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ORIGINE E CLASSIFICAZIONE DEL MUTISMO SELETTIVO

2 Lug 20

A cura di AIMuSe - Associazione Italiana Mutismo Selettivo

di Dott.ssa Manuela Udella, Dottoressa in Psicologia Clinica presso il Centro Lucio Bini, Cagliari. Referente Scolastico AIMuSe per la Sardegna, e Dott.ssa Caterina Visioli, Psicologa – Psicoterapeuta dell'Infanzia e Adolescenza – Centro Lucio Bini, Cagliari; Rete AIMuSe.

 

A volte la luce nel suo sguardo si faceva affilata,

come lo scintillio di una stella nel cielo di una notte d'inverno.

Se per qualche ragione si chiudeva nel mutismo,

poteva restare in silenzio per un tempo infinito,

come una di quelle rocce sull'altro lato della luna.

Il suo viso perdeva quasi ogni espressione,

e si poteva pensare che anche il suo corpo avesse perso ogni calore”.

Haruki Murakami

 

Il Mutismo Selettivo è un disturbo d’ansia che impedisce al bambino di comunicare in specifiche situazioni: familiare, scolastica ed extra-scolastica. Viene descritto come un disordine dell’infanzia caratterizzato da una persistente incapacità del bambino a comunicare verbalmente in determinati contesti (uno o più) di vita sociale, all’interno dei quali ci si aspetterebbe, ed è spesso richiesto, l’uso del linguaggio verbale (DSM 5 – Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali Va edizione, 2014).

Bisogna considerare che, nel corso degli anni, la Psicologia e la Psichiatria hanno offerto un contributo considerevole al riconoscimento e alla differenziazione dei disturbi mentali, delineandone le specifiche caratteristiche. Si è assistito – infatti – a un susseguirsi di studi, ricerche e analisi che – oggi – ci consentono di identificare e classificare in modo più accurato e dettagliato anche i disturbi tipici dell’infanzia. Come afferma anche Rangell “se è vero, come oggi crediamo, che l'individuo non è il risultato automatico della sua combinazione genetica, ma è invece il risultato del suo sviluppo, vale a dire della sua interazione con l'ambiente in cui nasce e cresce, dobbiamo ammettere che la psicopatologia individuale cambia, così come cambia l'individuo umano, a seconda dell'ambiente socio-culturale in cui si forma (Rangell 1975).

Nel corso degli anni, l’interpretazione data alle malattie mentali ha assunto significati e forme differenti. Per esempio, nel mondo greco e romano si era convinti che esse fossero dei castighi o degli eventi punitivi che venivano inflitti dalle divinità. Ippocrate fu il primo a considerare anche i disturbi mentali come “malattia”, ritenendo che il disturbo fisico quanto quello mentale derivasse in qualche modo da uno squilibrio fra quattro umori. Secondo la teoria umorale di Ippocrate (1965), infatti, il corpo umano sarebbe composto da quattro sostanze – bile nera (terra), bile gialla (fuoco), sangue (aria) e flegma (acqua) – dal cui equilibrio dipenderebbe la salute fisica e mentale, in quanto mente e corpo sono considerati un’unica realtà.

Nel Medioevo, il disagio psicologico tornò ad essere considerato un castigo divino generato dal demonio per arrivare poi al 1700, anno in cui emersero osservazioni decisamente più ragionevoli riguardo i disturbi psichici. A partire da tale periodo storico, infatti, gli individui considerati “malati” venivano condotti negli ospedali generali, nelle case di correzione, nelle prigioni e nelle case di lavoro.

Non si trattava di luoghi di cura per coloro che necessitavano di essere assistiti, ma di veri e propri luoghi di “ricovero forzato”. Ciò si verificò fino all’apertura degli ospedali psichiatrici, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento (Roscioni, 2011) grazie al medico francese Philippe Pinel, che propose la separazione dei malati mentali dai delinquenti e dei poveri dai malati. Con l’apertura degli ospedali psichiatrici, si iniziarono a osservare e descrivere con maggiore attenzione le malattie psichiche, ma anche a classificarle spesso in modo improvvisato o con l’uso di pratiche oppressive e limitative nei confronti dei pazienti.

Nel corso del 1900, questa condizione subì delle variazioni e si arricchì di interventi che mutarono la condizione degli individui ricoverati negli ospedali psichiatrici, anche grazie all'integrazione della psicoterapia con l'uso degli psicofarmaci. Per esempio, anche gli studi condotti da Freud e altri specialisti contribuirono a identificare, descrivere e classificare le malattie psichiche, come pure all'elaborazione di un modello integrato per la cura delle malattie mentali (Rizzoli, 2012). Inoltre, grazie alla legge n. 349 del 1977, la tutela della salute mentale venne considerata un diritto fondamentale: lo Stato ritenne necessaria la creazione di un Servizio Sanitario che potesse prendersi cura della malattia mentale.

