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Novembre 2015 I – Forme di vita

19 Nov 15

A cura di Luca Ribolini

SIGMUND FREUD. UN DRAMMATURGO EREDE DI SHAKESPEARE. L’uso della cocaina, le sfide feroci con i colleghi, le lettere alla moglie. Il mito dello psicoanalista oggi sopravvive ancora in talent e serie tv

di Giancarlo Dimaggio, Il Corriere della Sera – La lettura, 1 novembre 2015
 
Leggo l’ultima biografia di Freud con una domanda che mi risuona nella testa: cosa ha permesso all’immagine di quest’uomo di sopravvivere con tanto successo alle sue stesse idee? Perché se a X-Factor Mika si improvvisa psicologo, neanche male, Fedez commenta: «Gli è stato infuso qualche gene di Freud durante la notte da qualche alieno»? Lo osservo agire.
Freud che scrive lettere alla futura moglie Martha, protestando perché non sente il suo amore casto ricambiato con la stessa intensità. Freud che sperimenta la cocaina confidando di stare per compiere una scoperta scientifica rilevante. Freud e l’avversario, il nemico-amico di cui sempre avrà bisogno, un doppio nel quale specchiarsi e un traditore dal quale difendersi. Lo stampo: il nipote John, compagno di giochi dell’infanzia. L’esempio più compiuto: Jung. Quasi li vedo a Brema, nel 1909, pronti ad imbarcarsi alla conquista dell’America. Al ristorante, Jung interrompe l’astinenza dal vino dopo anni. Freud lo interpreta come un atto di fedeltà a lui. A cena Jung racconta di leggende: corpi mummificati di uomini preistorici. Freud per tutta risposta ha una sincope. Al risveglio, spiega a Jung e Ferenczi, uno dei suoi allievi più brillanti — la psicoanalisi di oggi gli somiglia — che il racconto indica come in Jung alberghi il desiderio di un figlio di uccidere il padre. Jung reagisce rabbiosamente: accusa Freud di delirare. Sulla nave continuano un gioco che mille volte ho visto fare nei primi anni della mia formazione: l’interpretazione reciproca. Non richiesta. Un modo raffinato di insultarsi. Jung racconta un sogno: due crani umani sul suolo di una grotta. Freud insiste: desideri la mia morte. Jung dissentiva. Si delineava la rottura. Freud che in quello stesso viaggio si diverte all’idea di come le sue idee sulla sessualità umana avrebbero scandalizzato gli americani, ai suoi occhi anime semplici e puritane. A Central Park Freud ha un problema urinario, cose che in viaggio succedono. Jung rintuzza e interpreta: desiderio di attirare l’attenzione.
Nella biografia scritta, con troppi dettagli, da Élisabeth Roudinesco, Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro, scene come queste si susseguono senza pause. La costruzione della «Società psicologica del mercoledì». Le battaglie intellettuali contro gli eretici: Adler, Reich. Il senso perenne della scoperta, il piacere della costruzione di un sistema di pensiero. La hybris del non volerla ricondurre ad altro: non psicologia, non neurologia, non semplice filosofia. Psicoanalisi. Aveva l’intelligenza e l’ambizione sufficienti, e il carattere testardo e tirannico lo aiutavano. La curiosità febbrile della scoperta di un mondo nascosto nei meandri dei lapsus e dei sogni delle sue pazienti isteriche. La convinzione di offrire una cura efficace, potente, inaudita.

Segue qui:
http://www.stateofmind.it/2015/11/sigmund-freud-biografia/
Oppure:
http://materialismostorico.blogspot.it/2015/11/tradotta-la-biografia-di-freud-scritta.html
 
Oppure, in “Archivio” e seleziona come data della rassegna il 1 novembre 2015:
http://moked.it/rassegna-stampa/rassegna-login/
 

LEGGERE LA FANTASIA. «La lettura e la narrazione delle fiabe a lieto fine nutrono la speranza e potenziano l’autostima» 
di Giuseppe Maiolo, ladigetto.it, 1 novembre 2015

Si conclude la seconda edizione di «Libriamoci», iniziativa promossa dai ministeri della Scuola e della Cultura attraverso il Centro per il libro e la lettura che, aperta il 26 ottobre, vuole promuovere la lettura in classe, a voce alta, insieme. Un’idea che va nella direzione di far crescere l’amore per il libro e la lettura, per la narrativa e i racconti che alimentano l’immaginazione e fanno riconoscere le emozioni. E da piccoli le storie di cui hanno bisogno i bambini sono le fiabe o i racconti di magia che parlano alla fantasia.
Promuovere la lettura insieme allora vuol dire fare come un tempo quando le fiabe venivano raccontate non solo ai piccoli ma soprattutto ai grandi. Servivano per trasmettere informazioni da una generazione all’altra, per consegnare ai giovani il sapere dei vecchi. Ai bambini venivano utili per crescere e confrontarsi con le paure, per contenere il terrore e alimentare l’attesa e il desiderio. Così le storie fantastiche hanno affascinato tutti e durante l’ infanzia hanno affollato la nostra mente raccontandoci, come accade ancora oggi se le utilizziamo, i tormenti e gli ostacoli o le difficoltà di una vita. Perché queste storie alla fine parlano degli sforzi e delle fatiche che si compiono nel corso di qualsiasi processo di crescita e di individuazione. Raccontarle o leggerle serve a trasmettere con la lingua dei sogni, ovvero la metafora, la possibilità che andare oltre i problemi e non farsi bloccare dagli impedimenti.
 
