamente analogica, scriveva che “il luogo in cui è localizzata l’esperienza culturale giace nello spazio potenziale tra l’individuo e l’ambiente (originariamente oggetto).” e che “lo stesso si può dire anche del gioco” poiché “l’esperienza culturale comincia con la vita creativa, che si manifesta dapprima nel gioco”
“The potential space between subject and object is where, for the infant, play takes place. The potential space is an area of intermediate experiencing that is between inner and outer worlds”
L’oggetto di gioco consente al bambino – aggiunge ancora Winnicott – “di entrare nel campo dell’illusione, passando dal soggettivo (creato dal bambino) all’oggettivo (rinvenuto nell’ambiente). L’oggetto transizionale ha la specifica capacità di cambiare il ‘dato’ in ‘creato’”. Ma tale spazio potenziale si costituisce solo all’interno di un sentimento di fiducia da parte del bambino reso possibile dall’affidabilità della madre e dell’ambiente circostante.
Questa è forse la prima decisiva frontiera, il confine che riusciamo a superare grazie alla nostra creatività giocosa, ad un oggetto che fa da ponte tra noi e il mondo e alla rassicurante presenza di una persona sensibile ed affidabile nelle “retrovie”. Le condizioni di questo primo superamento della frontiera plasmano anche i nostri stili relazionali successivi e le nostre successive escursioni nel mondo e con gli altri, a cavallo tra esplorazione e sicurezza.Come dice Bowlby
“All of us, from the cradle to the grave, are happiest when life is organized as a series of excursions, long or short, from the secure Base provided by our attachment figures”
Osservando ora le “esplorazioni” di connazionali da poco emigrati in Svizzera sono talvolta divertito dalla più o meno marcata irritazione che in loro suscitano la neutra, ipomimica, silenziosa introversione svizzera, la pedanteria delle regole esposte con sorriso perennemente garbato, le invece energiche, anzi bellicose salse svizzere capaci di uccidere ogni gusto originale. Ma vent’anni fa, quando sono arrivato in terra elvetica, ero tutt’altro che divertito e ho impiegato anni per superare queste ed analoghe banalità – per non dire dello schwiezerdeutsch – prima di apprezzare appieno la correttezza, l’obiettività, la tolleranza e la sincerità che mi sono state offerte e mi hanno consentito una vita e una carriera priva di raccomandazioni, ingerenze, pressioni, paternalismi, gravi arbitrii.
Credo che il superamento delle frontiere passi anche – per fortuna non solo – attraverso queste banalità, che ci rendono peraltro umani e ci aiutano a capire tempi, modi e limiti delle nostre capacità di oltrepassare i confini ma ci aiutano anche a vedere le frontiere stesse come limitate, provvisorie, sempre mutevoli. Scrive ancora Magris:
“Saperle [le frontiere] flessibili, provvisorie e periture come un corpo umano, e perciò degne di essere amate; mortali, nel senso di soggette alla morte, come i viaggiatori, non occasione e causa di morte, come lo sono state e lo sono tante volte.”
Siamo attualmente di fronte a confini e sfide affascinanti ed impegnative, quali quella del digitale, che richiedono mezzi anche teorici adeguati
“The power and ubiquity of the Internet and ICTs transforms the meanings of culture in the contemporary world with implications for mental health and illness (Barak, 2008; Silver & Massanari, 2006). To explore this new terrain, cultural psychiatry requires new theoretical models and research methodologies that include digital ethnography“
Credo che nel bagaglio analogico per questo viaggio nel noto e nell’ignotodel digitale non ci stiano male un po’ della consapevolezza umana di Magris e della giocosa creatività dei bambini.
http://giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com/2014/11/02/confini/
L’UOMO CHE PROVÒ A CAPIRE IL CERVELLO
di Riccardo de Sanctis, ilsole24ore.com, 2 novembre 2014
Negli ultimi anni le analisi del suo pensiero, ma soprattutto le polemiche non sono mancate. Alcune ferocissime come quelle provocate nel 2011 dalla pubblicazione de Il Crepuscolo di un idolo del filosofo francese Michel Onfray.
