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OMAGGIO A MIGUEL DE CERVANTES NEL IV CENTENARIO DELLA MORTE. Parte II. Storia di un uomo che si credeva di vetro

29 Apr 16

A cura di Paolo F. Peloso

 

Vetro e follia: considerazioni storico-psichiatriche
 
El licenciado Vidriera (Il dottor Vetrata), una delle Novelle esemplari del 1613 cui noi ci riferiremo utilizzando l’edizione critica curata e tradotta da Giovanni Maria Bertini[i], è considerata una delle più classiche rappresentazioni del cosiddetto delirio dell’uomo di vetro. In essa si narra la vicenda di un giovane le cui vita scorreva, parrebbe, senza particolari problemi, che da un certo momento ha cominciato a credersi (o piuttosto sentirsi? Ho oscillato a lungo tra queste due possibilità che rispecchiano tradizioni psicopatologiche diverse, quella francese classica centrata sul pensiero e quella romantica tedesca fondata sulle emozioni e aprirebbero forse strade diverse, e non sono certo di aver fatto la scelta migliore) fatto di vetro, cominciando a essere nel mondo nel modo di una evidente stramberia, per poi recuperare con salute la pienezza della propria esistenza. Come ho già accennato nella prima parte di questo scritto, ho già avuto occasione di trattare questo caso letterario[ii] e qui ripercorrerò in gran parte le considerazioni svolte in quell’occasione, ampliando però dove occorra, a  vent’anni di distanza, il ragionamento. 
Il delirio dell’Uomo di vetro era, quando Cervantes lo descrive, molto più presente nella psichiatria e nella cultura rispetto ad oggi e aveva una letteratura abbastanza cospicua. Per lo storico della psichiatria Gill Speak, che ha approfondito questo tema, questo contenuto delirante il delirio, probabilmente descritto originariamente dal medico olandese Levino Lemnio (1505-1568) nel 1561, rappresenta un tema importante della letteratura e della psicopatologia nella Spagna e nell’Europa tra Quattrocento e Seicento e si distingue nell’ambito dei quadri psicopatologici classificati come melanconia per due caratteristiche fondamentali, connesse alla natura fragile e trasparente del vetro: la paura di esser infranto al contatto con persone od oggetti e l’avversione per la luce del sole[iii]. La superficie del corpo parrebbe quindi perdere, in questi casi, la terza delle funzioni che lo psicoanalista Didier Anzieu attribuisce all’Io-pelle, quella di protezione dagli agenti fisici esterni, meccanici e fisici[iv]. Ancora per Speak, l’origine dell’attenzione a questo fenomeno nella cultura merita di essere ricercata innanzitutto nel tema religioso della fragilità dell’uomo, e in secondo luogo nei notevoli progressi che in quegli stessi anni l’ottica aveva compiuto. Secondo le memorie del pontefice Pio II, poi, Carlo VI di Spagna a causa di questo delirio rifiutava di essere toccato e vestiva abiti rinforzati in modo speciale; un caso analogo viene riportato a proposito di un cavaliere francese che rifiutava di lasciare il letto per non rompersi dal medico di Filippo II, Alfonso Ponce de Santa Cruz, e  dal medico francese André du Laurens, noto come abbiamo visto per esser stato autore, tra l’altro, del primo trattato organico sulla Melanconia erotica. Il tema ricorre nella letteratura inglese nel personaggio Tactus della commedia Lingua di Thomas Tomkins, scritta nel 1607, in cui un uomo di vetro sente minacciata la propria integrità da ogni contatto fisico e dalla voce alta. Lo stesso anno Thomas Walkington riporta il caso di un folle veneziano che rifiutava di sedersi perché credeva di avere spalle e natiche di vetro, e nel 1636 lo scrittore spagnolo Polo di Medina descrive nel suo manicomio immaginario un uomo con lo stesso problema, caso ripreso poi, tra gli altri, nel 1657 dal francese Tallement des Réaux.
In ambito medico il tema è trattato, sempre nella seconda metà del Seicento, tra gli altri da uno tra i più importanti medici del periodo, il danese Tommaso Bartolini (1616-1680), noto come anatomista e ginecologo; e ancora, nel 1717, dal parmense Pompeo Sacco, da me studiato qualche anno fa, che si rifà al caso originale descritto da Lemnio per classificarlo tra i temi deliranti della melanconia, e giustappone ad esso un altro caso, descritto dal medico veneto Gian Battista Da Porta detto Montano (1498-1551), che sembra rappresentare il ribaltamento proiettivo del precedente e riguarda un paziente che, credendo la terra coperta da un sottilissimo vetro sotto il quale erano dei serpenti, non lasciava mai il letto per non rischiare di infrangerlo[v].
 