Segue qui:
http://www.ladigetto.it/permalink/48583.html
 

GLI UOMINI SARANNO DÈI GLI UNI PER GLI ALTRI. Sull’antropologia di René Girard 
di Barbara Carnevali, leparoleelecose.it, 3 novembre 2015

[Due giorni fa è morto René Girard, uno dei maggiori antropologi e critici letterari del secondo Novecento. Il testo che segue è tratto da una conferenza pronunciata in occasione di un convegno su Girard alla Bibliothèque Nationale de France nel 2013. Una versione più elaborata è stata pubblicata sulla rivista «Tropos», VI, 2013, nel numero speciale Mimesis e Anerkennung
. La teoria mimetica in lotta per il riconoscimento, a cura di Emanuele Antonelli].
 
1. Riduzione antropologica e realismo
Gli esseri umani sono essenzialmente esseri desideranti, sostiene René Girard. Nel suo primo libro, Mensonge romantique et vérité romanesque[1], pilastro originario della sua antropologia rimasto probabilmente il suo capolavoro, il desiderio è il fenomeno fondamentale che struttura l’esistenza umana nella sua tensione teleologica, spingendo il soggetto a uscire da sé e a volgersi verso l’alterità, inserendosi nel tessuto delle mediazioni sociali. Il concetto di «désir métaphysique» indica una specie di desiderio trascendentale che rappresenta la condizione di possibilità dei desideri empirici particolari e infinitamente variabili: esso consiste nel desiderio, provato consciamente o inconsciamente da ogni individuo, di assimilarsi tramite l’imitazione a un modello divinizzato che appare superiore e incommensurabilmente prestigioso. Il principio che permette di accumunare tutte le forme specifiche di desiderio e di riconoscerle come espressioni dello stesso desiderio metafisico è il meccanismo mimetico. Come Gabriel Tarde prima di lui, Girard propone una teoria metafisica dell’imitazione universale[2]. La sua analisi si discosta tuttavia dalla linea tardiana non solo perché si concentra unicamente sul mondo umano – mentre Tarde aveva fatto dell’imitazione un principio cosmico che regola anche il mondo naturale – ma perché non comporta una decostruzione della soggettività: l’imitazione non dissolve il soggetto in flussi impersonali di correnti che attraversano l’io, minandolo come centro di autonomia e di sovranità, ma si situa ancora a pieno titolo all’interno della tradizione moderna della filosofia del soggetto, di cui recupera significativamente una delle problematiche morali più classiche, quella delle passioni. Nel percorso tracciato inMensonge romantique, e che unisce Cervantes, Stendhal, Flaubert, Dostoevskij e Proust, il desiderio metafisico si articola in una serie di affetti differenziati, come la vanità, la gelosia, l’invidia, l’amore, lo snobismo, che rappresentano l’oggetto privilegiato di analisi della moderna psicologia romanzesca come della letteratura moralistica da Montaigne a Rousseau.
Tra tutte le passioni, l’invidia assurge al ruolo di fenomeno archetipico, ed è proprio sulla sua fenomenologia che si modella il desiderio mimetico[3]. Per identificare desiderio metafisico e desiderio invidioso Girard deve tuttavia ridefinire preliminarmente l’invidia, neutralizzandone la componente oggettuale. Si può definire l’invidia, infatti, come un desiderio perverso per qualcosa che è altamente desiderabile in se stesso, ma che non si può avere perché appartiene a qualcun altro. Nell’interpretazione mimetica, invece, ciò che l’invidioso desidera è in realtà l’esseredell’altro, non l’oggetto in suo possesso, il quale risulta desiderabile non in virtù di qualità intrinseche ma per il prestigio illusorio conferitogli dal suo proprietario. La dissoluzione dell’oggetto nella relazione intersoggettiva viene suggerita in Mensonge romantique come conseguenza inevitabile della scoperta del fenomeno del desiderio mimetico triangolare: «L’objet n’est qu’un moyen d’atteindre le médiateur. C’est l’être de ce médiateur que vise le désir» (MR, 69). L’identificazione tra desiderio e invidia[4] diventerà sempre più esplicita nelle opere successive di Girard a cominciare dallo studio su Shakespeare dal titolo emblematico, «A Theater of Envy». Ogni desiderio umano è desiderio invidioso, e questa verità disturbante sarebbe confermata proprio dalla resistenza che il fenomeno oppone ai tentativi di rivelazione. In più occasioni, Girard sosterrà che l’importanza dei fenomeni psichici è sempre proporzionale al loro diniego: sotto questo profilo l’invidia è paragonabile a ciò che la psicanalisi definisce «rimosso», al punto che sarebbe difficile dire quale sia il segreto più nascosto dell’animo umano[5]. Il paragone è illuminante. Non diversamente da quella di Freud, infatti, la teoria mimetica si fonda su un presupposto di metodo fortemente riduzionistico: per far emergere il rimosso e rivelare «le cose nascoste sin dalla fondazione del mondo» bisogna preliminarmente ridurre la realtà, ossia semplificare il volto sfaccettato delle sue manifestazioni fenomeniche, distinguendo ciò che è primario da ciò che è secondario, conservando l’essenziale ed eliminando il superfluo. La riduzione antropologica girardiana si articola in tre diversi momenti: nel primo, la natura umana viene ridotta a una sola delle sue componenti: il desiderio; nel secondo, il desiderio viene a sua volta ridotto a una sola delle sue manifestazioni – il desiderio metafisico o mimetico, rivolto all’essere altrui, e non oggettuale; nel terzo infine, sulla base della distinzione concettuale tra mediazione esterna (l’imitazione asimmetrica per chi è superiore), e mediazione interna, simmetrica (l’imitazione simmetrica e reciproca tra pari), che Girard declina in forma storica, il desiderio mimetico viene ridotto alla sua manifestazione più specificamente moderna: l’invidia tra uguali. È questa successione di operazioni sineddotiche a rendere possibile l’equivalenza tra désir e envie. La complessità dell’esperienza umana viene dissolta, e la natura umana viene identificata con una sola delle sue componenti[6].
Questo modo di concepire la realtà per riduzione e concentrazione su un solo fenomeno primario e dominante, che a sua volta comporta la necessità di interpretare i fenomeni attraverso una sistematica demistificazione cinica, che procede dall’alto verso il basso, dalla passione più nobile al movente più basso e volgare, iscrive Girard in una tradizione specifica, quella del realismo antropologico che, in opposizione ad altre forme più pluralistiche e ottimistiche di realismo, amo definire «realismo noir», e a cui spesso si richiama la tradizione del realismo politico. Prima di trionfare con la cosiddetta «scuola del sospetto» e la sua triade Marx, Nietzsche, Freud, questa linea di pensiero si è affermata nella prima modernità con Machiavelli, Hobbes e i moralisti francesi più influenzati dall’agostinismo, soprattutto La Rochefoucaul e Pascal. Girard, come vedremo, si confronta soprattutto con la versione agostiniano-giansenistica di questa tradizione, la sola fondata su presupposti apertamente teologici. Ma prima di considerare questo aspetto della sua antropologia dobbiamo soffermarci sulla sua concezione della modernità.
 
