Segue dalla Parte I, “Gli amori” (clicca e vai all’inizio)
Considerazioni psicopatologiche, diagno-stiche e cliniche su un quadro furioso
La “furia” – che rappresenta il permanere indelebile nell’uomo civile della radice ferina e selvaggia da cui viene – entra nel poema quando Angelica e Medoro, lasciato il loro bucolico idillio che tanta gelosia avrebbe evocato in Orlando, incontrano sulla spiaggia prima di Barcellona un “uom pazzo”, sporco di fango come un maiale, che li aggredisce come un cane inferocito[i]; e il lettore saprà poi – con un ritardo letterariamente indovinato – nessun altro essere, se non lo stesso Orlando.
Torniamo a incontrarla poco dopo, quando il paladino Orlando – tanto preso d’amore, non ricambiato, per Angelica da aver lasciato il suo re in pericolo, da avere cioè disertato, per seguirla – capita nel luogo dove lei e Medoro hanno lasciato tracce dell’idillio amoroso.
Ha così inizio da parte dell’Ariosto quella «più che descrizione e narrazione epica, la quale dalla minuta e fedele osservazione dei succedentisi momenti psicologici va a passo a passo crescendo vorticosa e vertiginosa e finisce in uno scoppio titanico»[ii], la tragedia cioè della furia d’Orlando. Un «accuratissimo sforzo» da parte sua «nell’approfondire il rapporto tra il dato reale, il sospetto, ed il reperimento successivo di tracce che scandiscono i tempi della trasformazione psicologica di Orlando»[iii].
La prima reazione del conte è infatti volta a proteggersi dalla consapevolezza di un’amara verità: forse si tratta di altra Angelica, forse Medoro è un nomignolo col quale la bellissima a lui si riferisce. Ma ecco apparirgli una poesia d’amore incisa nel sasso da Medoro e: «Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto / quello infelice, / e pur cercando invano / che non vi fosse quello che era scritto; / e sempre lo vedea più chiaro e piano»[iv].
Le sensazioni del conte sono descritte con grande precisione: «et ogni volta in mezzo il petto afflitto / stringersi il cor sentia con fredda mano. / Rimase al fin cogli occhi e colla mente / fissi nel sasso, al sasso indifferente». Abbassato il mento, rabbuiata la fronte, non trova la forza né per lamentarsi né per piangere; e commenta Ariosto solidale: «Credete a chi n’ha fatto esperimento / che questo è il duol che tutti gli altri passa»[v].
Il dolore immenso che prova dentro di sé Orlando non trova sfogo, e ancora il paladino cerca l’autoinganno, attraverso la soluzione persecutoria: forse qualcuno vuole infamare Angelica, vuol torturare lui col farlo impazzire di gelosia (evidente la disposizione psicologica egocentrica; a essere fuori da quella scena, proprio non ci sta). Insomma: non è vero!
Orlando ha lasciato il campo di Carlo perché ha visto in sogno Angelica bisognosa del suo aiuto[vi], e al palazzo d’Atlante ha per due volte la stessa illusione[vii]; ma la regina invece né chiede il suo aiuto, né usa ricompensare col concedersi a lui chi l’aiuta, come Ruggiero impara a sue spese dopo averla salvata dall’orca. Si mostra, semmai, pietosa con colui che può lei aiutare, consola Sacripante dopo che è stato disarcionato al suo cospetto, e s’innamora di Medoro che raccoglie quasi esamine e attende salvezza dalle sue mani. Non è Angelica, Orlando imparerà a sue spese, ad avere bisogno di lui; è lui che ha bisogno di sentirsi il suo salvatore. E proprio la sensazione di esser per lei superfluo, irrilevante, di troppo, nella quale sbatte ora gli occhi, lo riempie di furia, invidia, rabbia, gelosia, violenza.
Il racconto dei pastori che sono stati pronubi alla coppia felice e la vista del gioiello che egli stesso ha donato ad Angelica e questa ai suoi ospiti, chiudono definitivamente al conte la via dell’autoinganno. Sa trattenere le lacrime e i gemiti fino al momento in cui è solo nel letto (l’orgoglio, evidentemente, è in quel momento ancora più forte del dolore, lui è ancora un cavaliere); poi si abbandona al pianto, straziato. Si rende conto, quasi fisicamente, che il letto in cui giace è quello in cui trovarono riposo e invidiata gioia i due amanti; lascia allora nottetempo la casa e dà pieno sfogo alla disperazione.
Ariosto descrive a questo punto nel paladino un interessante vissuto di dissociazione: si sente morto, e sente che ciò che rimane di lui non è che lo spirito prigioniero di tormenti infernali, e monito per chi creda nell’amore. Orlando abiura, insomma, amore, perché non gli ha dato quello che da esso pretendeva, e anche la donna fino ad allora amata è ora (ingiustamente) da lui tacciata di ingratitudine e accusata di quella sua morte[viii]. E’ questo un meccanismo frequente: l’oscillazione odi et amo.