Alle leggende dorate si sono contrapposte quelle nere. L’inventore della soggettività, dell’io moderno, è stato spesso trasformato in un ciarlatano, un incestuoso, un imbroglione, un fascista… Chi era veramente Freud? Per comprendere l’uomo piuttosto che giudicarlo era necessario ricollocare la psicanalisi e il suo ideatore nel suo contesto storico.
È quello che ha fatto la storica della psicanalisi Élisabeth Roudinesco dell’Università Parigi VII – Diderot con il suo Sigmund Freud en son temps et dans le nôtre uscito l’11 settembre scorso in Francia per le edizioni Seuil. Più di cinquecento pagine ricche di fatti e di testimonianze, che si leggono come un romanzo.
La Roudinesco ha potuto accedere agli archivi di Freud alla Library of Congress di Washington, aperti dopo trent’anni di battaglie fra le varie associazioni psicanalitiche. E ha potuto chiarire molte questioni controverse. Non esiste – ad esempio – alcuna traccia di una relazione con la cognata Minna, ed è fuori di dubbio l’avversione di Freud per ogni dittatura.
Per continuare:
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2014-11-02/l-uomo-che-provo-capire-cervello-081439.shtml?uuid=ABmrsS9B
LETTERA DI AUGURI
di Vittorio Lingiardi, ilsole24ore.com, 2 novembre 2014
Virginia Woolf e Sigmund Freud si sono incontrati una sola volta. Nel diario del 29 gennaio 1939 lei annota: «Un uomo vecchissimo, contratto e rinsecchito: con un lampo di furbizia negli occhi, movimenti spasmodici paralizzati, difficoltà a esprimersi: ma vigile. Un potenziale immenso, un fuoco antico che si sta spegnendo». I Woolf erano gli editori inglesi di Freud, e di questo incontro ne scriverà anche il marito Leonard: «Quasi tutti gli uomini famosi sono deludenti o noiosi, o entrambe le cose. Freud nessuna delle due: lui aveva un’aura, non di fama, ma di grandezza.
Per continuare:
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2014-11-02/lettera-auguri-081432.shtml?uuid=ABqnsS9B
LE SUE CONQUISTE PER TUTTI
di Thomas Mann, Romain Rolland, Jules Romains, H.G. Wells, Virginia Woolf, Stefan Zweig, ilsole24ore.com, 2 novembre 2014
«Sir: L’ottantesimo compleanno di Sigmund Freud ci dà la gradita opportunità di porgere le nostre congratulazioni e i nostri omaggi al Maestro le cui scoperte hanno aperto la via a una nuova e più profonda conoscenza del genere umano. Ha contribuito in maniera eminente alla medicina, alla psicologia, alla filosofia e all’arte ed è stato per due generazioni il pioniere nell’esplorazione di regioni finora sconosciute della mente.
Per continuare:
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2014-11-02/le-sue-conquiste-tutti-081445.shtml?uuid=ABKctS9B
IL CAMBIAMENTO E L’ARTE DI SAPER ANDARE VIA
di Marina Valcarenghi, Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2014
Le cose cambiano e noi con loro, così succede che anche i rapporti possano trasformarsi e anche morire. E allora delle due l’una: si può trovare il coraggio qualche volta crudele di accettare la legge del cambiamento per andare avanti o si può fare finta di niente e mantenere in rianimazione il passato per molti e anche ragionevoli motivi, come per esempio la sicurezza economica, la difesa della famiglia, certe consolanti abitudini, certi ricordi, la paura di sbagliare, l’attaccamento a una dipendenza, un imperativo morale e anche l’incertezza del dopo.
Ma qualche volta si attiva un’altra forza inerziale ed è la difficoltà di accettare quello che viene vissuto come un fallimento. “Ho dato così tanto per questo progetto, non sopporto che tutto debba finire” “Sono stato dieci anni con lei, non posso buttarli via”.
