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OMAGGIO A MIGUEL DE CERVANTES NEL IV CENTENARIO DELLA MORTE. Parte I. Impressioni storico-psichiatriche e antropofenomenologiche dalla prima parte del Chisciotte

22 Apr 16

A cura di Paolo F. Peloso

La ricorrenza dei quattrocento anni dalla morte di Miguel de Cervantes y Saavedra (29 settembre 1547 – 22 aprile 1616), che coincidono con quelli dalla morte di William Shakespeare (23 aprile 1564 – 23 aprile 1616), mi spinge a  riprendere, dividendo il mio ragionamento in due parti,  alcune note pubblicate qualche anno fa su una delle sue più celebri novelle, El licenciado Vidriera, scritta nello stesso periodo del Chisciotte a Valladolid ma pubblicata più tardi nelle Novelle esemplari (1613)[i], e prima di questo a proporre qualche spunto relativo al primo volume del Chisciotte (1605).
Prima di tutto, però, alcune note sulla vita avventurosa dell’autore, che lo vide presente anche in Italia. Cervantes nasce ad Alcalà de Henares e compie gli studi a Madrid. Nel 1570, a 23 anni, si sposta in Italia per sfuggire alla condanna per aver ferito un uomo; qui si arruola come soldato e partecipa ad alcune famose battaglie, tra cui quella di Lepanto nel 1571, durante la quale perde l’uso della mano sinistra in combattimento. Dal 1575 al 1580 è prigioniero dei turchi ad Algeri. Liberato, rientra in Spagna. Nel 1584 si sposa per separarsi nel 1586. Nel 1597 e nel 1602 è incarcerato per due volte per motivi finanziari e nel 1605 viene arrestato a Valladolid perché nelle vicinanze di casa sua  viene trovato un uomo morto del cui assassinio è in un primo momento accusato. Nel frattempo ha avuto una figlia naturale, che vive con lui e le due sorelle. Lo stesso anno viene pubblicata la prima parte de El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha[ii] (la seconda lo sarà nel 1615), e ad essa fa seguito la pubblicazione di numerose opere letterarie, tra le quali nel 1613 le  Novelas ejemplares. Dal 1606 vive a Madrid, fino alla morte che sopravviene appunto il 22 aprile 1616.
 