Il superbo paladino è divorato dall’invidia per Medoro, dalla gelosia di Angelica. E’ una miscela intollerabile che fa sì che il dolore tenda a volgersi all’esterno e si trasformi ora in ira irrefrenabile, la furia appunto; una metamorfosi alla quale concorrono, mi pare, tre elementi, che identificherei nell’ordine nella cocente delusione patita, oltre che nella personalità di Orlando e nella concezione che ha della donna, tre temi sui quali ci siamo già soffermati. E al termine di quella notte straziante, quindi, esplode la sua crisi pantoclastica, al termine della quale giace per tre giorni immobile, a terra, fissi gli occhi nel cielo, senza avvertire appetito né sonno. Finché il quarto giorno, uscito di senno, si disarma e si spoglia: «e cominciò la gran follia, sì orrenda / che de la più non sarà mai ch’intenda»[ix]. Alberi, pastori e armenti ne fanno le spese: «ch’a pugni, ad urti, a morsi, a graffi, a calci, / cavalli e buoi rompe, fracassa e strugge»[x]. La relazione tra sé e il mondo lo ha deluso; potrebbe anche interromperla distruggendo sé, sceglie di distruggere il mondo. Tanta forza e poco senno sono una pessima combinazione: la più pericolosa. E ancora: «Spesso con orsi e con cingiai contese, / e con man nude li pose a giacere; / e di lor carne con tutta la spoglia / più volte il ventre empì con fiera voglia»[xi].
Tre considerazioni allora su questo brusco esordio della furia di Orlando, che lo riduce a uno stato bestiale. La prima è che la furia di Orlando è strettamente collegata a una delusione in amore, e a questo quadro la medicina del Rinascimento dava il nome di mal d’amore, o malinconia erotica, amore sfrenato[xii]. Si tratta di un quadro, che nella letteratura cavalleresca conosce illustri precedenti in Lancillotto e Tristano, al quale pure abbiamo già avuto modo di fare riferimento a proposito di Chisciotte, che, introdotto dalla medicina araba, trovò cultori tra i medici europei del XVI e XVII secolo, a partire da André du Laurens e Jacques Ferrand, che ad esso dedicarono una monografia rispettivamente nel 1597 e nel 1610, la seconda tradotta in italiano da Marsilio[xiii]. Nella concezione di Ariosto, che confessa almeno in due occasione nel poema di esserne caduto vittima egli stesso, l’amore è una forza prorompente, un uragano capace di sconvolgere la mente, e la follia d’amore, anzi, è il prototipo stesso della follia: «E qual è di pazzia segno più espresso / che, per altrui voler, perder se stesso?»[xiv]. L’inizio della furia di Orlando dà, così, all’Ariosto l’opportunità di dirci qualcosa della sua idea della pazzia, a proposito della quale pare condividere, nella diatriba che diverrà poi esplicita tra gli psichiatri del XIX secolo e dura sopita ancora oggi, il modello della psicosi unica; la pazzia infatti è una sola, cambiano i sintomi semmai: «Varii gli effetti son, ma la pazzia / è tutt’una però, che li fa uscire»[xv]. Sintomo patognomonico pare esserne il delirio, tanto da fargli scrivere, nella stessa ottava: «Gli è come una gran selva, ove la via / conviene a forza, a chi vi va, fallire». Mi pare interessante poi che, nell’ottava successiva, a proposito della sua stessa esperienza dell’amore sfrenato, l’Ariosto evochi il concetto di “lucido intervallo”, un concetto che ha fatto discutere gli psichiatri, dal XVII al XIX secolo e ha incontrato non pochi intralci allora ad affermarsi in psicopatologia[xvi].
La seconda considerazione è che, delle due forme principali che la medicina classica considerava a proposito della follia, melanconia e mania, l’Ariosto pare riferirsi qui alla seconda. La mania, infatti, è, secondo la medicina classica un delirio nel quale, se nella melanconia a prevalere sono timore e paura, prevale invece il furore, accompagnato da esagerazione della forza muscolare, della capacità di vegliare, di tollerare fame e freddo. E quanto al furore (da cui “furioso”), si tratta di un eccesso d’ira, analogo a quello che si può osservare negli ubriachi e negli iracondi, che porta a fare con le parole e coi fatti cose cattive e crudeli, senza motivo[xvii]. La mania quindi, al contrario della malinconia che sarà di un altro famoso folle letterario, don Chisciotte, non può essere manipolata con un elegante e garbato “trattamento morale”, con il ricorso all’astuzia e alle armi del dialogo e del sillogismo; non ha logica che possa prestarsi come appiglio per la cura, è sorda e cieca agli altri che non possono perciò, come vedremo, altro che afferrarla brutalmente per il corpo e imprigionarla nel corpo legato. E sono, a un dipresso, quella della possibilità o della temporanea impossibilità del dialogo due situazioni nelle quali anche oggi è possibile venirsi a trovare nei Pronto soccorso[xviii].