Non credo che esistano decisioni giuste o sbagliate e ognuno cerca di vivere come vuole e come può, ma dal punto di vista psicologico questa paura del fallimento mi sembra un errore. Quello che abbiamo vissuto è parte di noi e quando un’esperienza si conclude non se ne butta via il valore; non c’è sconfitta in una fine, ma il riconoscimento che la vita è dinamica, ha un suo movimento nel quale ci si trova e ci si perde.
Un viaggio non è sbagliato perché finisce, un lavoro non è stato un errore perché è tempo di fare altro: tutto quello che abbiamo visto, capito, amato, tutto quello che ci ha dato gioia o dolore, e tutte le sorprese in quel viaggio e in quel lavoro, come in quella città e in quell’amore, rimarranno incisi per sempre dentro di noi, comunque. Ma che si vada o che si resti ci è compagna la malinconia.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/11/08/il-cambiamento-e-larte-di-saper-andare-via/1200509/
LA STORIA DI FREUD NE ‘IL VISITATORE’ DI SCHMITT. Caracciolo illustra in Ariostea il ‘divertissement’ che riporta con ironia alle persecuzioni razziali
di Redazione, estense.com, 4 novembre 2014
Non è la prima volta che Freud compare come personaggio. Sartre scrisse una memorabile ricostruzione dei suoi anni viennesi per un film che poi John Houston realizzò ma ignorando la sua sceneggiatura (“Freud’s Secret Passion”, 1962); Nanni Moretti lo portò al cinema in un buffo e irriverente sfogo in ‘Sogni d’Oro’, dal 2009 a Broadway; e poi, in vari teatri degli Stati uniti d’America, sta spopolando “L’Ultima Seduta di Freud” di Mark St. Germain, ambientato a Londra negli ultimi anni di vita del maestro viennese.
Ma la storia di Freud ne ‘Il Visitatore’ non è solo un ‘divertissement’ che riporta con tutta l’ironia e la leggerezza possibili alle persecuzioni razziali, alla Vienna della Anschluss e agli orrori della Gestapo e dei forni crematori: si tratta anche e soprattutto di una profonda e trasfigurata conversazione sull’esistenza di Dio e del male del mondo, sulla ‘ragione’ e la ‘follia’, sul mondo della ‘realtà’ e quello del ‘sogno’, alla ricerca di una verità che si traveste da menzogna, sulla vita e sulla morte. Indimenticabile, inarrestabile, imperdibile.
http://www.estense.com/?p=419195
SOCIAL NETWORK, VITA DA SPETTATORI
di Luigi Ballerini, avvenire.it, 5 novembre 2014
L’effetto sarebbe analogo a quello di guardare dalla vetrina gli avventori di un ristorante che mangiano soddisfatti e contenti mentre noi si resta affamati e al freddo sul marciapiede.
Questa angoscia pare colpisca soprattutto i giovani, le cui esistenze sono così immerse e impastate dentro i social network, ma non risparmia gli adulti nel processo di adolescentizzazione che è da tempo in corso nella società. Ci sono alcuni non detti, però, rispetto a questa (presupposta) nuova sindrome.
Per continuare:
http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/SOCIAL-NETWORK-VITA-DA-SPETTATORI-.aspx
HABER E BONI INAUGURANO LA PROSA AL COMUNALE
di Redazione, estense.com 5 novembre 2014
Nell’aprile del 1938, in un’Austria da poco annessa con la forza al Terzo Reich, Haber è un ormai anziano Freud, debilitato dal cancro alla gola di cui presto morirà. Nel suo studio al numero 19 di Berggstrasse, lo scienziato ebreo attende angosciosamente notizie della figlia Anna, arrestata da un ufficiale della Gestapo davanti ai suoi occhi, quando dalla finestra irrompe un inaspettato visitatore. Potrebbe essere un mitomane, un senzatetto: eppure sembra conoscere ogni segreto del padre della psicanalisi, il quale, stupefatto, capisce ben presto di avere di fronte nientemeno che quel Dio di cui ha sempre negato l’esistenza.