La storia di Tommaso, diventato il dottor Vidriera
 
Nel nostro caso il giovane Tommaso fu raccolto mentre si dirigeva a Salamanca per studiare nella campagna da due studenti, e li seguì nella città sede di uno dei principali atenei spagnoli per dedicarsi agli studi di giurisprudenza. Dopo alterne vicende, optò invece per la vita militare e si imbarcò per l’Italia, dove visitò Genova, e poi Lucca, Firenze, Roma, Napoli, Palermo, Messina, Loreto, Venezia, Milano, Asti, per poi partire in compagnia della propria armata per le Fiandre.
A Genova Tommaso assaggia vari vini italiani e spagnoli (Trebbiano, Montefiascone, Cinque Terre, Vernaccia tra gli altri) e Cervantes coglie l’opportunità per dare della città una descrizione che mi piace riportare: «Infine, macilenti, bagnati, morti dal sonno, bagnati e con le occhiaie, giunsero alla magnifica e risplendente città di Genova e sbarcati nel suo ben chiuso porto naturale, dopo aver visitato una chiesa, il capitano con tutti i suoi compagni entrarono in un’osteria dove, dimenticate tutte le burrasche, si diedero a godere della allegria presente (…). Il nostro bravo Tommaso non tralasciò di ammirare i biondi capelli delle genovesi, la cortesia e il baldo atteggiamento degli uomini, la sorprendente bellezza della città che pare abbia le sue case incrostate nelle balze dei colli, come diamanti nell’oro» ( pp. 106-107).
Tornato dalle Fiandre a Salamanca per terminare gli studi, Tommaso  incontra una donna “di alta classe e d’astuzia mondana” che s’innamora di lui e, sentendosi respinta,  elabora uno stratagemma per averlo: «E così, consigliata da una donna mora, fece a Tommaso con un pezzo di confettura di cotognata toledana un malefizio, credendo dargli cosa che avrebbe obbligata la sua volontà ad amarla, quasi nel mondo si trovassero erbe, incanti o parole che forzino il libero arbitrio. Per questo quelle donne che apportano bevande e cibi animatori si chiamano venefiche, mentre altro non fanno che avvelenare coloro che prendono o quei cibi o quelle bevande, come ha dimostrato l'esperienza in molte e varie occasioni» (p. 111).
Cervantes approfitta, evidentemente, dell’episodio per polemizzare con l’uso dei filtri amatori,  ancora assai in uso all’epoca se il già ricordato medico parmense Pompeo Sacco, un secolo dopo non potrà prescindere dall’argomento nel suo trattato di medicina, e si dimostrerà, per la verità, più possibilista al riguardo del letterato spagnolo[vi]. Abbiamo, a questo punto, l’esordio della malattia di Tommaso: «Mangiò Tommaso, per sua disgrazia, di quella confettura e tosto prese ad agitare le mani e i piedi come se fosse assalito dall’epilessia e stette molte ore senza aver più coscienza (…). Tommaso passò in letto sei mesi durante i quali dimagrì tanto da ridursi, come si suol dire, pelle e ossa, e dava a vedere di avere la ragione sconvolta e con tutti i rimedi che poterono somministrargli si poté soltanto sanare la sua infermità del corpo, ma non già quella dell’intelletto. Riacquistò cioè la salute, ma diventò pazzo di una così strana pazzia che prima d’allora non se n’era mai vista l’uguale. Lo sventurato si credeva fatto di vetro e con questa fissazione quando qualcuno gli si avvicinava emetteva spaventose grida, chiedendo ed implorando con parole e discorsi ben logici, che non gli si accostassero perché lo potevano rompere;  egli affermava che non era un uomo come tutti gli altri, ma che dalla testa ai piedi era di vetro» (p. 111).
Fermo nel suo convincimento, Tommaso veste un abito largo, non calza scarpe, si fa alimentare da distante, beve nelle mani, percorre al centro le strade, dorme all’aperto o sulla paglia adagiato come il vetro, teme i temporali. Molti lo abbracciano, nonostante la sua resistenza, per dargli prova dell’assurdità del suo convincimento, ma questo scatena in lui una crisi caratterizzata da movimenti convulsivi, urla e una perdita di coscienza della durata di qualche ora.
Gli amici lo tengono rinchiuso per un periodo come folle, ma poi, mossi a compassione, lo accontentano lasciandolo vagabondare, fonte di «stupore e compassione in quanti lo conoscevano», e oggetto di scherno e lancio di oggetti da parte dei monelli (ed è, inevitabilmente, destino della forma stramba dell’esistenza).
Curiosamente, però, quest’uomo pazzo sapeva dare sempre risposte sagge e argute a quanti lo interrogavano e finì così con l’attirare l’attenzione, tra gli altri, di un notabile che lo volle, trasportato nei cesti di paglia in cui si usava trasportare il vetro, ospite a corte.
Dopo due anni di follia, Vidriera fu guarito non sappiamo come da un frate di San Gerolamo. Non cessò però di essere perseguitato dalla fama di dispensatore di sagge sentenze e, per vivere tranquillo, fu costretto a riparare nuovamente nelle Fiandre dove non era conosciuto.
 