Il cavaliere dalla triste figura: dalla vita al testo
 
«Il nostro gentiluomo era sulla cinquantina, di costituzione robusta, asciutto di corpo, magro di viso, molto mattiniero e amante della caccia». Per la maggior parte dell’anno «si dedicava a leggere i romanzi di cavalleria, con tanta assiduità e piacere da finire col dimenticare quasi completamente la caccia e persino l’amministrazione del suo patrimonio» (I par., p. 23). Con questi pochi tratti essenziali ci viene presentato Don Chisciotte. Di lì a poco, assistiamo a quello che pare l’esordio di una malattia mentale: «Insomma, egli si buttò tanto nella sua lettura, che passava le notti dal tramonto all’alba, le giornate dall’alba al tramonto, senza smettere di leggere. E così, a furia di dormire poco e di leggere molto gli si seccò il cervello, in tal modo che uscì fuori di senno» (I par., p. 24). Chisciotte scivola così nella follia come attratto da uno sguardo maligno e ammaliatore (tanto Binswanger che Racamier alludono alla follia come al volto di Medusa), gradatamente più invischiato in una idea carica di passione che prende via via egemonia su ogni altra, in una realtà libresca nella quale la mente si sposta fino a perdere ogni contatto con quella materiale e condivisa. E’ come l’ingresso inconsapevole in un tunnel che non si può che percorrere in avanti, quello che ci appare come una sorta di restringimento del campo di coscienza, una luce che illumina di un colore falso ogni cosa e c’impedisce di coglierne la vera consistenza. C’è una sceneggiatura già scritta, e come in una recita teatrale tutto deve adattarvisi. Nell’esperienza clinica, del resto, ho avuto più volte opportunità d’incontrare soggetti che, usciti dal delirio, si sforzano di ricostruire la fase dell’ingresso e lo riferiscono proprio nei termini di un graduale concentrarsi, sia sotto il profilo dei contenuti di pensiero che della carica emotiva, una fissazione su una lettura soggettiva della realtà che acquista statuto di certezza e monopolio nella vita mentale. I più fortunati e capaci tra loro aggiungono: «Sa, ho sentito che quel solito meccanismo stava cominciando, così mi sono aumentata da sola la dose e le ho chiesto di venire».
Sotto il profilo della storia della psichiatria possiamo qui segnalare la presenza di alcune delle idee sulle cause e l’esordio della follia più frequenti all’inizio del XVII secolo. Ad esempio, l’importanza di un sintomo come l’insonnia persistente (non possiamo del resto tacere che essa è anche oggi riportata con una certa frequenza tra i prodromi di malattia mentale). O l’idea che anche lo studio troppo intenso, o l’intensa lettura di romanzi fantastici, possano fare ammalare.
Sotto il profilo psicopatologico, la passione esagerata di Chisciotte per il mondo cavalleresco sembra corrispondere, in un primo tempo, all’idea prevalente. Questo tema egemonizza però  gradatamente la mente del nostro gentiluomo fino a portarlo a perdersi tra le righe dei libri cavallereschi, fino alla piena immedesimazione con il cavaliere errante dei secoli antichi e la perdita di  contatto con la contemporaneità. La fantasia è sempre più accesa e comincia a confondersi con la realtà che comincia ad essere percepita in modo delirante. Un catino da barbiere si trasforma in elmo glorioso, un gregge di pecore in un esercito, un mulino a vento in un gigante nemico, una prostituta nella grande dama alla quale dedicare le sue imprese e così via. Il suo impatto anacronistico sulla realtà diventa fonte di imbarazzo per gli altri e crea situazioni dissonanti, mentre la fantasia cavalleresca che si è trasformata nel pensiero prevalente e pressoché unico illumina ogni cosa di una luce confondente e ingannatrice. L’assurdità della percezione di un mondo trasfigurato come appunto in una rappresentazione teatrale, balza agli occhi di ogni altro che ne rimane stupito,. ma non di lui che, prigioniero di un’incrollabile certezza soggettiva, diventa inaccessibile alla critica. Chisciotte è ora come isolato; ci sono invece persone che si occupano di lui. Il fedele scudiero sempliciotto che lo accompagna, rispettosamente cerca di aprirgli gli occhi e finisce per essere però assorbito almeno in qualche misura nella sua stessa visione distorta delle cose; gli amici che si mettono sulle sue tracce nel tentativo di riportarlo, in ogni senso, a casa e distruggono i morbigeni libri come avrebbero tentato di prosciugare un liquido nel quale Chisciotte annegava; le donne di casa che alla fine del viaggio si occuperanno di sorvegliarlo perché non riparta e non si esponga a nuovi pericoli. Chiudere l’acqua alla quale la sua fantasia si nutriva come una pianta infestante e custodirlo, sono dunque i soli rimedi ai quali amici e parenti possono ricorrere.  
Quando Chisciotte si intrattiene su temi cavallereschi, si perde, e non sente più gli stimoli del corpo. E’ una mente prigioniera di un’unica idea, quella di essere cavaliere errante ai tempi della cavalleria, che si dimentica il corpo  Al di fuori di quest’area tematica, la mente potrebbe anche funzionare in sintonia con gli altri, Cervantes parrebbe dire nel passaggio che segue – dimostrando quanto, forse, temi che appassioneranno il dibattito psichiatrico ottocentesco come quelli della follia parziale o della monomania fossero già presenti da molto: «Don Chisciotte pronunciò tutto questo lungo sermone mentre altri cenavano, dimenticandosi di mangiare un boccone anche se Sancio Panza gli diceva di mangiare (…). Coloro che lo udirono parlare ancora si rammaricarono di vedere che un uomo a prima vista tanto assennato (…) perdesse così totalmente il cervello quando parlava della sua dannata e maledetta cavalleria» (I par., p. 276).
Chisciotte terminerà la prima parte delle sue avventure preso in consegna dalle donne di casa, che guarda con occhi sbarrati senza capire dove sia, pronto a ripartire per nuove deliranti avventure (I par., p. 366).
 
Chisciotte: un caso di esistenza mancata?
 