La sfida, per la compagnia, è quella di «portare temi alti come la fede, il mistero, il destino a un pubblico più ampio possibile», sfruttando la popolarità cinematografica e televisiva degli interpreti. «Io interpreto un uomo le cui certezze, dopo un’esistenza dedicata allo studio, vanno sgretolandosi», commenta Alessandro Haber. «Poco alla volta Freud comincia a credere – aggiunge – anche se il finale resta a mio avviso aperto. A vincere è l’amore, la luce del bene che deve illuminare credenti e non credenti». Ad Alessio Boni, invece, il difficile compito di interpretare Dio. «Il regista Binasco ha scelto di rappresentare questo Dio come uno di noi, che si mescola ai nostri dubbi, alle nostre sofferenze, al nostro desiderio di assoluto», spiega. «Ho aderito fortemente a questo progetto perché c’è bisogno di tornare a interrogarsi sull’uomo in questo profondo momento di crisi, non solo economica, ma morale. Siamo fagocitati da una società che ci travolge con i suoi ritmi, che ci spinge a correre, lavorare e comprare senza lasciare il tempo per riflettere su chi siamo». A Binasco, dunque, il merito di aver riproposto un testo solo una volta rappresentato in Italia (con Turi Ferri, Kim Rossi Stuart e regia di Antonio Calenda), in una sfida all’intontimento televisivo delle menti e dello spirito. Per ribadire la fiducia nel potere delle parole, e nella capacità che esse hanno ancora di creare rapporti tra gli esseri umani.
Lo spettacolo sarà in scena al Teatro Comunale giovedì 6 novembre alle 21 (turno A), venerdì 7 novembre alle 21 (turno B), sabato 8 novembre alle 21 (fuori abbonamento) e domenica 9 novembre alle 16 (turno E). Biglietti da 8 a 30 euro.
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LEOPARDI E LA COMPASSIONE. INTERVISTA CON ANTONIO PRETE
di Anna Stefi, doppiozero.com, 6 novembre 2014
Ho appuntamento con Antonio Prete alle 16.30, in città studi. Mi muovo con largo anticipo, con quel misto di desiderio e ansia che mi impegna, mi distrae, mi porta sempre a nuove questioni, e so che per la quantità di dubbi che mi sono appuntata non basterebbero giorni di conversazione. Antonio Prete ha insegnato a Parigi e a Yale, al Collège de France e ad Harvard, e ancora a Montpellier, Salamanca e soprattutto, per molti anni, a Siena. Sono innumerevoli i suoi contributi a riviste letterarie e filosofiche: «aut aut», «Il piccolo Hans», «Il semplice», «l’immaginazione»; nel 1989 ha anche fondato e diretto una bellissima rivista semestrale di letteratura e poesia, «Il gallo silvestre», durata fino al 2004. Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi (Feltrinelli, Milano 1980) è il primo suo libro che ho incontrato, una riflessione attorno allo Zibaldone: la Natura, il desiderio, il rapporto tra filosofia e letteratura. Un libro importante, che ha cambiato il modo di leggere il poeta di Recanati, cui ha poi dedicato altri volumi, come Finitudine e Infinito. Su Leopardi(Feltrinelli, 1998), o Il deserto e il fiore. Leggendo Leopardi (Donzelli, 2004). Studioso, poi, di Charles Baudelaire e Edmond Jabès, di cui è anche traduttore (bellissimo, sulla traduzione, il suo All’ombra dell’altra lingua. Per una poetica della traduzione, Bollati Boringhieri, Torino 2011). Dopo aver curato un’antologia sulla nostalgia (Nostalgia. Storia di un sentimento, Raffaello Cortina, 1992), ha pubblicato, per Bollati Boringhieri, il Trattato della lontananza (2008) e Compassione. Storia di un sentimento (2013).