Segue qui:
http://www.leparoleelecose.it/?p=20907
 

UNA FORMIDABILE SOLITUDINE. LA GRANDE MADRE 
di Tiziana de Rogatis, leparoleelecose.it, 3 novembre 2015

Oltre che sul titolo della bella mostra, La Grande Madre (Palazzo Reale, Milano, 26 agosto-15 novembre 2015), vale la pena soffermarsi sul sottotitolo: “donne, maternità e potere nell’arte e nella cultura visiva, 1900-2015”. La prima riflessione – mentre si passeggia nelle sale del Palazzo Reale – è quindi sul metodo: la mostra, curata da Massimiliano Gioni, racconta infatti la madre, dal Novecento a oggi, da un punto di vista visuale, iconografico (quadri, fotografie, collage, manifesti, sculture, video, installazioni…). Tutto quello che invece è produzione di parole e di racconti – il mito, l’antropologia, la filosofia, la letteratura – trova accoglienza nel Catalogo dell’allestimento, e nelle sale attraverso il gioco associativo delle immagini (o da alcune bacheche), ma non ha uno spazio proprio. Vista la densità della mostra – mi dico mentre vago per le sale riccamente allestite – non era evidentemente possibile includere tutto. Ma, continuo a considerare, come mai allora non troviamo traccia di questo immaginario così ricco e potente nei dibattiti pubblici, nelle produzioni di cultura collettiva, e ancor meno nei programmi scolastici, per esempio, o in quelli universitari?
Mi colpisce poi il nesso che il sottotitolo stabilisce tra identità femminile e materna e potere: esiste davvero nella prassi quotidiana e nella soggettività femminile contemporanea questo nesso, questa relazione forte e risolta tra queste due parti dell’esperienza (unite insieme, non dissociate) e l’assertività, l’agency? Mi pare di no. Chi visita la mostra può dunque pensare che in queste sale le artiste e gli artisti (l’esposizione offre anche il punto di vista maschile sull’universo materno) prefigurino quindi un’utopia, in senso creativo, psichico e politico… E così veniamo al titolo, omaggio implicito a Die Grosse Mutter (1956), la grande ricerca dello junghiano Neumann. Evoca ovviamente un repertorio materno che giganteggia, che si accampa con una forza e una singolarità tali da creare “un simbolismo dotato di tonalità emotiva” (Neumann). Ma in che modo? La madre rappresentata in questa mostra è polifonica e polimorfa: struggente, tenera, sensuale, sognante, avanguardista (futurista, dadaista e surrealista), smisurata, potente, fallica, spettrale, malinconica, disperata, alienata, mostruosa, viscerale. Gli aggettivi possono mutare di segno e di significato, possono opporsi tra loro, ma ciò che accomuna queste definizioni è la solitudine: questa madre non è mai in coppia. Oltre la presenza fisica delle opere d’arte alla Mostra, visualizzavo questa assenza. Mancava il padre e mancava ciò che il padre forma con la madre: la coppia (genitoriale e non). Le poche immagini – tre in tutto – che rinviano esplicitamente alla figura paterna e alla coppia sono eloquenti; spiegano cioè indirettamente le ragioni profonde di questa assenza. In una foto (Oscar Brony, La familia obrera 1968/1999), un terzetto familiare è seduto su due dislivelli: un padre contempla dall’alto del suo predellino sua moglie e suo figlio, intento a leggere. La seconda è un collage (Hermann Höch,Der Vater 1920), in cui una testa maschile è poggiata su un corpo femminile che culla un bambino; la terza (Claude Cahun, Le père1932) è ancora una foto – questa volta di una marionetta, stesa sulla sabbia, che esibisce una punta metallica, stilizzazione di un fallo: ma subito sotto il pube, nella sabbia, è disegnata una vagina: i due scatti possono essere letti come una trascrizione visiva dell’angosciosa immagine kleinania dei “genitori congiunti”, un ibrido delle prime fantasie infantili in cui la figura materna incorpora il pene del padre.
L’aspetto a mio parere più convincente del discorso lacaniano sul materno è “la madre che va e che viene”, la madre che entra ed esce cioè dal legame con il figlio/a, la madre che si dedica al figlio/a ma aggira la simbiosi perché è costantemente richiamata altrove da un altro suo desiderio: la relazione con l’alterità e quindi (nel caso di una relazione eterosessuale) con il maschile incarnato dal padre (o dai suoi sostituti). Ma questa madre, che contiene in sé il materno e l’erotico, questa madre/donna felicemente decentrata dalla doppia relazione con il bambino e con l’altro (il padre o un’altra incarnazione del desiderio), è un precetto astratto, una chimera – per le arti visive e non solo. Ecco allora che proprio questo vuoto di rappresentazione non è un limite della mostra, ma un suo punto di forza. È un vuoto parlante, riempito cioè di significato dalla complementare espansione della madre, che – a fronte di questa assenza – non può che grandeggiare con la sua M maiuscola, non può che farsi archetipo: valore assoluto, dimensione totalizzante, esperienza che si astrae dal confronto con le altre esperienze e con le proprie. Quanto la dolorosa solitudine della madre parli della realtà di oggi, quanto rinvii ad una onnipotenza della madre (spesso compensatoria di carenze e frustrazioni) e/o ad un rifiuto dell’essere madre per un terrore di questa stessa onnipotenza, quanto poi questa onnipotenza possa spiegare anche certi recuperi perentori e volontaristici della funzione paterna (non sempre condivisibili), quanto tutto questo infine produca un legame filiale talmente assoluto e totalizzante (quel “furioso attaccamento alla madre” espresso secondo Freud da molte figlie) da risultare indicibile e non rappresentabile: tutto questo credo sia un elemento condiviso dell’esperienza moderna della maternità. Sperimentiamo insomma un paradosso. Per un verso, la madre è una presenza dominante della vite materiali e psichiche degli esseri umani nelle quali finalmente, con la modernità, si impone anche come portatrice di contraddizioni radicali: contiene nel proprio corpo e nella propria psiche l’autodeterminazione dell’individuo e la potenzialità generatrice della specie (cito dal Manifesto Rivolta femminile 1970, esposto alla Mostra: “il primo elemento di rancore della donna verso la società sta nell’essere costretta ad affrontare la maternità come un aut-aut”). Per l’altro, è difficile raccontare la madre al di là degli stereotipi sulla cura, sul dolore e sul sacrificio, al di là della facile equivalenza tra materno e biologico, al di là delle immagini di maniera e dei generici essenzialismi. La madre non riesce ancora a oltrepassare lo spazio angusto della vita familiare, del privato, delle dipendenze materiali, non riesce ancora a rendere metaforico il suo universo. Questa carenza di immaginario – su cui il femminismo italiano ha sempre molto discusso e lavorato – non espropria solo le donne, ma anche ciò che le donne mettono al mondo: l’intero genere umano. È una carenza che questa mostra colma, e molto felicemente, ma è ancora solo un piccolo passo.
 