L’ultima considerazione riguarda la diagnosi che per la furia di Orlando può essere formulata, perché non possiamo certo essere sicuri che di mania, cioè di una forma di malattia mentale, qui si tratti. Siamo, infatti, qui in quelle situazioni di continuum in cui l’ira smisurata degrada senza soluzione di continuità nella mania, situazioni che ancora oggi imbarazzano i periti nelle quali l’ira tracima fino a farsi immotivatamente distruttiva, pericolosa, ingovernata e ingovernabile da sembrare follia: «In tanta rabbia, in tanto furor venne / che rimase offuscato in ogni senno»[xix]. Difficile dire che quest’uomo, che toglie di vita ogni persona o cosa che incontra, non sia pazzesco nel suo comportamento. Difficile anche però dire che sia clinicamente pazzo, perché riconosciamo all’origine della sua follia un’ira, infondo, ben comprensibile in base agli elementi prima individuati. In altri termini, quello di Orlando è un modo di essere nel mondo – il modo della distruzione – alla base del quale non sta una violenza che origina dal delirio, dalla pazzia, dalla frattura psicotica; ma al contrario una pazzia che origina, superato un limite insensibile che non sapremmo bene dove collocare, ma avvertiamo che c’è, dalla rabbia e dalla violenza. L’ambiguità del confine tra ira intensa e forma maniacale, eccitata della pazzia del resto è presente alla cultura da sempre; nel fare il punto a metà del XIX secolo sulla passione dell’ira, il medico divulgatore francese Jean Baptiste Félix Descuret (1795-1871), sul quale avremo occasione di ritornare nel prossimo intervento su questa rubrica[xx], l’ira è definita da Orazio “una pazzia di breve durata”, da altri “una matta passione (…) un incamminamento alla pazzia”, mentre per il poeta greco Filemone “siamo tutti insensati quando montiamo in collera” [xxi]. Mi pare insomma evidente che la percezione sia in genere quella che l’ira, come altre passioni, possa sfumare insensibilmente, oltrepassato un certo (indefinito) limite, in follia, possa cioè far “perdere la testa” e questo è senz’altro interessante per la psichiatria forense in quanto l’ira, se da una parte può generare la follia, dall’altra può con frequenza generare un comportamento violento.
Se dovessimo giudicare col nostro codice penale le colpe di Orlando, insomma, potremmo assolverlo in base all’art. 88, per il quale non è imputabile chi quando commise il fatto (i fatti in questo caso!) era incapace di intendere e volere in relazione a un’infermità di mente. O condannarlo in base all’art. 90: perché emozioni e passioni non escludono né diminuiscono l’imputabilità. Probabilmente faremmo, nell’incertezza se a passione estrema o follia questo furore corrisponda, l’una e l’altra cosa insieme, ricorrendo all’art. 89 e considerando quindi il conte in una posizione epistemologicamente fragile, uomo a un tempo da punire e da custodire curandolo[xxii].
Il furioso Orlando intanto prosegue il suo insensato peregrinare seminando morte e distruzione in tutto ciò in cui s’imbatte; e incontra, appunto, Angelica con Medoro sulla spiaggia, non la riconosce né è da lei riconosciuto tanto il furore ne ha alterato i lineamenti e di nuovo, colpito dalla bellezza della donna, comunque la insegue bestialmente uccidendone la cavalla e ancora seminando morte, e poi: «Avrebbe così fatto, o poco manco / alla sua donna, se non s’ascodea; / perché non discernea il nero dal bianco, / e di giovar nocendo si credea»[xxiii]. Il suo inseguirla adesso non è più quello del cavaliere la dama; è furiosa voglia di belva, desiderio animale. Ma di ciò abbiamo già detto.
Di lì il “periglioso matto” – matto come ho detto non sappiamo, ma periglioso senza dubbio – giunge a Malaga e vorrebbe imbarcarsi a Gibilterra per l’Africa, ma viene rifiutato dalla barca, «che volentier tal merce non si carca»[xxiv], ed è costretto a passare a cavallo e poi, quando questo muore stremato, proseguire a nuoto. E sarà in Africa che, ancora avendo “di fera più che d’uom il volto”, Orlando s’imbatterà negli amici i quali, mossi a pietà per la sua condizione, si decidono a immobilizzarlo e costringerlo ad aspirare il senno che nel frattempo Astolfo, per l’intercessione di San Giovanni Evangelista, ha recuperato sulla luna, dove si conservano le cose perdute sulla terra; e quindi, in maggiore o minor misura Ariosto malignamente suggerisce, il senno di ciascuno. Il quale «era come un liquor suttile e molle / atto a esalar se non si tien ben chiuso»[xxv], cioè se non si compie quel lavoro faticoso e incessante che è necessario all’uomo per contrastare la sua spontanea tendenza a dileguarsi.
