Percorso: Home 9 LA VOCE DELL'INDICIBILE 9 “Ognuno a sé stesso è fedele”. Sulla contrapposizione fra egocentrismo e altruismo.

“Ognuno a sé stesso è fedele”. Sulla contrapposizione fra egocentrismo e altruismo.

22 Gen 23

A cura di Sabino Nanni

        Anni fa seguii una paziente cui, ad una grave affezione somatica, si erano aggiunti non meno gravi problemi emotivi che rischiavano d’interferire sulla sua collaborazione alle cure. Si sentiva come “abbandonata da Dio e dagli uomini”, e la sua esistenza le sembrava divenuta inutile, di peso agli altri, non più degna d’essere preservata. I familiari, che in un primo momento si erano dimostrati preoccupati e solleciti nei suoi confronti, parevano ora divenuti freddi, quasi infastiditi dalle sue continue lamentele.
        Non fu difficile ricostruire quel che era successo: la paziente (come accade quasi di regola a chi si ammala gravemente) era regredita ad una forma di dipendenza infantile. Come fanno i bambini in grosse difficoltà, si aggrappava agli altri pretendendo insistentemente d’essere ascoltata, aiutata, consolata.
        Data la gravità della sua malattia, è comprensibile che la donna si comportasse a questo modo; ma non è meno comprensibile che i familiari proprio non riuscissero, pur di occuparsi di lei, a dimenticarsi di sé stessi e dei loro problemi. Il figlio adolescente aveva grosse difficoltà a scuola: preoccupato per la madre, non riusciva più a concentrarsi sulle materie di studio. In più, ultimamente, era divenuto vittima di bullismo. Il marito, unico sostegno economico della famiglia ed impegnato per gran parte della giornata in un duro lavoro, tornando a casa doveva anche occuparsi delle faccende domestiche che la donna stava trascurando. Ognuno dei familiari, sentendosi abbandonato, si concentrava sempre di più su sé stesso, ignorando i problemi degli altri, e la situazione andava peggiorando.
        Il sottoscritto, per passare da una spiegazione puramente intellettuale e fredda ad una piena comprensione dell’esperienza che la paziente stava attraversando, dovette rivivere le proprie situazioni, appartenenti ad un remoto passato, in cui si era sentito del tutto abbandonato. Chi si è trovato in situazioni del genere (e quasi tutti le abbiamo attraversate, anche se la maggior parte di noi le dimentica rapidamente) sa bene che si tratta di esperienze estremamente dolorose, paragonabili a quelle di chi sente di star per morire. Winnicott, per tale motivo, le descrisse efficacemente come esperienze di “agonia primitiva”.
        Un terapeuta che avesse assunto un atteggiamento freddo e solo superficialmente soccorrevole, in realtà non sarebbe uscito da un sostanziale egocentrismo. La “fedeltà a noi stessi” c’impone di occuparci innanzi tutto di noi; e la soluzione apparentemente più facile è quella di frapporre una distanza estrema fra noi e chi soffre in misura intollerabile. D’altra parte, ritengo non meno anti-terapeutico l’atteggiamento di chi, facendo violenza su sé stesso, s’impone di dimenticarsi di sé e di assumere un atteggiamento altruista.
        L’eventualità più frequente è che si tratti di un modo di rapportarsi inautentico, ipocrita, “buonista”, frutto di menzogne fatte credere agli altri e a noi stessi. Qui l’egoismo, “cacciato dalla porta”, rischia ogni momento di “rientrare dalla finestra” sotto forma di atti maldestri, di episodiche manifestazioni di ottusità verso chi vorremmo aiutare, di troppo facile scoraggiamento. Chi, invece, sacrifica veramente sé stesso, sprofondando nella stessa sofferenza della persona che vorrebbe aiutare, si comporta come quel tale che, volendo salvare chi sta affogando, e non avendo preso precauzioni per salvare sé stesso, finisce per morire insieme all’altro.