Segue qui:
http://www.leparoleelecose.it/?p=20812
 

CHE CRUDELTÀ. La blasfema poetica dello Stato islamico e l’esibizione così antica che ne fanno i tagliagole 
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 4 novembre 2015

Raffaele La Capria mi chiede di psicanalizzare il fenomeno della crudeltà, e non posso ritrarmi davanti alla richiesta dell’uomo più mite del mondo. In particolare lo colpisce l’esibizione che alcuni fanno della propria crudeltà, vedi l’Isis, e il nascondimento che altri cercano di operare, ad esempio i nazisti che occultarono e negarono le camere a gas. Costoro avevano ancora qualcosa da perdere; quelli dell’Isis invece, pronti a farsi kamikaze, essi stessi oggetti della propria crudeltà, non hanno nulla da perdere all’infuori della vita, che evidentemente non stimano molto, anzi niente. Sgozzare ragazzi in tivù o farli esplodere davanti a tutto il mondo regala loro un piacere superiore che si fa beffe di ogni minaccia e punizione. Tanto più che il piacere di uccidere si potenzia col mostrarlo agli amici e parenti delle vittime, procurando a esse un atroce dolore di cui ulteriormente compiacersi. Nell’antichità questo modo di godere era frequente, pensiamo ai romani che cavalcavano fieri le strade tappezzate di schiavi crocefissi, ma in questo caso era un godimento triste, tanti uomini efficienti tolti a Roma, alcuni rimpianti, senonché l’Impero doveva punire in modo esemplare. Diverso il caso delle donne stuprate dai barbari – ma anche dai cristiani – nei saccheggi, davanti ai loro cari che poi saranno sgozzati e così via. Gli umani hanno sempre tratto grande piacere non tanto nell’uccidere quanto dal torturare e scannare davanti agli impotenti genitori e figli. E’ il colmo della crudeltà, quella che annega ogni speranza e precipita in un lago di orrore. I genitori non possono soccorrere i figli, assistono al loro sfacelo, non possono neppure dare la vita per essi poiché non ne hanno più il possesso, a loro volta sono condannati, se presenti, allo stesso destino dei figli, se assenti a una lenta disperata agonia nella casa che li vide famiglia. I figli li invocano e improvvisamente ne scoprono l’impotenza, perfino la lingua che potrebbe dare l’estremo saluto è premurosamente tagliata dagli aguzzini. Prontissimi in questi giorni a rivendicare l’aerea morte di tanti bambini nei cieli egiziani, che non ci si accontenti di un incidente, che si sappia di come li si è coscientemente mandati in pezzi, e ci si ricordi le lugubri facce degli assassini e i loro ghigni soddisfatti.
 