Hanno quindi inizio il blocco e la contenzione di Orlando: «Orlando che si vide fare il cerchio / menò il baston da disperato e folle; / et a Dudon che si facea coperchio / al capo de lo scudo ad entrar volle, fe’ sentir ch’era grave di soperchio / (…) Lo scudo roppe solo, e su l’elmetto / tempestò sì, che Dudon cadde in terra / (…) / Brandimarte ch’addosso se gli serra, / gli cigne i fianchi, quanto può, con ambe / le braccia, e Astolfo il piglia ne le gambe. / Scuotesi Orlando, e lungi dieci passi / da sé l’Inglese fa cader riverso / (…) / Ad Olivier che troppo inanzi fassi, / menò un pugno sì duro e sì perverso, / che lo fa cader pallido ed esangue, / e dal naso e dagli occhi uscirgli il sangue. / E se non era l’elmo più che buono / ch’avea Olivier, l’avria quel colpo ucciso»[xxvi]. Gli amici si riprendono dalle botte e tornano ad afferrare Orlando chi alla vita chi agli arti; furioso, questi li trascina con sé, come nella caccia un animale inferocito fa coi cani che l’hanno azzannato. Oliviero, riavutosi dal gran colpo, corre ancora in soccorso agli altri e riesce a far cadere il conte e iniziare a legarlo con robuste funi: «et alle gambe et alle braccia alcune / fe’ porre al conte, e a traverso il resto. / (…) Per quella via che maniscalco atterra / cavallo o bue, fu tratto Orlando in terra / Come egli è in terra, gli son tutti addosso / e gli legan più forte e piedi e mani. / Assai di qua e di là s’è Orlando scosso; / ma sono i suoi risforzi tutti vani»[xxvii].
Così atterrato e legato, gli amici ora hanno buon gioco a lavarlo e costringerlo a inalare il senno, che sono andati fin sulla luna per recuperargli, finché: «così, poi che fu Orlando d’error tratto, / restò meraviglioso e stupefatto»[xxviii]. Chiede allora di essere slegato e ancora gli amici, visto lo sguardo “sì men de l’usato bieco”, provvedono, e cominciano a consolarlo del dolore e la vergogna che gli dà la tardiva consapevolezza degli errori commessi nel tempo del furore; Aiace rinsavito si dà la morte per la vergogna di ciò che ha commesso quando superbia, invidia e ira combinandosi lo hanno ridotto alla follia. Orlando in quel momento è soccorso moralmente dagli amici, quelli che si sono volontariamente esposti alla sua dissennata violenza per aiutarlo, si sente riaccolto, perdonato da loro e riesce a superare quella che oggi definiremmo uno stato di grave depressione postpsicotica. Adesso è rinsavito e «colei che sì bella e gentile / gli parve dianzi, e ch’avea tanto amato, / non stima più se non per cosa vile»[xxix]. La dolcezza di questo suo risvegliarsi dalla furia, è molto simile a quella di quando vediamo, nella pratica clinica, i nostri pazienti uscire dalla crisi psicotica guariti e riprendere consapevolezza della realtà; è una situazione simile a quella di assistere a una nascita.
L’esaltazione fissata in Angelica è risolta con la furia a cui l’aveva portato, e il mondo ritrova per lui la proporzione antropologica, l’ampiezza che gli è propria: ritorna a essere popolato di tante donne e cose belle, e l’esistenza a presentare tante dimensioni diverse oltre l’amore: l’amicizia in primo luogo.
La furia di Orlando ha così termine. Perché questo accadesse, perché potesse assumere la “terapia”, è stato necessario passare per la contenzione. Orlando, doppiamente furioso a quel punto, si ribella a quest’atto e colpisce violentemente gli amici. Ma essi, pazientemente, sopportano bastonate e pugni – e sono pugni di Orlando! – senza farne vendetta né abbandonarlo a sé. Sono disposti a mettere a rischio la propria sicurezza e patirne in certa misura i colpi, pur di bloccarlo senza fargli male. E, mentre lui li colpisce con violenza, sono solo preoccupati d’immobilizzarlo evitando di comprimere le aree vitali del corpo, e limitando la presa al busto e agli arti come i più accreditati e attenti protocolli oggi suggeriscono. Ancora, alla sua prima richiesta di essere slegato, ne leggono l’espressione e di fronte a uno sguardo che pare meno bieco sono subito disposti a provarci, per non dispiacergli e per dargli fiducia. Non credo che fosse intenzione dell’Ariosto offrire agli operatori psichiatrici di ieri e di oggi cose su cui riflettere a proposito del più complesso e contraddittorio degli atti che possono trovarsi a dover compiere, la contenzione, ma tant’è[xxx]. Un atto che ciascuno dovrebbe sempre cercare di evitare e, se costretto, di porlo in essere così come se si stesse occupando, come i paladini di Carlo, del più caro, e in quel momento più sfortunato, degli amici. Una stretta che sia robusta il necessario, ma insieme sempre rispettosa, come se si stringesse il corpo in quel momento più delicato e più caro. Come se quel corpo bloccato, legato, fosse sempre il proprio; e allora credo che si starebbe ben attenti a limitare la necessità di quest’atto, la contenzione, davvero al minimo sia per frequenza che per durata. O farne proprio a meno, se è possibile. E con questo, vorrei terminare «col ringraziar di questo libr’antico / la cortesia, di messer Ludovico».