È questo libro l’occasione – o la scusa – per cui sono venuta a incontrarlo, un libro ricchissimo, che attraversa le figure della compassione nella letteratura, nella filosofia e nella storia dell’arte, intrecciando autori, riflessioni, voci, immagini; Dante, il tema della pietà e quello della misericordia, Leopardi, Antigone, Baudelaire, leimago pietatis, le metamorfosi, Schopenhauer, Dostoevskij, Nietzsche, Kafka, Kant, Shakespeare. Quando lo incontro, è dalle vie e delle case di Milano che iniziamo a parlare. Ascolto della sua Milano negli anni Settanta, dei suoi interlocutori e amici di allora, di Gianni Celati, che ha rivisto pochi giorni prima, attraversando a piedi alcuni dei luoghi di Verso la foce, dell’insegnamento nei Licei e poi all’Università, delle riviste. Ascolto, attraversata dalla nostalgia per luoghi di scambio, per momenti di condivisione e di confronto, ora che le università lo sono troppo poco. Forse, come allora, è alle riviste che bisogna affidare questa ostinata resistenza. Interrogarsi, ascoltare, mettere insieme i saperi. È Leopardi il punto di avvio per le mie domande, perché è dalle dense pagine dedicate al poeta che sono nate molte delle questioni che mi sembra più urgente affrontare, e perché è di Leopardi che ho voglia di sentirlo parlare.
Lei a un certo punto nelle pagine del suo volume sulla compassione dedicate a Leopardi scrive: “il debole è estraneo alla compassione”: solo chi è forte può compatire, conserva un legame con la felicità possibile. Bisogna aver fatto esperienza del dolore e tuttavia esserne risaliti. Forse allora non c’è compassione, oggi, perché è venuto a mancare questo doppio movimento? Perché viviamo nella società del lamento?
Leopardi fa una scheda, negli Indici, sulla compassione. Per lui era un tema importante, e nel tempo oscilla tra posizione diverse. Questo che lei dice è sostanzialmente l’asse portante di queste oscillazioni, che derivano dagli spostamenti di sguardo: più sul soggetto compassionevole, o più sull’altro, o più sul sentire il dolore dell’altro in rapporto al proprio, o ancora sulla condizione in cui uno si trova – giovane, vecchio – nel momento in cui deve provare compassione. Questa, del resto, è una costante dello Zibaldone, che ha una variabilità enorme di poli di osservazione: è un sistema, ma un sistema fatto di frammenti, che si modifica nel tempo; la mobilità del punto di vista diventa mobilità del pensiero e occasione di costruzione di un sapere costantemente esposto alla sua ripresa, alla sua autocritica, alla sua riformulazione, al suo ripensamento. Da questo punto di vista lo Zibaldone non è ottocentesco, ma moderno, è già nel Novecento, vicino ai Cahiers di Valéry, anche se all’origine di quel modo di interrogarsi c’è Montaigne, con gli Essais. Tornando alla compassione, lo sguardo di Leopardi è legato a delle domande che lui si fa su questo sentimento, e in questo senso sarebbe possibile ricostruire una sorta di trattato sulla compassione, trattato che Leopardi non avrebbe mai composto ma che era certo nella sua mente quando ha costruito gli Indici, visto quel richiamare i frammenti sparsi attorno a campi tematici. Sono più di cento i luoghi diretti o indiretti sulla compassione, insomma un libro disseminato nello Zibaldone. Si tratta di un campo di domande mobile, vivo, che ci interroga ancora oggi.
La questione riguarda la possibilità che il soggetto ha di comprendere l’altro. Che è poi quello che lei scrive in relazione al legame tra compassione e amor proprio. Insomma non si esce dall’egoismo o Leopardi ci dice qualcosa diverso?