Vetro e follia: considerazioni psicopatologiche
 
Nella sua scarna semplicità, la novella di Cervantes ci dice alcune cose sulla follia del protagonista sulle quali vorrei ora soffermarmi. In primo luogo, mi pare che la patogenesi della malattia di Tommaso si presti a considerare diversi possibili approcci.
Secondo il primo di essi, quello di Tommaso potrebbe essere diagnosticato come un quadro psicotico scatenato su base tossica esogena nella forma della reazione descritta da Karl Bonhoeffer (non sappiamo di cosa fossero costituiti questi filtri, ma sappiamo bene della dimestichezza con sostanza psicotizzanti della farmacopea magica intorno al XVI-XVII secolo[vii]). Anche in questo caso, peraltro, rimarrebbe la necessità di un ragionamento psicopatologico in ordine al particolare contenuto del suo delirio, essere di vetro, e al rifiuto del cibo nella prima fase che poterebbe allora corrispondere a dolori nell’apparato digerente causati dal veleno, ma anche avere il significato di un delirio sitofobico scatenato dalla consapevolezza dell’involontario avvelenamento subito.
Secondo un altro approccio, il primo momento di profonda angoscia e generale malessere e il successivo delirio e terrore di essere toccato e visto dentro potrebbe essere considerato ben comprensibile nel senso dello sviluppo jaspersiano, se consideriamo il fatto che il grave malore da cui usciva aveva fatto seguito all’ingestione del filtro amatorio incautamente somministratogli da chi lo amava. Se consideriamo l’esperienza dell’avvelenamento subito, è facile infondo comprendere come Tommaso potesse essere terrorizzato dal fatto che le persone che ci sono vicine, a volte, possono – volutamente o meno – rischiare di avvelenarci; gli si potrebbe al più rimproverare un’esagerazione del timore che questa eventualità, nel suo caso, si ripetesse.
Ancora, e questo terzo approccio è quello sul quale mi ero concentrato nelle considerazioni pubblicate sulla novella nel 1997, occorre considerare che Vidriera impazzisce nel momento in cui una persona, in questo caso una donna, gli si avvicina e gli propone implicitamente la rottura dell’equilibrio narcisistico che gli aveva consentito di seguire le lettere o le armi a condizione però di non impegnarsi in relazioni emotive strette. Non che prima di quel momento Tommaso non avesse avuto rapporti con donne; durante il viaggio in Italia Cervantes vi allude ripetutamente, ma questa volta si trattava, sembrerebbe, della proposta di qualcosa di più stabile che era coincisa con l’inizio dei suoi guai.
In un quarto approccio, infine, più ipotesi di quelle finora esposte potrebbero convergere, e la malattia di Vidriera potrebbe corrispondere a un quadro nel quale la prima fase, quella genericamente melanconica e sitofobica, si presta ad essere spiegata nei termini di una psicosi tossica esogena e più in generale dell’intossicazione, mentre la seconda, quella del delirio del vetro, potrebbe essere compresa nei termini di una reazione su base delirante non tossica alla prima.
Passiamo ora al contenuto del delirio di Tommaso. Tanto che si scelga di affrontare il suo delirare utilizzando lo strumento dello spiegare scientifico in riferimento alla tossicologia o che si vogliano percorrere le molteplici strade che l’altro strumento del comprendere geneticamente nel senso della psicopatologia jaspersiana, o l’una e l’altra cosa in successione, il contenuto particolarmente evocativo di quel delirio che gli consente di uscire dalla condizione mortifera di stupor melanconico con sitofobia nella quale l’ingestione del filtro lo aveva precipitato si presta comunque ad essere, a sua volta, affrontato con gli strumenti del comprendere.
E potrà, allora, apparirci rivelatore di un rifiuto non consapevole o una incapacità di reggere la coesistenza nella duplice forma del timore di rompersi al contatto e di quello di essere visto dentro perché trasparente. Il delirio ha anche perciò una funzione in ogni caso protettiva, sia dal pericolo di avvelenamento che il contatto con gli altri ha costituito/può costituire, sia dal pericolo avvertito per altre, e più generali, ragioni nell’impegnarsi in una relazione importante.