Considerazioni psicopatologiche, diagno-stiche e cliniche su un quadro furioso
La “furia” – che rappresenta il permanere indelebile nell’uomo civile della radice ferina e selvaggia da cui viene – entra nel poema quando Angelica e Medoro, lasciato il loro bucolico idillio che tanta gelosia avrebbe evocato in Orlando, incontrano sulla spiaggia prima di Barcellona un “uom pazzo”, sporco di fango come un maiale, che li aggredisce come un cane inferocito[i]; e il lettore saprà poi – con un ritardo letterariamente indovinato – nessun altro essere, se non lo stesso Orlando.
Torniamo a incontrarla poco dopo, quando il paladino Orlando – tanto preso d’amore, non ricambiato, per Angelica da aver lasciato il suo re in pericolo, da avere cioè disertato, per seguirla – capita nel luogo dove lei e Medoro hanno lasciato tracce dell’idillio amoroso.
Ha così inizio da parte dell’Ariosto quella «più che descrizione e narrazione epica, la quale dalla minuta e fedele osservazione dei succedentisi momenti psicologici va a passo a passo crescendo vorticosa e vertiginosa e finisce in uno scoppio titanico»[ii], la tragedia cioè della furia d’Orlando. Un «accuratissimo sforzo» da parte sua «nell’approfondire il rapporto tra il dato reale, il sospetto, ed il reperimento successivo di tracce che scandiscono i tempi della trasformazione psicologica di Orlando»[iii].
La prima reazione del conte è infatti volta a proteggersi dalla consapevolezza di un’amara verità: forse si tratta di altra Angelica, forse Medoro è un nomignolo col quale la bellissima a lui si riferisce. Ma ecco apparirgli una poesia d’amore incisa nel sasso da Medoro e: «Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto / quello infelice, / e pur cercando invano / che non vi fosse quello che era scritto; / e sempre lo vedea più chiaro e piano»[iv].
Le sensazioni del conte sono descritte con grande precisione: «et ogni volta in mezzo il petto afflitto / stringersi il cor sentia con fredda mano. / Rimase al fin cogli occhi e colla mente / fissi nel sasso, al sasso indifferente». Abbassato il mento, rabbuiata la fronte, non trova la forza né per lamentarsi né per piangere; e commenta Ariosto solidale: «Credete a chi n’ha fatto esperimento / che questo è il duol che tutti gli altri passa»[v].
Il dolore immenso che prova dentro di sé Orlando non trova sfogo, e ancora il paladino cerca l’autoinganno, attraverso la soluzione persecutoria: forse qualcuno vuole infamare Angelica, vuol torturare lui col farlo impazzire di gelosia (evidente la disposizione psicologica egocentrica; a essere fuori da quella scena, proprio non ci sta). Insomma: non è vero!
Orlando ha lasciato il campo di Carlo perché ha visto in sogno Angelica bisognosa del suo aiuto[vi], e al palazzo d’Atlante ha per due volte la stessa illusione[vii]; ma la regina invece né chiede il suo aiuto, né usa ricompensare col concedersi a lui chi l’aiuta, come Ruggiero impara a sue spese dopo averla salvata dall’orca. Si mostra, semmai, pietosa con colui che può lei aiutare, consola Sacripante dopo che è stato disarcionato al suo cospetto, e s’innamora di Medoro che raccoglie quasi esamine e attende salvezza dalle sue mani. Non è Angelica, Orlando imparerà a sue spese, ad avere bisogno di lui; è lui che ha bisogno di sentirsi il suo salvatore. E proprio la sensazione di esser per lei superfluo, irrilevante, di troppo, nella quale sbatte ora gli occhi, lo riempie di furia, invidia, rabbia, gelosia, violenza.