Il punto diventa proprio come può il soggetto essere prossimo all’altro senza che questo provochi in lui un senso di compiacimento, di orgoglio, senza che si resti insomma nel tempo e nello spazio di un amor proprio inteso come recinzione del sé. Per Leopardi nell’amor proprio c’è anche il principio che spinge verso un ex-sistere, un essere fuori di sé. Fino a che si resta all’interno di un amor proprio che riconduce tutto a se stessi, non è possibile la compassione: per questo essa è considerata da Leopardi sentimento raro. Un sentimento, per esempio, che appartiene solo a certi gesti dell’eroe greco. Achille è compassionevole solo dopo esser stato spietato, solo quando vede nei capelli bianchi di Priamo, padre di Ettore, il proprio padre, e ritorna così alla propria condizione di figlio: cancella l’essere guerriero e sopravviene una dimensione altra, dimensione nella quale si iscrive il gesto di compassione. Per Leopardi dunque la compassione ha a che fare con l’amor proprio, come tutti i sentimenti, ma è capace di forzare l’amor proprio verso una condizione in cui la rappresentazione dell’altro prende campo, presenza, si fa domanda e prossimità. È un passaggio sottile, questo per il quale l’amor proprio può trasformarsi e generare il sentimento profondo dell’altro, della condivisione, della sofferenza con l’altro, insomma del patire insieme. Allo stesso modo è possibile che l’amor proprio generi l’amore: anche il sentimento dell’amore è fondato sull’amor proprio, ed è amore vero – se è possibile una verità dell’amore – quando questo non torna su se stesso, provocando compiacimento, piacere di sé, uso dell’altro, ma quando, uscendo fuori di sé, tocca l’estremo della propria condizione. Quando diciamo amor proprio per Leopardi diciamo desiderio. L’amor proprio ha in sé il movimento del desiderio, che è espansivo, aperto, incolmato, e tocca per questo l’estremo, l’impossibile.
Infatti, sempre nel testo sulla compassione, scrive: “ma si vedrà che dire della compassione per Leopardi è quasi sempre muoversi nella terra smossa e inesplorata del desiderio”. Cioè questo ha a che fare con l’espansione, intesa come spazio vitale?
Sì, anche se consuetamente l’amor proprio, da un punto di vista delle relazioni umane, è spesso osservato come movimento verso l’egoismo, fonte, dunque dell’interesse verso di sé, ritorno a se stesso, rappresentazione di sé. Ma al tempo stesso questo amor proprio ha in sé la possibilità di evitare questo ritorno su di sé, e di muoversi sull’onda espansiva del desiderio. E il desiderio è movimento verso l’altro. Desiderio di una condizione in cui il sé e l’altro siano in una relazione di equilibrio. Per fare questo l’amor proprio deve spingersi fino al limite del sé, in una sorta di punto estremo, sulla cui soglia la presenza dell’altro, del suo volto, e anche della sua pena, si affaccia come figura della stessa appartenenza creaturale, vivente tra viventi. Questo movimento che disloca non solo l’amor proprio ma il pensiero stesso verso un punto estremo, verso un punto di lontananza, è un principio di teoresi e di conoscenza in Leopardi. Ricerca di un punto di lontananza da cui guardare il mondo e anche se stessi, il teatro della propria interiorità. Leopardi lo fa visivamente: ecco l’operetta Elogio degli uccelli, la quale, descrivendo la leggerezza e il canto degli uccelli, la loro vista dall’alto, ci parla della liberazione dei sensi intorpiditi, resi atrofizzati dall’incivilimento. Ma Leopardi compie questo movimento di dislocazione del punto di vista anche nel senso di uno spostamento verso la soglia della anteriorità, un’anteriorità declinata nel fanciullo, nell’antico, nell’animale. Ecco lo sguardo frequente sulla fanciullezza come condizione nella quale è possibile cogliere il vivente, il fatto che tutto è vivente, tutto ci parla e noi parliamo con ogni cosa, sentiamo la vita delle cose, un cosmo animato. Per questo si tratta di restare “fanciulli” fino alla morte, cioè portare uno stato di incantamento, e un senso del vivente, nella conoscenza, in tutte le forme della conoscenza. Questa anteriorità è anche declinata, dicevo, come antico, sia come comparazione (tutta vichiana) dell’antico con il fanciullo, sia come ascolto di quell’antico affidato alla prima poesia, poesia prossima