In molti, nei quasi quattro secoli nei quali si è letta questa storia si sono interrogati su quale sia il genere di follia che Cervantes ha inteso rappresentare col suo eroe; per lo più, oggi parrebbe esserci consenso sulla diagnosi di un disturbo delirante con qualche interessante evocazione di concetti kretchmeriani quali il temperamento leptosomico e il delirio di rapporto sensitivo[iii]. Per parte mia, però, vorrei sottrarmi alla tentazione dello sforzo d’inquadramento nosografico e provare invece a interrogarmi sulla particolare forma di esistenza che Cervantes rappresenta nel Chisciotte a partire dal noto testo che Ludwig Binswanger diede alle stampe nel 1956[iv] su tre  particolari forme di fallimento, di mancata riuscita dell’esistenza umana e in particolare sulla prima di esse, l’esaltazione fissata, nella quale è forse possibile cogliere aspetti utili a una comprensione antropologica del caso letterario che il nostro mancheco rappresenta.
In primo luogo, l’esaltazione fissata pare implicare infatti un’impossibilità di legami autentici, un isolamento dagli altri che abbiamo già avuto occasione di evidenziare nel caso del Chisciotte, prima lettore indefesso e poi prigioniero delle sue letture. Nell’esaltazione fissata quindi, scrive Binswanger,  l’esistenza «si è isolata e si è preclusa il commercio con gli altri e quindi l’espansione e l’arricchimento che soltanto in questo ambito sono possibili, là dove l’esistenza singola si riduce e si ritira nel mero commercio con se stessa, fintanto che anche questo tipo impoverito di rapporto si consuma e si “vanifica” nella mera contemplazione di un problema, di  un ideale di un “nulla dell’angoscia” che si sono trasformati in una testa di medusa, in un’idea delirante» (p. 23).
In secondo luogo, l'esaltazione fissata sembra implicare una sorta di blocco, di coartazione dell’esperienza: «sia che si tratti di un'”idea” esaltata o di un'ideologia (le “ideologie” sono in genere forme di esaltazione fissata), di un ideale o di un “sentimento” esaltati, di un desiderio o di un progetto, di un mero “capriccio” o di un'azione esaltata, l'espressione “esaltazione fissata” significa sempre che l'esi­stenza si è “smarrita”, si è perduta in una determinata “esperienza”, che (…) non è più in grado di “levare le tende”, di progettarsi in un altro futuro» (par. I, p. 18). Sottratta alla communio amoris e alla communicatio amicitiae in un isolamento dal mondo degli affetti, in una impossibilità di relazioni che possano dirsi autentiche delle quali già abbiamo detto, anche l'esistenza del nostro gentiluomo «non è più in grado di ampliare “l'orizzonte della propria esperienza”, non è più in grado di rivederlo né di verificarlo, e si fissa su un punto di vista “limitato”». «Comune a tutte e tre le forme di esistenza mancata» infatti, come Binswanger aveva anticipato, «è un “arrestarsi”, un “giungere alla fine” dell’autentica mobilità storica dell’esistenza» (p. 13). Il normale fluire, la dinamicità della vita mentale sono resi impossibili, osserva ancora Binswanger in queste pagine, e certo il riferimento di Cervantes al divenire “secco” del cervello di Chisciotte certo è un riferimento alle teorie neurofisioogiche di quegli anni[v], ma risuona anche potentemente evocativo.
In terzo luogo, infine, quanto Binswanger scrive sull’esaltazione mancata rimanda a una perdita di possibilità legata a una deformazione strutturale della proporzione antropologica, cioè una «forma di sproporzione antropologica, come un rapporto «infelice» tra l'altezza e l'ampiezza in senso antropologico» (par. I, p. 18). E anche nel caso di Chisciotte ritroviamo, con il venir meno dell’ampiezza della possibilità dell’esperienza, una perdita in varietà e quindi, in definitiva, in libertà (e il pensiero corre in questo caso a Henry Ey), un sentimento di impoverimento e di mancanza, che lo porterà finalmente, ma tardivamente, rinsavito, in punto di morte, con «il cervello chiaro e libero», a dispiacersi «che questo disinganno sia giunto tardi» (II par., p. 398).
Mi pare che i tre aspetti dell’esaltazione fissata come descritta da Binswanger – un sentimento insieme di isolamento e di coartazione e complessivo impoverimento dell’esistenza – che ci siamo sforzati qui di enucleare, coincidano in buona parte con gli elementi fondamentali caratterizzanti  la triste vicenda del nostro gentiluomo e della sua così particolare modalità di essere nel mondo.
 