Il racconto dei pastori che sono stati pronubi alla coppia felice e la vista del gioiello che egli stesso ha donato ad Angelica e questa ai suoi ospiti, chiudono definitivamente al conte la via dell’autoinganno. Sa trattenere le lacrime e i gemiti fino al momento in cui è solo nel letto (l’orgoglio, evidentemente, è in quel momento ancora più forte del dolore, lui è ancora un cavaliere); poi si abbandona al pianto, straziato. Si rende conto, quasi fisicamente, che il letto in cui giace è quello in cui trovarono riposo e invidiata gioia i due amanti; lascia allora nottetempo la casa e dà pieno sfogo alla disperazione.
Ariosto descrive a questo punto nel paladino un interessante vissuto di dissociazione: si sente morto, e sente che ciò che rimane di lui non è che lo spirito prigioniero di tormenti infernali, e monito per chi creda nell’amore. Orlando abiura, insomma, amore, perché non gli ha dato quello che da esso pretendeva, e anche la donna fino ad allora amata è ora (ingiustamente) da lui tacciata di ingratitudine e accusata di quella sua morte[viii]. E’ questo un meccanismo frequente: l’oscillazione odi et amo.
Il superbo paladino è divorato dall’invidia per Medoro, dalla gelosia di Angelica. E’ una miscela intollerabile che fa sì che il dolore tenda a volgersi all’esterno e si trasformi ora in ira irrefrenabile, la furia appunto; una metamorfosi alla quale concorrono, mi pare, tre elementi, che identificherei nell’ordine nella cocente delusione patita, oltre che nella personalità di Orlando e nella concezione che ha della donna, tre temi sui quali ci siamo già soffermati. E al termine di quella notte straziante, quindi, esplode la sua crisi pantoclastica, al termine della quale giace per tre giorni immobile, a terra, fissi gli occhi nel cielo, senza avvertire appetito né sonno. Finché il quarto giorno, uscito di senno, si disarma e si spoglia: «e cominciò la gran follia, sì orrenda / che de la più non sarà mai ch’intenda»[ix]. Alberi, pastori e armenti ne fanno le spese: «ch’a pugni, ad urti, a morsi, a graffi, a calci, / cavalli e buoi rompe, fracassa e strugge»[x]. La relazione tra sé e il mondo lo ha deluso; potrebbe anche interromperla distruggendo sé, sceglie di distruggere il mondo. Tanta forza e poco senno sono una pessima combinazione: la più pericolosa. E ancora: «Spesso con orsi e con cingiai contese, / e con man nude li pose a giacere; / e di lor carne con tutta la spoglia / più volte il ventre empì con fiera voglia»[xi].
Tre considerazioni allora su questo brusco esordio della furia di Orlando, che lo riduce a uno stato bestiale. La prima è che la furia di Orlando è strettamente collegata a una delusione in amore, e a questo quadro la medicina del Rinascimento dava il nome di mal d’amore, o malinconia erotica, amore sfrenato[xii]. Si tratta di un quadro, che nella letteratura cavalleresca conosce illustri precedenti in Lancillotto e Tristano, al quale pure abbiamo già avuto modo di fare riferimento a proposito di Chisciotte, che, introdotto dalla medicina araba, trovò cultori tra i medici europei del XVI e XVII secolo, a partire da André du Laurens e Jacques Ferrand, che ad esso dedicarono una monografia rispettivamente nel 1597 e nel 1610, la seconda tradotta in italiano da Marsilio[xiii]. Nella concezione di Ariosto, che confessa almeno in due occasione nel poema di esserne caduto vittima egli stesso, l’amore è una forza prorompente, un uragano capace di sconvolgere la mente, e la follia d’amore, anzi, è il prototipo stesso della follia: «E qual è di pazzia segno più espresso / che, per altrui voler, perder se stesso?»[xiv]. L’inizio della furia di Orlando dà, così, all’Ariosto l’opportunità di dirci qualcosa della sua idea della pazzia, a proposito della quale pare condividere, nella diatriba che diverrà poi esplicita tra gli psichiatri del XIX secolo e dura sopita ancora oggi, il modello della psicosi unica; la pazzia infatti è una sola, cambiano i sintomi semmai: «Varii gli effetti son, ma la pazzia / è tutt’una però, che li fa uscire»[xv]. Sintomo patognomonico pare esserne il delirio, tanto da fargli scrivere, nella stessa ottava: «Gli è come una gran selva, ove la via / conviene a forza, a chi vi va, fallire». Mi pare interessante poi che, nell’ottava successiva, a proposito della sua stessa esperienza dell’amore sfrenato, l’Ariosto evochi il concetto di “lucido intervallo”, un concetto che ha fatto discutere gli psichiatri, dal XVII al XIX secolo e ha incontrato non pochi intralci allora ad affermarsi in psicopatologia[xvi].