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2015/11/04/che-crudelt___1-vr-134555-rubriche_c295.htm

POSTURE 
di Giorgio Agamben, doppiozero.com, 4 novembre 2015

Negli ultimi anni della guerra, mentre era internato in un campo di prigionia, Emmanuel Lévinas comincia a scrivere quello che diverrà il suo primo libro, Dall’esistenza all’esistente, pubblicato nel 1947. Non è facile misurare la novità e il singolare, quasi feroce svolgimento che qui riceve l’ontologia del suo maestro di Friburgo, Martin Heidegger. L’essere non è più un concetto, è un’esperienza sordida e crepuscolare, che si coglie tra il sonno e la veglia, negli stati di fatica e di insonnia, nel bisogno e nella nausea – e, innanzitutto, nelle posture e nelle imposture del corpo. Nella stanchezza, in cui la coscienza sembra allentare la presa e quasi disdire il suo abbonamento all’esistenza, è in realtà ancora l’essere che appare, in un evasivo ritardo rispetto a se stesso e come in un’intima lussazione. Si è dinoccolato e spostato e quindi mi sfugge e non riesco a afferrarlo: ma “c’è”. Per questo la fatica cerca riposo nel sonno senza trovarlo e scivola così suo malgrado nell’insonnia, quando si veglia senza che vi sia altro da vegliare se non il fatto brutale di esserci.
“La veglia è anonima. Nell’insonnia non sono io che veglio la notte, è la notte stessa che veglia”. L’essere non è qui dono, luce, annuncio, apertura: è una presenza rivoltante a cui sono, però, irrimediabilmente inchiodato, qualcosa che non posso assumere altrimenti che abbandonandomi a una postura che è anche già sempre impostura. Questo starmene rannicchiato sul letto, questo mio (non-mio) coincidere integralmente e senza riserve con la mia giacitura, questo mio (non-mio) non essere altro che insonne postura: sdraiato, bocconi, supino, su un lato con le gambe fetalmente ripiegate – questo e nient’altro è l’essere. Poiché è inassumibile, posso solo addossarmelo; poiché è impossibile o troppo brutalmente possibile, non posso dirlo, ma solo giacerlo (“coricare” deriva etimologicamente da “collocare”).
Nell’Esausto, Gilles Deleuze, pur senza farne il nome, cerca di andare al di là della fenomenologia puntigliosamente descritta da Lévinas. E lo fa, secondo la precisa intuizione di Ginevra Bompiani, non tanto cercando “di dar corpo al pensiero, quanto di dare pensiero al corpo, di esporre un corpo che porti impresso nella sua stessa postura il pensiero”. Cioè non soltanto risolvendo, come Lévinas, l’ontologia, la dottrina dell’essere, in una dottrina delle posture, ma cercando una postura che la faccia finita con l’essere, ne esaurisca fino all’ultimo la possibilità. L’esausto – come i film per la televisione di Beckett che commenta – non si stanca di sillabare quest’unica domanda: “Come si esaurisce una possibilità, che cos’è una possibilità esausta?”
Si tratta, per Deleuze, di fare i conti con Heidegger, una delle sue due bestie nere in filosofia (“Io sono il solo filosofo francese,” amava ripetere, “che non è mai stato né heideggeriano né marxista”). Egli sapeva, infatti, che il primo a aver messo l’essere in una postura era stato proprio Heidegger, la cui analitica dell’essere si apre proprio con la celebre costatazione di una implacabile giacitura: “L’essenza dell’esserci giace [liegt] nell’esistenza”. L’esserci è stato “gettato” nel mondo, ma si direbbe che, una volta gettato, non cade in piedi, ma sdraiato (liegen significa innanzitutto “essere sdraiato”). In Heidegger, tuttavia, questo riposare dell’essere nell’esistenza si traduce immediatamente in un primato della possibilità. Che l’essenza giaccia, stia distesa nell’esistenza significa che il mondo si apre per l’uomo in possibilità, che tutto gli si presenta come un possibile modo di essere a cui è già sempre consegnato. In quanto giace – presumibilmente desto e supino (Heidegger non sembra far molto caso del sonno) – nell’esistenza, l’esserci è inesorabilmente consegnato alla possibilità: giacere è potere. Se all’essere sdraiato dell’essere corrisponde in questo senso un primato del possibile, occorrerà allora immaginare una postura che esaurisca integralmente e senza riserve ogni possibilità. Scommettere, cioè, su che cosa si può ancora fare quando tutto è diventato impossibile e su che cosa c’è ancora da dire quando non è più possibile parlare.
Questa postura è lo stare seduti. Deleuze critica – sempre senza nominarne l’autore – le tesi di Lévinas sulla stanchezza e sul suo intimo nesso con il giacere. Lo stanco sembra non disporre piú di alcuna possibilità, ma, in verità, egli ha semplicemente esaurito la capacità di metterla in atto, non la possibilità come tale. L’esausto, invece, “esaurisce tutto il possibile. […] Mette fine al possibile, al di là di ogni stanchezza, ‘per continuare a finire’”. Per questo non gli si addice lo stare sdraiato: “Sdraiarsi non è mai la fine, l’ultima parola, è la penultima, e si rischia di essere abbastanza riposati, se non per alzarsi, almeno per girarsi o strisciare”. L’esausto, come in Nacht und Traüme, resta seduto al suo tavolo, con la testa china appoggiata alle mani, “mani sedute sul tavolo e testa seduta sulle mani”.
 