La bella e intelligente pastora Marcella: ostinazione e amore
 
L’esaltazione fissata può appunto consistere come abbiamo visto in Chisciotte in una concatenazione di idee fatte oggetto di uno statuto di verità particolarmente rigido e arbitrario e di particolare carica emotiva. Ma la stessa esaltazione e fissazione, Binswanger scrive, può caratterizzare un sentimento: l’amore per esempio, un amore spinto, di nuovo, tanto in alto da far perdere la proporzione antropologica tra la dimensione soggettiva del sentimento e la sua possibilità di giungere a riguardare anche la persona che ne è oggetto, essendone ricambiato. L’altro, la donna in questo caso, perde così autenticità, perde oggettività e, in termini psicoanalitici, si trasforma in oggetto interno, narcisistico, madre rifiutante e, in una confusione di amore e odio, strega, carnefice. L’oggetto del quale vendicarsi per l’intollerabile scacco narcisistico del rifiuto, colpendola talvolta in modo diretto, o “gettandole addosso” la responsabilità del proprio martirio o del proprio cadavere[vi] con meccanismi psicologici che possono acquisire violenza paradossale e sproporzionata. Alcuni suicidi “per amore” e alcuni femminicidi, anche ai nostri giorni, possono aver a che fare con meccanismi del genere, sui quali Cervantes si sofferma con pietosa e intelligente ironia in uno dei tanti rivoli che attraversano, accanto al corso principale, la trama del Chisciotte.
Sullo sfondo sta un quadro psichiatrico, che molto probabilmente non gli era ignoto, sul quale in quegli anni c’era una certa attenzione da parte dei medici. Alludo al mal d'amore, o amore insano, o  sfrenato, o melanconia erotica che era stato descritto a partire da medici arabi, come Al Damiri e  Avicenna, che si riferivano a passaggi già presenti nella medicina dei classici[vii], o a fonti bizantine come  Oribasio di Pergamo (325-403) e Paolo di Egina (625-690) e a osservazioni cliniche dirette. Di esso parlano in Europa  a partire dalla fine del XIII secolo Arnaldo di Villanova e  Bernardo  di Gordone, della scuola medica di Montpellier e poi a partire dal Rinascimento, Robert Burton nella terza  parte dell'Anatomy of melancholy del 1621 e  medici  come Timothy  Bright nel suo trattato del 1586,  André du Laurens  nel 1597, Jourdain Guibelet nel 1603, Daniel Sennert e Thomas Willis; nel  1610 Jacques Ferrand dedicò all'argomento una monografia, De  la maladie d'amour ou Melancholie erotique. Discours curieux qui enseigne à cognoistre l'essence, les causes, les signes, et les remedes de ce mal fantastique[viii], che divenne da allora in poi un classico sul tema, tanto da essere ancora citata, due secoli dopo, da Esquirol[ix].
Cervantes affronta anche questo tema – al quale aveva già in qualche modo alluso l’amore improbabile e bizzarro di Chisciotte per Dulcinea – nella vicenda della morte per amore di Grisostomo, il promettente studente che lascia tutto per inseguire, non ricambiato, la bella pastora Marcella. Chisciotte e la sua compagnia passano casualmente presso il luogo dove gli amici, fattisi a loro volta pastori perché anch’essi innamorati di lei, si accingono a seppellirlo. La fanciulla, senza mezzi termini, è ritenuta indirettamente responsabile della morte del giovane innamorato: è considerata «indiavolata» (I par., p. 74), si dice che Grisostomo «adorò e fu respinto» e si biasima «la grande crudeltà di Marcella» (I par., p. 84). Ma d’improvviso ecco che l’assente irrompe prepotentemente inattesa, e occupa il centro della scena per poi, rapida come era venuta, sparire: «in cima alla roccia ai cui piedi si scavava la fossa apparve la pastora Marcella, bellissima, tanto che la sua bellezza superava la sua fama». L’apostrofa Ambrogio, l’amico migliore di Grisostomo e il primo ad averne seguito le tracce: «vieni forse a vedere, o crudele basilisco di queste montagne, se con la tua presenza sgorgano sangue le ferite di quest’infelice al quale la tua crudeltà ha tolto la vita?» (I par., p. 89). Ma lei replica con dignità e intelligenza: «io non vengo per compiere nessuna delle azioni che tu hai detto ma per difendermi da sola e farvi comprendere quanto ingiusti siano coloro che m’incolpano delle pene e della morte di Grisostomo (…). Coloro che ho fatto innamorare con la mia persona, ho disillusi con le mie parole; e se i desideri si alimentano con le speranze, non avendone io data nessuna a Grisostomo, né a nessun altro, ben si può dire che li uccide prima la loro ostinazione che non la mia crudeltà (…) e se egli nonostante questa smentita volle ostinarsi contro la speranza e navigare contro vento, c’era forse da meravigliarsi che annegasse in mezzo al mare del suo errore? (…). Se Grisostomo fu ucciso dalla sua impazienza e dal suo focoso desiderio, perché si deve incolpare il mio onesto agire e contegno?» (I par., p.  91). Già, l’ostinazione, che a volte non va confusa con l’amore perché è amore, in realtà, più che altro di se stessi.
Le parole di Marcella sono ingombranti non meno del suo corpo incolpevolmente bello: è la domina oggetto adorato ma passivo dell’amor cortese che, inaspettatamente, qui prende parola. Esprimono il desiderio di essere considerata nella sua esistenza di persona autentica, reale, che chiede di potere liberamente concedersi o negarsi all’incontro. E smascherano, anche in questo caso, l’effetto depauperante – fino a poterne morire – che può a volte avere, sull’esistenza, l’esaltazione fissata.          
 