Ricordavo, del resto, nel precedente saggio dedicato alla novella come, in altra occasione, mi fosse accaduto di descrivere con due colleghi fenomeni simili a quello di Vidriera relativamente a due casi di osservazione diretta, l’uno di un giovane che viveva terrorizzato da qualsiasi contatto fisico per timore di contaminazione, l’Uomo di neve, l’altro di un uomo che viveva solo, terrorizzato da qualsiasi incontro e specialmente da quello con il medico che temeva avrebbe potuto peggiorare attraverso la terapia farmacologica o una relazione interpersonale impegnativa e continuativa lo stato morboso simil-leucemico dal quale si sentiva affetto in modo delirante, l’Uomo dei globuli[viii].
Ma sentirsi di vetro può avere anche un altro, importante, significato per Tommaso: con quest’affermazione, infatti, non dice forse solo quanto possa per lui essere in ogni caso di pericolo la vicinanza degli altri (quali misteriose capacità empatiche, quali capacità straordinarie di dosare nel tempo la propria presenza e assenza avrà mai avuto il frate, guaritore di ciechi e di folli, che alla fine della novella lo avvicina e lo sana?),  ma anche quanto egli si senta, in linea generale, in quel momento in pericolo, sul baratro che lo separa dalla piena follia e dalla morte per fame alla quale, prima di trovare nel delirio un possibile equilibrio (forse l’unico), sembrava destinato. E assai eloquente mi pare, a proposito di questo fenomeno, il commento alla rottura del vetro ad opera di uno schizofrenico dello psicoanalista Salomon Resnik; questo sintomo, frequente nell’esperienza dello psicoanalista argentino nello psicotico all’inizio della crisi, poteva essere secondo lui riportato all’espressione, attraverso la messa in atto, di una sensazione interiore di frammentazione, dispersione, rottura del limite, confusione tra Io e mondo, tra vero e falso, esterno e interno del corpo[ix], comune forse allo schizofrenico di cui si parlava e al protagonista di questa novella seicentesca, prigionieri l’uno del bisogno di infrangere e l’altro del timore di essere infranto.
Non è distante da questi il caso di una giovane donna riportato da un’altra psicoanalista, la tedesca Mechthild Zeul, la quale esprimeva forse col sentirsi fatta di vetro la sua posizione in quel momento in bilico tra nevrosi e psicosi[x],
Né sono queste i soli significati che il tema del vetro può veicolare nell’ambito della clinica psichiatrica. Cito ad esempio ancora il caso riportato dai coniugi Grinberg per i quali l’identificazione con il  vetro manifestata da una giovane immigrata di loro osservazione poteva avere a che fare con una terza proprietà del vetro, oltre la trasparenza e la fragilità, quella di riflettere l’immagine. In questo caso, perciò, sentirsi di vetro rimandava a una crisi d’identità, al fatto di poter assumere, di volta in volta, l’immagine che in se stessa si rifletteva[xi] . O quello, di osservazione personale, di un uomo per il quale, in tre occasioni successive, a distanza di uno o due anni una dall’altra, la rottura del vetro ha rappresentato l’evento centrale di una crisi pantoclastica che ne ha determinato l’espulsione dalla comunità terapeutica dov’era ricoverato. Nel primo caso si è trattato della rottura di uno specchio, e dell’uso di una scheggia per provare a tagliarsi i polsi, senza successo perché il materiale era antitaglio. Nel secondo della rottura di una grande vetrata all’ingresso, cioè nel punto che segnava entrata e uscita, della comunità. E nel terzo – si trattava in questo caso di una comunità-serra, dove il vetro rappresentava l’elemento architettonico prevalente – della rottura drammatica di tutte le vetrate. Negli ultimi due casi il soggetto, peraltro, era ben consapevole del fatto che si trattasse di vetri antiurto, che si sarebbero frantumati con impressionante effetto scenografico, ma non sarebbero crollati con pericolo. La rottura del vetro dunque forse, anche in questi casi, assumeva per lui il significato di esprimere una necessità di rottura del limite, espressione agita, spettacolarizzata e catastrofica di un bisogno di discontinuità, di uscita dal luogo, di separazione, cambiamento, nuovo inizio.