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/materiali/deleuze/posture

UNA TAVOLA DI AMICI E PAROLE PER CURARE LA PAURA DEL CIBO 
di Luigi Ballerini, avvenire.it, 5 novembre 2015

Chissà cosa avrebbe detto Montesquieu di fronte alle reazioni suscitate dall’invito dell’Oms a limitare il consumo di carni rosse, fresche e lavorate, per la loro associazione con alcune tipologie di tumore. Forse avrebbe rispolverato il suo celebre detto: una salute conservata con una dieta troppo severa, è una noiosa malattia. La questione sollevata dall’Oms è tuttavia rilevante e merita di essere considerata con attenzione, essa non riguarda infatti solo la salute, ha effetti invece sul mangiare tout court, sul suo significato, e quindi su tutti noi indistintamente. È sotto gli occhi di ognuno che l’uomo non mangia solo per vivere.
Se così fosse non si sarebbe inventato l’aperitivo per farsi venire più appetito, non avrebbe pensato di imbandire la tavola per starci meglio e nemmeno di invitare gli amici per cena. Si sarebbe limitato a introdurre sufficienti calorie per le sue attività. Non c’è nulla di naturale nel mangiare, al contrario di quanto forse si pensa. Il gorgonzola cremoso da spalmare sul pane, l’arrosto di vitello con il suo sughetto, le patate dorate al forno, la crostata di mirtilli e la macedonia non esistono in natura, sono dei meravigliosi artefatti dell’uomo, vere opere di ingegno. Neanche una banale insalata di pomodori è naturale: non può darsi senza l’intervento di qualcuno che abbia coltivato i pomodori, raccolto e spremuto le olive, ricavato il sale dall’acqua del mare e fatto inacidire il vino nelle botti con la madre.
Anche lo stesso moto del mangiare, che riteniamo così scontato, non è un dato di natura, ma si costituisce grazie all’intervento di un altro. Tutto è partito, per ciascuno di noi, dall’offerta di qualcuno – la mamma che ha scoperto il suo seno ma anche la balia che ha porto il biberon in sua mancanza – che ci ha fatto sperimentare per primo la soddisfazione derivante dal tepore sulle mucose della bocca, dal sapore dolciastro sulle papille, dalla distensione dello stomaco e dalla conseguente pace successiva, così potente da far subito addormentare. Sensazioni, percezioni, esperienze inimmaginabili prima che qualcuno le rendesse possibili. Dal momento di quel primo eccitamento è sorto in noi il desiderio della sua ripetizione, ricercata all’inizio con un pianto che la reclama e poi con la preparazione più sofisticata delle condizioni perché possa realizzarsi. L’organismo ha così fatto un salto, da puro antecedente biologico si è costituito come corpo, è stato vivificato dal suo pensiero che cerca soluzioni. Per l’uomo, infatti, mangiare diviene una questione di soddisfazione. Una soddisfazione peraltro sociale, innescata dall’offerta dell’altro e non autogenerata.
 
Segue qui:
http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/una-tavola-di-amici-parole.aspx

IL DOLORE DELL’ANALISTA. CHI AIUTA CHI STA MALE STA MALE PIÙ DI TUTTI. L’analista è una figura misteriosa, a tratti idealizzata, al punto da assumere connotati “mitici”. Eppure, lo psicologo o lo psichiatra che aiuta a uscire dal tunnel delle fobie o della depressione, a riallacciare i rapporti con una persona cara, a elaborare un lutto o una perdita, alla fine dei conti è una persona che, stando a contatto ogni giorno con la sofferenza, può soffrire, proprio come i pazienti che ha in cura. L’analista ha però la capacità di trasformare questa sofferenza “professionale” in uno strumento terapeutico. Abbiamo intervistato due delle autrici del primo libro italiano che affronta proprio questa forma particolare di dolore, spesso sottovalutato 
di Sara Ficocelli, iltirreno.gelocal.it, 5 novembre 2015

È fresco di stampa, e aiuterà forse molti pazienti a guardare il proprio medico con occhi diversi, e molti medici a sentirsi meno soli. Il libro “Il dolore dell’analista. Dolore psichico e metodo psicoanalitico” edito da Astrolabio (ottobre 2015), con la prefazione del presidente dellaSocietà psicoanalitica italianaAntonino Ferro, è il primo scritto in Italia sull’argomento. Nella presentazione gli autori spiegano che, sebbene il dolore faccia parte della vita, ritrarsi da esso, ribellarsi contro la sofferenza propria e altrui è una reazione istintiva, naturale, quasi inevitabile. Anche nel setting psicoanalitico, luogo per antonomasia in cui il dolore viene espresso e ascoltato, c’è un’area di sofferenza che rimane poco esplorata e quasi completamente ignorata: il dolore che l’analista stesso prova per sé e per il paziente. Il volume è frutto delle ricerche di un gruppo di lavoro appositamente costituito per approfondire questo tema e, al suo interno, prende in considerazione situazioni che riguardano bambini, adolescenti e adulti, perché il dolore riguarda tutti e ha bisogno e può essere affrontato in tutte le età della vita. Una sfida che coinvolge profondamente l’analista. Ne abbiamo approfonditamente con Maria Adelaide Lupinacci, medico, psichiatra, psicoanalista didatta dellaSocietà psicoanalitica italiana e dell’International psychoanalytic association, e con Adelia Lucattini, medico, psichiatra psicoterapeuta, psicoanalista della Società psicoanalitica italiana e dell’International psychoanalytic association, coautrici del saggio.
Come è nata l’idea di questo libro?
Lupinacci: «L’idea iniziale sul ruolo e il modo di viverlo che il dolore ha per l’analista e il lavoro nell’analisi, è nata dal confronto tra le esperienze cliniche di alcuni psicoanalisti con me e fra di loro, e dall’osservazione dell’interesse che queste esperienze suscitavano in noi, e di cui avevamo continuamente riscontro nella pratica clinica e nel lavoro con i pazienti. In seguito a un primo lavoro presentato a un congresso con la dottoressa Lucattini, ho pensato di creare intorno a questo tema un gruppo di studio».
 