Echi cervanteschi nel romanzo di Dostoëvskij: solo qualche spunto
 
Vorrei terminare partendo da un breve ricordo. Nella casa di Cervantes a Valladolid, dove nacque il Chisciotte, mi ha colpito un giudizio di Dostoëvskij che è riportato, a grandi lettere, su un muro: «Esta obra es la ultima y la mas grande de las voces del  pensamiento humano, es la mas amarga ironia jamas espresada por un hombre». Dostoëvskij è stato in più occasioni accostato per molteplici motivi a Cervantes; egli stesso evoca Chisciotte in un appunto relativo al personaggio di Myskin ne L’idiota, l’uno e l’altro evidentemente inadeguati alle situazioni in cui si trovano, fuori tempo e fuori luogo, due soggetti “strambi”. Ed è la seconda delle forme di esistenza mancata che Binswanger considera, strettamente legata alla prima, un porsi in contraddizione con la vita, come ebbe a scrivere Minkowski, che in bilico tra un sentimento di pena e uno di riso ripropone in altra forma lo stesso venir meno della comunità e gli stessi aspetti di coartazione e sproporzione che abbiamo visto in precedenza. Credo però che altri elementi comuni più importanti possano essere individuati tra questi due giganti della nostra cultura con riferimento, più che alla stramberia, proprio all’esaltazione fissata. Uomini prigionieri dell’idea sono stati spesso definiti dai critici molti dei protagonisti dei capolavori del russo, uomini avviluppati nell’idea fino al punto di uccidere o morire in una condizione nella quale, di nuovo, il senso della realtà e della comunità pericolosamente vacillano: Raskolnikov, Kirillov. E donne prigioniere della loro bellezza, incolpevolmente, violentemente e tragicamente desiderate e inafferrabili: Nastassia Filippovna, Grusenka. Le si uccide, o per loro si arriva a desiderare di uccidere. Non è qui possibile approfondire questi aspetti, ma forse una parte dell’origine dei problemi che avrebbero tormentato tanti degli eroi borghesi di Dostoëevskij può essere rintracciata anche in un ripensare passeggiando sulle rive della Neva a quel girovagare allampanato, anacronistico e un po’ folle per le strade della Mancha incapace di afferrare in senso pieno l’esistenza (la coesistenza), o in quel sentimento complesso, contraddittorio che non riesce ad essere amore, ma costringe comunque la schiera degli innamorati sulle tracce di Marcella. 

Segue parte II: Storia di un uomo che si credeva di vetro. 
 