Da qui, si arrivò alla pubblicazione della Legge n. 180 del 13 maggio 1978 "Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori" – nota come “Legge Basaglia” dal nome del suo ideatore – che stabilisce che “ Nei casi di cui alla presente legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall'autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura” .

Nel mese di dicembre sempre del 1978, venne pubblicata anche la legge n. 833 “Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale” che sancisce che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività mediante il Servizio Sanitario Nazionale. La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana”

A partire da questi contributi, si è andato così delineando il concetto di salute mentale e quello di psicopatologia, definita in base a:

  • numero e complessità dei sintomi,

  • continuità e permanenza dei sintomi,

  • influenza dei sintomi sulla qualità di vita dell’individuo.

Le proposte, pubblicazioni e revisioni avvenute nel corso degli anni da parte di centinaia di studiosi di tutte le parti del mondo, hanno poi contribuito al delinearsi di una classificazione delle malattie mentali, sempre migliore e più aggiornata.

La prima classificazione risale al 1869 ad opera dell’American Medico-Psychological Association (in seguito al suo Meeting annuale del 1894) per arrivare poi al 1952, quando l’American Psychiatric Association (APA) pubblicò la prima edizione del DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), cui seguiranno poi altre quattro edizioni. Inoltre, nel 1950, venne pubblicato anche l’ICD (International Classification of Diseases): una classificazione internazionale delle malattie e delle problematiche ad esse correlate, redatta dall‘Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), oggi all’undicesima edizione.

Attualmente, il DSM e l’ICD sono i sistemi di classificazione maggiormente utilizzati. L’ICD viene utilizzato a fini epidemiologici e statistici da numerosi Stati membri dell’OMS e racchiude un insieme concettuale di definizioni, standard e metodi che, sebbene non costituiscano di per sé delle classificazioni, sono state strettamente legate all’ICD per lungo tempo. Uno di questi concetti è lo sviluppo di metodi a supporto della raccolta ed uso d’informazioni per l’assistenza sanitaria di base a livello locale. L'ICD contiene, inoltre, due manuali (uno per il clinico e uno per il ricercatore) e una classificazione relativa a tutte le malattie riconosciute dall’OMS.

Il DSM, invece, oltre ad essere lo strumento maggiormente utilizzato e più semplice da consultare, indica i comportamenti e i sintomi specifici che gli individui possono presentare. Per ciascun disturbo, infatti, il DSM cita le manifestazioni cliniche che devono essere necessariamente presenti per poter stilare la diagnosi e descrive precisi criteri per farlo.

Rivolgendoci al caso specifico del Mutismo Selettivo, conoscere le origini dei sistemi di classificazione ci consente di comprendere meglio le ipotesi sul disturbo formulate nel corso degli anni da vari studiosi e le definizioni spesso molto differenti formulate per descriverne le caratteristiche.

I primi studi sul tema furono condotti nel 1877 dal medico tedesco Adolf Kussmaul, il quale denominò il disturbo “Aphasia voluntaria” (Iacchia & Ancarani, 2018), per descrivere l’atteggiamento di alcune persone che decidevano volontariamente di non parlare. Cinquant’anni dopo e precisamente nel 1927, tale disturbo venne denominato “Mutismo Psicogeno” dalla psicologa Sophie Morgenstern (Aliprandi & Prati, 1999), che descrisse il caso di un bambino di nove anni, affermando che fossero il complesso di Edipo e quello di castrazione a generare in lui il silenzio e una sorta di oppositività nei confronti della figura paterna. Al tempo, dunque, era presente una lettura del silenzio come una sorta di provocazione. Successivamente, nel 1934, lo psichiatra svizzero Moritz Tramer parlò di “Mutismo Elettivo” (Tramer, 1934), sostenendo che l’assenza della comunicazione verbale si verificasse solo con alcune persone e in determinati contesti “eletti”, ovvero scelti volontariamente dall’individuo.

Trent’anni più avanti, si cercò di comprendere quali fossero le caratteristiche di questo disturbo da un punto di vista psicodinamico. Venne ipotizzato che la dipendenza eccessiva dalla figura di accudimento principale, ovvero la madre, potesse generare il silenzio, per tenere sotto controllo alcuni impulsi difficili da gestire e tollerare (es. rabbia e sessualità).

Negli stessi anni, Lebovici, Diatkine e Kalin descrissero in una loro pubblicazione intitolata “Le mutisme et les silences de l’enfant (Lebovici, Diatkine, Klein, 1963) le cause del Mutismo Selettivo, attribuendole a una modalità comunicativa tipica dell’ambiente familiare. Essi sostennero che il sintomo raramente dipenda solo dalle caratteristiche del bambino, ma che ci sia un coinvolgimento di elementi legati all'interazione con il genitore.

Reed (1963) suggerì, invece, che il Mutismo Elettivo potesse essere un “modello di comportamento appreso" distinguibile in due tipi, uno "immaturo e manipolativo" e l’altro "teso e ansioso" (Reed, 1963).