Segue qui:
 
http://iltirreno.gelocal.it/italia-mondo/2015/11/03/news/il-dolore-dell-analista-perche-chi-aiuta-chi-sta-male-sta-male-piu-di-tutti-1.12381461

PSICANALISI, LE “OPERE” DI JUNG INTEGRALI IN DIGITALE. Dal 12 novembre finalmente disponibile in un unico e-book per Bollati Boringhieri 
di Redazione, affaritaliani.it, 5 novembre 2015

Bollati Boringhieri porta in digitale le “Opere” di Jung. Questa rivoluzione editoriale aspira a far giungere anche alle nuove generazioni questo patrimonio di sapere, e a diffondere un’opera dall’incommensurabile valore scientifico e letterario che a tutt’oggi rappresenta uno dei fondamenti insostituibili della psicologia contemporanea.  L’edizione delle “Opere” – che Paolo Boringhieri affidò alla direzione di Luigi Aurigemma e a cui collaborarono 35 traduttori – è l’unica completa e annotata realizzata in Italia, e appartiene a pieno diritto alla storia della psicoanalisi italiana. Di questa storia, le Opere di Jung costituiscono uno dei principali momenti fondativi, e certamente uno dei maggiori contributi che la Bollati Boringhieri ha dato nel corso degli anni alla cultura psicoanalitica italiana.
L’ebook, in vendita dal 12 novembre, contiene 18 volumi in 21 tomi cartacei (9525 pagine totali, con 10.028 note e link) e si struttura secondo il piano tradizionale dell’edizione italiana, approvato dallo stesso Jung. La pubblicazione delle Opere di Jung ebbe inizio nel 1969 con i Tipi psicologici e si concluse nel 2007 con la pubblicazione degli Indici analitici. Il piano dell’edizione italiana delle Opere di Jung è conforme a quello dell’edizione in lingua inglese, Collected Works, iniziata nel 1953 dalla Bollingen Foundation e affidata per gli Stati Uniti alla casa editrice Princeton University Press e per l’Inghilterra alla Routledge and Kegan Paul, e a quello dell’edizione in lingua tedesca, Gesammelte Werke, iniziata nel 1958 dall’editore Rascher di Zurigo, cui è succeduto l’editore Walter di Olten.
L’appuntamento a Milano il 12 novembre, per la presentazione al pubblico.
http://www.affaritaliani.it/psicanalisi-le-opere-di-jung-integrali-in-digitale-391289.html
 

DESIDERIO, UN TEATRO DELL’INVIDIA 
di Alessandra Pigliaru, ilmanifesto.info, 6 novembre 2015
 

Filo­sofo, cri­tico let­te­ra­rio, sto­rico delle reli­gioni, socio­logo, antro­po­logo. Que­sto e molto altro è stato René Girard, straor­di­na­rio osser­va­tore delle rela­zioni umane. Scom­parso ieri all’età di 91 anni, lascia alle pro­prie spalle una tra le ere­dità più affa­sci­nanti e ori­gi­nali del Nove­cento. La morte, dopo una lunga malat­tia, è stata annun­ciata nel sito dell’università di Stan­ford — dove Girard ha inse­gnato fino al 1981 – gra­zie a Cyn­thia Haven che attual­mente sta ulti­mando la mono­gra­fia The Last Hed­ge­hog: René Girard, A Life.
La sua col­lo­ca­zione nel post-strutturalismo non resti­tui­sce la com­ples­sità del suo pen­siero, né dell’incessante volontà di tro­vare un varco che gli con­sen­tisse già dai primi anni Set­tanta di con­ge­darsi da Lévi-Strauss deto­nando infine la psi­coa­na­lisi freu­diana a cui, in realtà, non ha mai ade­rito inte­ra­mente se non con­cen­tran­dosi su alcuni nodi con­cet­tuali cari a chi è stato suo inter­lo­cu­tore, vicino e a tratti troppo lon­tano. Tra i tanti ricor­diamo Fou­cault, Deleuze, Bar­thes, Der­rida. Sta di fatto che la cir­co­la­zione e la rice­zione delle teo­rie di Girard sono state di rilievo mon­diale e gli hanno assi­cu­rato un posto tra gli intel­let­tuali più rap­pre­sen­ta­tivi della sua epoca. Già dal 1961, con il suo primo libro, Men­zo­gna roman­tica e verità roman­ze­sca (Bom­piani, 1965) affronta la sua teo­ria più nota, quella del desi­de­rio mime­tico. Attra­verso il romanzo moderno comin­cia a pro­fi­lare la teo­ria secondo cui il desi­de­rio è una trian­go­la­zione tra il sog­getto, l’oggetto e il media­tore (il modello) che suscita l’interesse della comu­nità scien­ti­fica inter­na­zio­nale. Che il primo nucleo della teo­ria del desi­de­rio mime­tico si inse­ri­sca in un volume di cri­tica let­te­ra­ria segnala il grande amore di Girard verso le scrit­ture, un amore con­sa­pe­vole della potenza che la let­te­ra­tura ha di spie­gare e rap­pre­sen­tare l’umana con­di­zione e ciò che la infe­li­cita, certo una signi­fi­ca­zione irrag­giun­gi­bile dalle scienze sociali. Scrive pagine den­sis­sime nel suoDostoe­v­skij dal dop­pio all’unità (1963, poi SE 1987) e in Cri­ti­que dans un sou­ter­rain (1976), sem­pre dedi­cato al roman­ziere russo. Il pun­golo let­te­ra­rio non smette di inter­ro­garlo; fon­da­men­tale il suo Sha­ke­speare. Il tea­tro dell’invidia, del 1990 (Adel­phi, 1998) con suc­ces­sive incur­sioni nei testi di Sten­d­hal, Flau­bert, Proust e molti altri. Nella pri­ma­vera del 2008, per le edi­zioni della Stan­ford Uni­ver­sity, pub­blica il volume Mime­sis and Theory: Essays on Lite­ra­ture and Cri­ti­cism, 1953–2005 che descrive bene la for­ma­zione e il dipa­narsi del gri­mal­dello cri­tico della mime­sis all’interno della letteratura.
Il desi­de­rio non è una spon­ta­nea mani­fe­sta­zione dell’autonomia indi­vi­duale, ecco la men­zo­gna roman­tica e la con­se­guente verità roman­ze­sca che si evince da alcuni esempi che Girard, dai primi anni Ses­santa, non abban­dona. Uno tra tutti è ascri­vi­bile al capo­la­voro di Cer­van­tes là dove Don Chi­sciotte comin­cia la sua impresa imi­tando colui che con­si­dera un modello di cava­liere errante, Ama­digi di Gaula. Il mime­tico inter­viene a spie­gare che non si desi­dera mai un oggetto in maniera lineare, bensì solo in virtù di ciò che desi­dera l’altro che tut­ta­via da modello si tra­sforma pre­sto in rivale, soprat­tutto nei casi di «media­zione interna» quando cioè il sog­getto desi­de­rante e il modello si con­fron­tano reci­pro­ca­mente sull’impossibilità di desi­de­rare entrambi la stessa cosa. Il con­flitto che ne sca­tu­ri­sce può rag­giun­gere pic­chi esi­ziali dando luogo a odio, ven­detta e vio­lenza. Si desi­dera ciò che l’Altro pos­siede, certo, ma a ben guar­dare anche colui che ci fa acce­dere al desi­de­rio. E se i paraggi laca­niani a un risul­tato simile non potranno sfug­gire, la dif­fe­renza è sostan­ziale: ciò che per Lacan si trat­teg­gia nel sim­bo­lico per Girard accade su un piano antro­po­lo­gico, cul­tu­rale e sociale. Il sim­bo­lico laca­niano, per Girard, non tiene conto dell’aspetto mate­riale. Una mio­pia, la stessa che attri­bui­sce anche a Freud, verso l’esito della mimesi; quel che dav­vero dovrebbe inte­res­sare è, infatti, il momento della crisi sacri­fi­cale. È all’altezza del suo La vio­lenza e il sacro pub­bli­cato nel 1972 (Adel­phi 1980) che si con­geda dallo strut­tu­ra­li­smo e quindi da Lévi-Strauss e deco­strui­sce le posi­zioni freu­diane, defi­nendo meglio la scom­messa del mime­tico. Mostra il legame tra la teo­ria mime­tica e la vio­lenza attra­verso una rilet­tura ana­li­tica di miti e riti classici.
 