La seconda considerazione è che, delle due forme principali che la medicina classica considerava a proposito della follia, melanconia e mania, l’Ariosto pare riferirsi qui alla seconda. La mania, infatti, è, secondo la medicina classica un delirio nel quale, se nella melanconia a prevalere sono timore e paura, prevale invece il furore, accompagnato da esagerazione della forza muscolare, della capacità di vegliare, di tollerare fame e freddo. E quanto al furore (da cui “furioso”), si tratta di un eccesso d’ira, analogo a quello che si può osservare negli ubriachi e negli iracondi, che porta a fare con le parole e coi fatti cose cattive e crudeli, senza motivo[xvii]. La mania quindi, al contrario della malinconia che sarà di un altro famoso folle letterario, don Chisciotte, non può essere manipolata con un elegante e garbato “trattamento morale”, con il ricorso all’astuzia e alle armi del dialogo e del sillogismo; non ha logica che possa prestarsi come appiglio per la cura, è sorda e cieca agli altri che non possono perciò, come vedremo, altro che afferrarla brutalmente per il corpo e imprigionarla nel corpo legato. E sono, a un dipresso, quella della possibilità o della temporanea impossibilità del dialogo due situazioni nelle quali anche oggi è possibile venirsi a trovare nei Pronto soccorso[xviii].
L’ultima considerazione riguarda la diagnosi che per la furia di Orlando può essere formulata, perché non possiamo certo essere sicuri che di mania, cioè di una forma di malattia mentale, qui si tratti. Siamo, infatti, qui in quelle situazioni di continuum in cui l’ira smisurata degrada senza soluzione di continuità nella mania, situazioni che ancora oggi imbarazzano i periti nelle quali l’ira tracima fino a farsi immotivatamente distruttiva, pericolosa, ingovernata e ingovernabile da sembrare follia: «In tanta rabbia, in tanto furor venne / che rimase offuscato in ogni senno»[xix]. Difficile dire che quest’uomo, che toglie di vita ogni persona o cosa che incontra, non sia pazzesco nel suo comportamento. Difficile anche però dire che sia clinicamente pazzo, perché riconosciamo all’origine della sua follia un’ira, infondo, ben comprensibile in base agli elementi prima individuati. In altri termini, quello di Orlando è un modo di essere nel mondo – il modo della distruzione – alla base del quale non sta una violenza che origina dal delirio, dalla pazzia, dalla frattura psicotica; ma al contrario una pazzia che origina, superato un limite insensibile che non sapremmo bene dove collocare, ma avvertiamo che c’è, dalla rabbia e dalla violenza. L’ambiguità del confine tra ira intensa e forma maniacale, eccitata della pazzia del resto è presente alla cultura da sempre; nel fare il punto a metà del XIX secolo sulla passione dell’ira, il medico divulgatore francese Jean Baptiste Félix Descuret (1795-1871), sul quale avremo occasione di ritornare nel prossimo intervento su questa rubrica[xx], l’ira è definita da Orazio “una pazzia di breve durata”, da altri “una matta passione (…) un incamminamento alla pazzia”, mentre per il poeta greco Filemone “siamo tutti insensati quando montiamo in collera” [xxi]. Mi pare insomma evidente che la percezione sia in genere quella che l’ira, come altre passioni, possa sfumare insensibilmente, oltrepassato un certo (indefinito) limite, in follia, possa cioè far “perdere la testa” e questo è senz’altro interessante per la psichiatria forense in quanto l’ira, se da una parte può generare la follia, dall’altra può con frequenza generare un comportamento violento.
Se dovessimo giudicare col nostro codice penale le colpe di Orlando, insomma, potremmo assolverlo in base all’art. 88, per il quale non è imputabile chi quando commise il fatto (i fatti in questo caso!) era incapace di intendere e volere in relazione a un’infermità di mente. O condannarlo in base all’art. 90: perché emozioni e passioni non escludono né diminuiscono l’imputabilità. Probabilmente faremmo, nell’incertezza se a passione estrema o follia questo furore corrisponda, l’una e l’altra cosa insieme, ricorrendo all’art. 89 e considerando quindi il conte in una posizione epistemologicamente fragile, uomo a un tempo da punire e da custodire curandolo[xxii].
Il furioso Orlando intanto prosegue il suo insensato peregrinare seminando morte e distruzione in tutto ciò in cui s’imbatte; e incontra, appunto, Angelica con Medoro sulla spiaggia, non la riconosce né è da lei riconosciuto tanto il furore ne ha alterato i lineamenti e di nuovo, colpito dalla bellezza della donna, comunque la insegue bestialmente uccidendone la cavalla e ancora seminando morte, e poi: «Avrebbe così fatto, o poco manco / alla sua donna, se non s’ascodea; / perché non discernea il nero dal bianco, / e di giovar nocendo si credea»[xxiii]. Il suo inseguirla adesso non è più quello del cavaliere la dama; è furiosa voglia di belva, desiderio animale. Ma di ciò abbiamo già detto.
