Oggi ci troviamo di fronte ad uno scenario radicalmente diverso dal punto di vista epidemiologico e sociale. I dati Istat ci evidenziano un quadro che da qui ai prossimi anni ci costringerà a ripensare qualsiasi modello sanitario, sociale, ma anche culturale ed economico. Siamo una popolazione che invecchia, siamo d’accordo ci sono sempre meno bambini, ma il dato che più scompiglia è che gli anziani diventano molto anziani. Voglio dire che oggi grazie a sistemi di prevenzione, diagnosi precoci, terapie innovative, farmaci innovativi viviamo molto di più; ma anche grazie a condizioni di vita diverse, una più attenta alimentazione, maggiore cura del proprio corpo, gli over 75 sono triplicati rispetto a qualche decennio fa. Questo è un dato che costringe ad un cambio di paradigma, oggi tutto va ripensato tenendo in considerazione questa nuova dimensione, che gli anziani sono tanti, saranno sempre di più e che diventano molto vecchi.
Si affacciano così nuove sfide, una senza dubbio sanitaria: da una parte una frequenza maggiore di malattie cardio-circolatorie, ma soprattutto di quelle neurodegenerative, nuovi tumori. Patologie che sono fortemente invalidanti e che dal punto di vista sanitario impongono un ripensamento radicale dei percorsi di cura, su cui dovranno prevalere in modo preponderante logiche territoriali rispetto a quelle ospedaliere. Se questo delle malattie croniche e di quelle neurodegenerative sarà sempre più il quadro patologico prevalente, è chiaro che tutto le prestazioni di prevenzione, trattamento, riabilitazione si troveranno a livello di territorio; non solo ma per gli anziani il luogo di cura meno efficacie è rappresentato proprio dall’ospedale dove incontrano disorientamento, confusione, complicazioni, infezioni. Qui sta dunque il ripensamento, il rovesciamento di un sistema sanitario pensato più per corsie e reparti, che sembra riconoscere più dignità all’alta specializzazione, alle intensità di cure, che non alle professionalità, ai distretti territoriali, alle cure domiciliari, ovvero a tutta quella rete di servizi, professioni e risorse che prevengono, curano, riabilitano, confortano quella che rappresenta oggi la fascia più debole.
Debole perché ci coglie impreparati. Non abbiamo ancora raggiunto la consapevolezza che alla luce di questo nuovo scenario, va ripensata la vita stessa. Dobbiamo ripensare logiche sociali nuove, oltre alle cure, vanno ripensati gli interessi, i piaceri della vita. Se grazie alla medicina e ad uno stile di vita migliore viviamo di più, si dovrà pensare, oltre alla quantità anche alla qualità di quegli anni in più di vita.
E’ chiaro che la medicina fa la parte prioritaria, se sto bene, vivo bene. Ma il benessere è rappresentato da tantissimi fattori che concorrono insieme: per esempio l’integrazione nella società. In una società che corre veloce, che non dà tregua, impietosa, che penalizza chi non sta al passo, l’anziano rischia di essere il nuovo emarginato. E allora confuso, rottamato, considerato un peso. Questa società molto deve restituire alla vecchiaia, non solo in termini di salute, economici, ma anche di proposte, opportunità, coinvolgimento e molto deve poter ancora prendere: l’esperienza impagabile per la generazioni giovani, un modo di vedere il mondo, una visione prospettica della vita che aiuta a ricomporre quel senso, quella dignità, che né la giovinezza, troppo acerba, né la vita adulta, troppo dentro, riescono a cogliere.
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