Segue qui:
http://ilmanifesto.info/desiderio-un-teatro-dellinvidia/ 

Psicologia alchemica di James Hillman 
di Giuseppe Talarico, opinione.it, 8 novembre 2015 

In un suo famoso saggio, Giuseppe Pontiggia, grande autore, scrisse che nella storia della cultura vi sono stati filosofi geniali che con i loro scritti e libri hanno dimostrato di essere anche grandi scrittori. Rientra in questa categoria di pensatori James Hillman, del quale da poco la casa editrice Adelphi ha pubblicato un libro importante e notevole, il cui titolo è Psicologia Alchemica. In questo saggio, che incanta ed affascina il lettore per la eleganza e la raffinatezza della prosa con cui è stato scritto, Hillman ha con chiarezza esemplare spiegato il rapporto tra L’alchimia e l’opus analitico. Carl Jung, di cui Hillman è stato un allievo, a questo tema ha dedicato una delle sue opere fondamentali, intitolata Psicologia ed Alchimia. Hillman nella prima parte del suo saggio chiarisce che per la psicanalisi esiste il rischio di usare un linguaggio intriso di letteralismo, incapace di delineare una distinzione tra la parola e la cosa. L’alchimia, intesa ovviamente in senso metaforico, poiché si riferisce ad elementi della materia fissati ed individuati, possiede un grado di concretezza che si rivela utile per superare il letteralismo, che rischia di rendere arido e sterile la terminologia del metodo psicanalitico. Infatti l’alchimia offre espressioni concrete che non sono letterali. In tal modo il linguaggio della psicanalisi subisce un processo di rettificazione, che è necessario per accrescerne la efficacia terapeutica. Nel medioevo e nel rinascimento vi era la convinzione che il metodo alchemico, consentendo la trasformazione della materia, rendesse possibile ricavare l’oro prezioso da metalli di scarso valore. Infatti Hillman nel testo cita il pensiero e le opere di Marsilo Ficino. Alla stessa maniera il terapeuta deve con il metodo psicanalitico sottoporre l’anima umana ad un processo di trasformazione, perché si liberi dal dolore e dalla sofferenza. 

Segue qui: 
http://www.opinione.it/cultura/2015/11/08/talarico_cultura-08-11.aspx

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GENITORI IN CERCA DI LAVORO (PER I FIGLI): COME ATTIVARE IL NETWORK FAMILIARE

da job24.ilsole24ore.com, 4 novembre 2015

Consigli in pillole/2 – Genitori in cerca di lavoro (per i figli): come attivare il network familiare – Luigi Ballerini, medico psicanalista e scrittore.
Vai al link:
http://job24.ilsole24ore.com/news/Articoli/2015/11/pillola-2-network-famiglia.php?uuid=0532bb8a-824b-11e5-8e79-9561e4d32cbe&DocRulesView=Libero
 
 
I più recenti pezzi apparsi sui quotidiani di Massimo Recalcati e Sarantis Thanopulos sono disponibili su questo sito rispettivamente ai link:
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4545
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4788
 
Da segnalare anche la rubrica
"Mente ad arte, percorsi artistici di psicopatologia nel cinema ed oltre, di Matteo Balestrieri al link 
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4682
 
 
(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com

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