Nel 1980 iniziò a delinearsi uno scenario differente: le ricerche iniziarono ad estendersi con l’obiettivo di comprendere le cause biologiche e genetiche del disturbo. Si giunse quindi alla definizione di Mutismo Selettivo da parte della psicologa svedese Stina Hesselman (1983). Grazie al suo contributo, si concentrò l’attenzione sull’impedimento dei bambini a comunicare solo in alcune e “selezionate” situazioni, all’interno di un ambiente percepito come minaccioso.

Solo nel 1994 si arrivò a comprendere che il Mutismo Selettivo non è determinato da una volontà a non parlare, ma dipende dal contesto sociale. Inoltre, le americane Sue Newman e Carolyn Miller, co-fondatrici della Selective Mutism Foundation, riuscirono a far inserire il termine Mutismo Selettivo nella quarta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico per i Disturbi Mentali (DSM-IV – APA, 1994) tra gli “altri disturbi dell’infanzia, della fanciullezza o dell’adolescenza”.

Nelle precedenti versioni del DSM [DSM III e III R (1980-1987)], invece, il disturbo veniva denominato Mutismo Elettivo e inserito tra i disturbi dell’infanzia, della fanciullezza e dell’adolescenza con le seguenti caratteristiche: “rifiuto deliberato di parlare con chiunque in qualunque contesto”.

Con il DSM IV e IV R (1994-2000), invece, venne data una definizione che aveva l’intento di ridefinire in qualche modo il disturbo, denominandolo Mutismo Selettivo e inserendolo ancora tra i disturbi dell’infanzia, della fanciullezza e dell’adolescenza, ma con differenti caratteristiche diagnostiche: “costante incapacità di parlare in situazioni sociali specifiche nonostante parlare sia possibile in altre situazioni”.

Il DSM V attualmente in vigore include il Mutismo Selettivo tra i Disturbi d’Ansia, e non più fra i disturbi tipici dell'età dello sviluppo, con il codice 313.23 e cita vari fattori predisponenti (es. iperprotezione, controllo genitoriale, timidezza nei genitori, aspetto genetico, nevroticismo e inibizione sociale). Al momento, per poter avere una diagnosi affidabile e attendibile, è necessario che il bambino presenti i criteri previsti da tale versione, ovvero che:

  • manifesti le difficoltà comunicative sopra menzionate da almeno un mese, non limitato al primo mese di scuola;

  • la condizione interferisca con i risultati scolastici o con la comunicazione sociale;

  • non siano presenti difficoltà dal punto di vista prettamente linguistico e che la persona sia in grado, dunque, di parlare adeguatamente la propria lingua (la situazione è differente per i bambini bilingue).

Per quanto concerne l’ICD, ad oggi non sono presenti dati ufficiali che possano consentirci di stabilire la rilevanza del disturbo sulla popolazione generale. É noto che il Mutismo Selettivo nel corso degli ultimi anni ha avuto un elevato incremento nel numero dei casi segnalati coinvolgendo, secondo le stime internazionali, 7 bambini su mille. In ogni caso, il fenomeno è altamente sottovalutato.

Nella decima versione dell’ICD, approvata nel 1990 e utilizzata a partire dal 1994 è presente la dicitura “Mutismo Elettivo” nella categoria F 94.0 all’interno del capitolo sui disturbi del funzionamento sociale con esordio nell’infanzia o nell’adolescenza, con la descrizione ‘il bambino rivela la sua abilità linguistica in certe situazioni e non in altre’.

Nell’ICD 11 – attualmente in preparazione il nome non conterrà più la dicitura Mutismo Elettivo ma diverrà Mutismo Selettivo e si procederà con l’inserimento tra i Disturbi d’Ansia, similmente alla classificazione contenuta nel DSM-5. L’ICD 11 entrerà in vigore dal 1 gennaio 2022 e conterrà il codice specifico relativo al Mutismo Selettivo: 6B06.

In conclusione, la particolare attenzione posta alle origini del Mutismo Selettivo ci ha accompagnato verso una significativa panoramica sul disturbo, che va dalle prime ipotesi e interpretazioni dello stesso, fino all’attuale definizione. Inoltre, è interessante osservare le notevoli trasformazioni avvenute nel corso dei secoli e nelle diverse culture, riguardo l’interpretazione e l’atteggiamento verso le malattie mentali.

Un susseguirsi di mutevoli scenari ci ha consentito di ripercorrere la storia della follia umana, dalla malattia come intervento divino e – successivamente – come possessione demoniaca, all’apertura degli Ospedali Generali, per arrivare agli ospedali psichiatrici. Il disagio mentale, che veniva studiato e pensato come incurabile e indecifrabile, oggi viene descritto e diagnosticato attraverso i criteri presenti nel DSM e ICD, i sistemi di classificazione più conosciuti e utilizzati, e – anche grazie a questo – può essere quindi curato. Ciò è di particolare importanza nei casi di disagio infantile, come ad esempio il Mutismo Selettivo, che – precocemente e adeguatamente riconosciuto – oggi può essere più facilmente risolto prevenendo ricadute sul benessere psicologico in età successive.

 

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