alla natura, alla sua vita, sia ancora come dislocazione dello sguardo verso il pensiero proprio di un filosofo antico. Sono le note pagine dello Zibaldone, datate 22 aprile 1826, da Bologna, nelle quali Leopardi descrive per dir così la universalità del male (“Tutto è male”). In quelle pagine egli descrive anche la bellezza di un giardino (“Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori…”) come esplosione di luce e colori, un giardino “ridente”, e tuttavia, insieme, attraversato dal patimento: la donzelletta che calpesta i fiori non sa che essi stanno soffrendo, che sono vivi. Questo passo, indicato come il luogo dove Leopardi mostra come il male prenda il cosmo intero, ha come centro una frase spesso omessa nelle citazioni: “Si potrebbe esporre e sviluppare questo sistema in qualche frammento che si supponesse di un filosofo antico, indiano ecc.”. Questo sguardo sul tutto vivente, sul tutto sofferente perché vivente, è per Leopardi uno sguardo dislocato verso l’antico o verso l’oriente. Tutto il pensiero leopardiano cerca costantemente questo punto di lontananza estremo; così è nella Ginestra: è osservando le stelle fiammeggianti in lontananza che la terra appare come un granello di sabbia, e le magnifiche sorti e progressive si mostrano nella loro vuota presunzione; così la fiducia nella civiltà, nella sua promessa di felicità, è scossa dalla considerazione della finitudine in cui è il vivente, esposto alla minaccia della distruzione. Da qui il sapere della morte, il sapere della fragilità come respiro del vivente: E questo, nella sparente leggerezza, nel profumo della ginestra, nel “sorriso” della poesia.
Inoltre, l’amor proprio che si spinge fino al punto estremo, fino al punto in cui sta sulla soglia e quasi fuori se stesso, come se dovesse compiere una sorta di ascesi, di meditazione fino alla perdita del senso di sé, potrebbe aprire una linea di riflessione su quel “sedendo e mirando” dell’Infinito, una sorta di movimento di espansione della coscienza che arriva sino al margine del rappresentabile. Si tratta in quel caso di portare il pensiero fino alla soglia estrema in cui possa rappresentare l’irrappresentabile, dove la lingua e i sensi sperimentano l’impossibilità di sentire l’infinito, e c’è il naufragio: che è naufragio della lingua, dei sensi, della poesia stessa. L’infinito non entra nella parola, nella lingua, o, se entra, è soltanto parola, è soltanto lingua, e non è più infinito. Anche per la compassione vi è questo movimento: è un sentimento estremo, possibile come è possibile avere percezione che l’infinito è irrappresentabile, fare esperienza di questa irrappresentabilità. Si tratta del massimo movimento che la poesia possa compiere. È per questa ragione che quello di Leopardi è un pensiero poetante: il poeta porta il pensiero sino al limite dove anche la poesia, con la sua lingua, si spinge. Poesia e pensiero si incontrano in queste domande estreme, nelle domande che più importano.
Tornando alla compassione, essa è punto estremo dell’amor proprio e quindi del desiderio, che è un bisogno di vita, vita che si espande incontrando il mondo, gli altri. Il desiderio non è solo nell’amore, è desiderio come θυμός, thumos, vicino alla trieb freudiana (che poi, in Freud, si rovescia nella morte, si piega nell’inorganico). La compassione è il desiderio che portandosi all’estremo del campo di orizzonte del sé, dimentica di tornare a sé e incontra l’altro nella sua sofferenza, nella sua gettatezza, lo incontra dove si mostra nella forma più fragile, disarmata, esposta. Incontrando l’altro nel dolore, il soggetto può tornare a sé, riconoscendosi la stessa fragilità. Torna a scoprire un sé di cui, Leopardi dice, può avere compassione.
Per continuare e vedere le immagini correlate:
http://www.doppiozero.com/materiali/compassione/conversazione-con-antonio-prete
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Massimo Recalcati a “Che tempo che fa”
Lo psicoanalista Massimo Recalcati presenta il suo ultimo libro “Ora di lezione”.
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-02ebf826-2818-480d-aba9-54f6f0fba584.html
Ferro: “Tradurre per diffondere la psicoanalisi italiana”
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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