[i] P.F. Peloso, Nonostante affrontassi la vita con furore. Catastrofe del soggetto ed esordio della psicosi nella letteratura e nella clinica, Atti dell'Accademia Ligure di Scienze e Lettere, LIV, 1997, pp. 175-214 (pp. 177-182).
[ii] M. De Cervantes y Saavedra, Don Chisciotte della Mancia (1605, 1615), Novara, Istituto Geografico de Agostini, 1982.
[iv] L. Binswnger, Tre forme di esistenza mancata. Esaltazione fissata, stramberia, manierismo. Tre saghgi di analisi esistenziale (1956), Milano, Garzanti, 1978.
[v] Cfr. P.F. Peloso, Modelli della mente e del corpo nell’opera medica di Pompeo Sacco (1634-1718), Venezia, Istituto veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1996.
[vi] C. Baconcini, D. Mussi, P.F. Peloso, Morir  d'amore: per amore  di chi? Un'analisi sul messaggio suicidario, in GNOSIS –  Esperienze Neuropsichiatriche, 7, 1993, N. Spec. "Atti delle  Comunicazioni al XXXVIII Congresso Nazionale della Società Italiana di Psichiatria", pp. 77-81.
[vii] G. Roccatagliata, La malinconia amorosa nel pensiero classico, in GNOSIS – Esperienze Neuropsichiatriche», 7, 1993, pp.  1-7.
[viii] Pubblicato una prima volta nel 1610, condannato  dall'autorità  ecclesiastica e ripubblicato nel 1623, il trattato è  stato tradotto in italiano a cura di M. Ciavolella col titolo Malinconia erotica, Venezia, Marsilio, 1991.
[ix] P.F.Peloso, Amore, morte, morte dell'Io. Il mal d'amore da categoria diagnostica a esperienza psicotraumatica, in: La cura delle malattie: itinerari storici/Treating illness: historical routes (a cura di A. Guerci), Genova, Erga, 1998, pp. 297-311.
 

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2 Commenti

  1. antonello.sciacchi16

    Don Chisciotte non è Orlando.
    Don Chisciotte non è Orlando. La sua follia non è furia ma fissazione ontologica: crede di essere quel che non è. L’hidalgo delira. Il delirio è un portato necessario dell’epoca moderna, la quale è segnata dall’avvento della scienza. Con la scienza vengono meno le verità categoriche, codificate da un certo numero di miti. In epoca scientifica la verità decade dai vertici dell’assoluto e diventa congetturale e par provision (Cartesio). Si può dire solo a metà, sia per Tarski sia per Lacan. All’esigenza di certezza, allora, fa fronte il delirio che si alimenta di favole, i romanzi, a loro volta prolungamenti dei miti antichi. In questo senso don Chisciotte è moderno, Orlando è antico. Cervantes non Ariosto ci presenta il primo “caso clinico” di follia della modernità. Cervantes non Ariosto apre l’orizzonte della modernità, che è scientifica e al tempo stesso romanzesca. Cervantes non Ariosto è prolungato da Freud, che scrive storie cliniche che si leggono come novelle, mancando del marchio della scientificità. Ma Freud anche questa volta si sbagliava “felicemente”: esistono le narrazioni scientifiche. La biologia darwiniana ne è piena.

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    • chiclana

      Vorrei raccogliere alcune
      Vorrei raccogliere alcune suggestioni da questo commento, ricco e fecondo di ulteriori aperture del ragionamento, del quale senz’altro ringrazio. Credo infatti che esso sia, per la sua tesi principale, molto condivisibile per quanto concerne lo specifico della storia della letteratura. Ariosto scrive qualcosa che risente ancora del genere del poema cavalleresco, del suo stile poetico e di un contesto magico e fantastico dove i cavalli possono volare e il senno degli uomini folli è conservato sulla luna. Sullo sfondo di questo specifico contesto, mi pare che la follia possa stagliarsi soprattutto nel suo aspetto di esperienza eccessiva, furiosa. Cervantes ci introduce invece, come molto giustamente ribadisci, nel genere del romanzo, che si caratterizza di norma per il carattere prosaico dello stile e realistico dell’ambientazione. Così, se volessimo, mi pare che non sarebbe troppo lontano dal vero descrivere la follia di Chisciotte come una forma di stramberia che consiste proprio nello scarto costituito dal delirio anacronistico di voler essere l’unico personaggio di Ariosto in un contesto di Cervantes, contesto che potremmo definire già borghese, o forse meglio pre-borghese. Mi pare invece che bisognerebbe essere prudenti nell’estendere questo ragionamento dalla storia della letteratura ad altri universi discorsivi. In quello della storia della medicina, ad esempio, credo che non si possa trovare traccia di un’analoga evoluzione, perché fino da Ippocrate sono riconosciuti e distinti quadri di follia caratterizzati principalmente dal delirio e incorporati nell’ampia categoria nosografica della malinconia, da altri caratterizzati principalmente dalla furia e classificati nella categoria meno inclusiva della mania. Per un terzo universo discorsivo, quello della filosofia, mi pare che occorrerebbe poi un altro ragionamento specifico, e probabilmente diverso da entrambi i precedenti.

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