        L’unico modo per non tradire in modo innaturale la “fedeltà a noi stessi” e, nello stesso tempo, uscire dal nostro egocentrismo, è quello di chi comprende che, per prenderci cura efficacemente degli altri, è indispensabile aiutare noi stessi a superare le loro stesse difficoltà; difficoltà che sono sempre presenti in tutti noi, e da cui non siamo mai usciti del tutto, le abbiamo soltanto dimenticate. Al tempo stesso, è l’atteggiamento di chi comprende che il modo più efficace per prendersi cura di sé è aiutare gli altri che si trovano in difficoltà analoghe alle nostre: soccorrere gli altri è come guardare allo specchio noi stessi bisognosi di aiuto, e solo specchiandoci possiamo capire che cosa occorre anche a noi. Chi vuole vincere la sua angoscia di affogare deve saper salvare chi sta affogando; e chi lo fa deve saper proteggere sia l’altro, sia sé stesso.
        Quando ci si sente completamente perduti, disorientati di fronte alle difficoltà di una persona che non riusciamo ad aiutare (ed a noi terapeuti ciò capita non di rado), è molto utile un dialogo immaginario con un interlocutore che ci soccorre. È un personaggio della fantasia che assomma tutte le qualità di chi, in passato, ci ha aiutato: i nostri genitori, alcuni insegnanti, alcuni amici, per alcuni di noi il nostro analista, gli Autori che abbiamo letto, soprattutto i Maestri della psicologia del profondo ed i Poeti. Dice, a questo proposito, Umberto Saba:
L’assenzio della vita, anche il suo miele,
ho nel cuore. Operoso per me stesso,
aiuto, come posso, gli altri. E gli altri
sono, a volte, più chiusi…
        Sono i primi versi di una poesia il cui titolo è “Ognuno a sé stesso è fedele”. Qui il Poeta afferma di aver assimilato (o, meglio, di non aver scacciato dalla coscienza e dimenticato) “l’assenzio della vita”. L’assenzio è, innanzi tutto, sinonimo di amarezza. Evoca anche il liquore fortemente alcolico che, inebriando, suscita un senso di confusione. Afferma, inoltre, d’aver assimilato “il miele”, ossia le dolcezze che possono confortare chi è amareggiato. A differenza di chi, dimenticando rapidamente le amarezze della vita e non riuscendo più a comprendere quelle altrui, si chiude nel proprio egocentrismo, il Poeta continua ad averle presenti; il che lo rende “operoso per sé stesso”, nello sforzo di medicare le ferite che le avversità hanno prodotto nel suo mondo interno. Nello stesso tempo, rendendo noto con la Poesia il suo lavoro interiore, aiuta alche gli altri a svolgerlo. Lo fa “come può”, ossia con gli strumenti di cui dispone un Artista.
        Non dissimile è la situazione del (vero) curante: anche lui, “operoso per sé stesso” lega questo lavoro auto-riparativo al suo compito terapeutico, aiutando nel contempo sé ed i suoi pazienti. Lo fa anche lui “come può”, ossia per quanto gli consentono la sua cultura scientifica ed i suoi strumenti tecnici.
        Ritornando al caso clinico cui accennavo più sopra, fu possibile aiutare questa donna presentando il terapeuta come modello di come sarebbe stato anche per lei salutare comportarsi: il curante, rivivendo la dolorosa situazione di sé stesso bambino abbandonato, si specchiò nel dramma della malata e, con l’aiuto di un interlocutore protettivo immaginario, riuscì a farne uscire entrambi. Allo stesso modo, la paziente che, sotto sotto, non era rimasta del tutto insensibile all’esperienza di abbandono che stavano vivendo figlio e marito, riuscì, con l’aiuto del medico, a prendere pienamente coscienza di tale sensibilità; comprendendo ed aiutando, come poteva, i familiari, aiutò anche sé stessa a ritrovare la loro presenza, la loro comprensione e il loro aiuto.  

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