 
La follia in Cervantes: occorre rivedere un giudizio forse troppo schematico di Foucault?
 
Accanto al tema certo evocativo del delirio dell’uomo di vetro, la storia di Tommaso può aiutarci anche a ritornare su quelle che sembrano le idee che Cervantes esprime nei suoi scritti a proposito della follia considerata in senso generale. E qui dobbiamo osservare, rispetto alla vicenda di Chisciotte, due differenze principali e un’affinità degna di nota.
In primo luogo, se dell’esordio della malattia mentale la vicenda di Chisciotte consente di apprezzare soprattutto il carattere insidioso, di lento scivolamento privo di soluzione di continuità e accompagnato nel suo caso dalla parallela evoluzione nella modalità di essere nel mondo di una sempre più piena adesione all’esaltazione fissata e poi anche alla stramberia, con Tommaso assistiamo invece, parrebbe, a un ingresso nella follia – che corrisponde forse a una psicosi tossica esogena legata all’intruglio amatorio che gli è stato fatto ingurgitare, o a una reazione ad essa – brusco, subitaneo, immediato che rende all’improvviso strambo il suo comportamento.
E ancora, se per Chisciotte la follia – o forse meglio in termini antropologici l’esaltazione fissata accompagnata a stramberia – si risolvono troppo tardivamente perché un’esistenza ormai mancata possa essere recuperata alla coesistenza, e tutta la vicenda assume perciò una coloritura triste, Tommaso guarisce invece dalla sua particolare forma di malattia mentale – le cui caratteristiche fanno certo sì che anche un elemento di stramberia sotto il profilo dell’analisi antropologica non le sia estraneo – in tempo utile per essere recuperato alla coesistenza. Possibilità, questa della guaribilità della follia, sulla quale non vi era allora, ma forse non c’è neppure oggi, consenso, ma che comunque non possiamo dimenticare come accompagni gran parte della storia della psichiatria[xii].
Entrambi, invece, delirano travisando palesemente la realtà e resistendo a ogni ragionamento in senso contrario in un ambito specifico – l’uno a proposito del romanzo cavalleresco, l’altro a proposito del sentirsi fatto di vetro – ma su ogni altra questione paiono, come si è visto, lucidi: e anzi, nel caso di Vidriera, dotati di quella arguta saggezza che il XVI secolo soleva attribuire alla follia (similmente a un proverbio, che non ricordo più dove ho sentito e recita: “c’è tanta saggezza nel ragionamento dei folli, quanta follia in quello delle persone ragionevoli”). Il suo dispensare, perciò, sagge sentenze anche nei due anni nei quali la mente è egemonizzata da quella così strana, e stramba, idea sulla consistenza del suo corpo, dimostra la persistenza in Cervantes di quel topos letterario e filosofico barocco che Foucault attribuiva alla percezione della follia in Erasmo, Montaigne, Pascal, l’ossimorica figura cioè della saggezza del folle.
Sono antenati entrambi, quindi, ciascuno nella misura e il modo che gli è proprio, di quei quadri psicotici ai quali Pinel avrebbe fatto, all’inizio del XIX secolo, riferimento come a follia ragionante, o follia parziale, ed Esquirol come alla monomania, quadri che avrebbero visto aprirsi dibattiti, non ancora sopiti ai nostri giorni, dai toni a tratti accesi tra gli psichiatri, ma anche tra i giuristi.
E ciò parrebbe spingerci a dover ridimensionare, soprattutto nel caso di Vidriera, l’affermazione di Michel Foucault che nella cultura del XVI secolo follia e ragione sarebbero state mutuamente reversibili e avrebbero avuto tra loro una relazione più paritetica, testimoni ciascuna della verità dell’altra e quindi: «La follia diventa una forma relativa della ragione, o piuttosto follia e ragione entrano in una reazione eternamente reversibile che fa sì che ogni follia ha la sua ragione che la giudica e la domina, e ogni ragione la sua follia nella quale essa trova la sua verità derisoria […]. La follia diviene una delle forme stesse della ragione. Essa si integra all’altra, costituendo tanto una delle sue forze segrete, quanto un momento della sua manifestazione, quanto ancora una forma paradossale nella quale essa può prendere coscienza di se stessa»[xiii]. Mentre invece con l’età classica, la possibilità di questo reciproco passaggio dall’uno all’altro campo e quasi di reciproco rispecchiamento pare venir meno e il grande internamento come momento di esilio e di separazione avrebbe avuto a che fare appunto con questo. Proprio in Don Chisciotte, come in Re Lear, Macbeth o Amleto, sarebbe per Foucault infatti emblematicamente ravvisabile la nuova tragica posizione proiettiva in cui la pazzia, come passione irrimediabilmente e inguaribilmente esagerata, sarebbe stata relegata durante l’età classica: «In Cervantes o in Shakespeare la follia occupa sempre una posizione estrema, nel senso che essa è senza rimedio. Niente la riporta mai alla verità e alla ragione. La follia, nei suoi vani ragionamenti, non è vanità; il vuoto che la riempie è “un male molto al di là della mia scienza”, come dice il medico a proposito di Lady Macbeth; è già pienezza della morte: una follia che non ha bisogno di medico, ma solo della misericordia divina»[xiv].
Beh, “occupa sempre” non proprio, parrebbe. Se questo è solo parzialmente vero per Chisciotte, il cui  disinganno è troppo tardivo, e per così dire in articulo mortis, per consentirgli di riaprire l’ampiezza delle possibilità di un’esistenza trascorsa in gran parte fuori dall’autenticità e dalla comunità, non lo è certamente invece per Tommaso, un personaggio creato negli stessi anni e dallo stesso autore, il quale non solo durante la follia continua a dispensare buoni consigli agli uomini sani, ma dopo due anni (un tempo, infondo, che anche oggi rappresenterebbe un decorso che molti potrebbero augurarsi) guarisce dal delirio che imprigionava gran parte della sua esistenza in una stramberia davvero imbarazzante. Le due vicende hanno dunque esiti diversi, opposti; segno, infondo, che ciascuno artista (soprattutto se è grande, il che vale decisamente per Cervantes), appartiene alla sua epoca ma insieme può trascenderla; e che la storia delle idee, come la natura, non è solita far salti.

 

[i] M. De Cervantes Saavedra, El licenciado Vidriera (Il dottor Vetrata), tr. it. in: M. De  Cervantes Saavedra, Novelle esemplari, Torino, UTET, 1941.
[ii] Come si è già accennato nella prima parte di questo Omaggio, le note che seguono rappresentano una revisione di: P.F. Peloso, Nonostante affrontassi la vita con furore. Catastrofe del soggetto ed esordio della psicosi nella letteratura e nella clinica, Atti dell'Accademia Ligure di Scienze e Lettere, LIV, 1997, pp. 175-214.
[iii] G. Speak, The glass delusion in Europe (1440-1680), in “History of psychiatry”, 1, 1990, pp. 191-206
[iv] D. Anzieu, L’Io-pelle (1985), Roma, Borla, 1987, p. 128.
[v] P.F. Peloso, Modelli della mente e del corpo nell’opera medica di Pompeo Sacco (1634-1718), Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1996, pp. 63-64.
[vi] P.F. Peloso, Modelli della mente e del corpo … cit., pp. 98-100.
[vii] Cfr.: W.G. Sannita, Induzione farmacologica e ed esperienze psichiche, medicina popolare e stregoneria in Europa agli inizi dell'età moderna, in: La strega, il teologo, lo scienziato (a cura di M. Cuccu e P.A. Rossi), Genova, ECIG, 1986, pp. 119-141.
[viii] M.M. Benedetti, S. Massa, P.F. Peloso, Identità e alterità in pericolo: il ritiro e il controllo come compromesso, in “Il Vaso di Pandora. Dialoghi in psichiatria e scienze umane”, vol. 3, n. 3, 1995, pp. 63-81.
[ix] Intervento di supervisione a un caso clinico da parte di Salomon Resnik nel corso del Convegno: L'istituzione, la mente del terapeuta e gli scenari del gruppo, organizzato a Verona da Antonio Maria Ferro dal 18 al 20 ottobre 1996.:
[x] M. Zeul, The glass woman, “Psyche” (Stuttgard), 49, 1995, pp, 938-964.
[xi] L. Grinberg, R. Grinberg, Psicoanalisi dell’emigrazione e dell’esilio (1982), Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 58-60.
[xii] P.F. Peloso, S. Valli e coll., L’idea di guarigione nella storia della psichiatria, in: L. Barbieri, L. Basso, I. Boggian, D. Lamonaca, S. Merlin, P.F. Peloso, Storie di recovery. Percorsi ed esperienze nella riabilitazione psichiatrica, Trento, Erikson Live, 2013, pp. 9-21.
[xiii] M. Foucault,  Storia della follia nell’età classica (1963),, Milano, Rizzoli, 1972, pp. 47-48 e 52. Foucault cita in proposito Charron, per il quale: «La saggezza e la follia sono molto vicine. Non c’è che un mezzo giro dall’una all’altra. Questo si vede nelle azioni degli uomini insensati».
[xiv] M. Foucault,  Storia della follia … cit., p. 59.
 

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