Di lì il “periglioso matto” – matto come ho detto non sappiamo, ma periglioso senza dubbio – giunge a Malaga e vorrebbe imbarcarsi a Gibilterra per l’Africa, ma viene rifiutato dalla barca, «che volentier tal merce non si carca»[xxiv], ed è costretto a passare a cavallo e poi, quando questo muore stremato, proseguire a nuoto. E sarà in Africa che, ancora avendo “di fera più che d’uom il volto”, Orlando s’imbatterà negli amici i quali, mossi a pietà per la sua condizione, si decidono a immobilizzarlo e costringerlo ad aspirare il senno che nel frattempo Astolfo, per l’intercessione di San Giovanni Evangelista, ha recuperato sulla luna, dove si conservano le cose perdute sulla terra; e quindi, in maggiore o minor misura Ariosto malignamente suggerisce, il senno di ciascuno. Il quale «era come un liquor suttile e molle / atto a esalar se non si tien ben chiuso»[xxv], cioè se non si compie quel lavoro faticoso e incessante che è necessario all’uomo per contrastare la sua spontanea tendenza a dileguarsi.
Hanno quindi inizio il blocco e la contenzione di Orlando: «Orlando che si vide fare il cerchio / menò il baston da disperato e folle; / et a Dudon che si facea coperchio / al capo de lo scudo ad entrar volle, fe’ sentir ch’era grave di soperchio / (…) Lo scudo roppe solo, e su l’elmetto / tempestò sì, che Dudon cadde in terra / (…) / Brandimarte ch’addosso se gli serra, / gli cigne i fianchi, quanto può, con ambe / le braccia, e Astolfo il piglia ne le gambe. / Scuotesi Orlando, e lungi dieci passi / da sé l’Inglese fa cader riverso / (…) / Ad Olivier che troppo inanzi fassi, / menò un pugno sì duro e sì perverso, / che lo fa cader pallido ed esangue, / e dal naso e dagli occhi uscirgli il sangue. / E se non era l’elmo più che buono / ch’avea Olivier, l’avria quel colpo ucciso»[xxvi]. Gli amici si riprendono dalle botte e tornano ad afferrare Orlando chi alla vita chi agli arti; furioso, questi li trascina con sé, come nella caccia un animale inferocito fa coi cani che l’hanno azzannato. Oliviero, riavutosi dal gran colpo, corre ancora in soccorso agli altri e riesce a far cadere il conte e iniziare a legarlo con robuste funi: «et alle gambe et alle braccia alcune / fe’ porre al conte, e a traverso il resto. / (…) Per quella via che maniscalco atterra / cavallo o bue, fu tratto Orlando in terra / Come egli è in terra, gli son tutti addosso / e gli legan più forte e piedi e mani. / Assai di qua e di là s’è Orlando scosso; / ma sono i suoi risforzi tutti vani»[xxvii].
Così atterrato e legato, gli amici ora hanno buon gioco a lavarlo e costringerlo a inalare il senno, che sono andati fin sulla luna per recuperargli, finché: «così, poi che fu Orlando d’error tratto, / restò meraviglioso e stupefatto»[xxviii]. Chiede allora di essere slegato e ancora gli amici, visto lo sguardo “sì men de l’usato bieco”, provvedono, e cominciano a consolarlo del dolore e la vergogna che gli dà la tardiva consapevolezza degli errori commessi nel tempo del furore; Aiace rinsavito si dà la morte per la vergogna di ciò che ha commesso quando superbia, invidia e ira combinandosi lo hanno ridotto alla follia. Orlando in quel momento è soccorso moralmente dagli amici, quelli che si sono volontariamente esposti alla sua dissennata violenza per aiutarlo, si sente riaccolto, perdonato da loro e riesce a superare quella che oggi definiremmo uno stato di grave depressione postpsicotica. Adesso è rinsavito e «colei che sì bella e gentile / gli parve dianzi, e ch’avea tanto amato, / non stima più se non per cosa vile»[xxix]. La dolcezza di questo suo risvegliarsi dalla furia, è molto simile a quella di quando vediamo, nella pratica clinica, i nostri pazienti uscire dalla crisi psicotica guariti e riprendere consapevolezza della realtà; è una situazione simile a quella di assistere a una nascita.
L’esaltazione fissata in Angelica è risolta con la furia a cui l’aveva portato, e il mondo ritrova per lui la proporzione antropologica, l’ampiezza che gli è propria: ritorna a essere popolato di tante donne e cose belle, e l’esistenza a presentare tante dimensioni diverse oltre l’amore: l’amicizia in primo luogo.
La furia di Orlando ha così termine. Perché questo accadesse, perché potesse assumere la “terapia”, è stato necessario passare per la contenzione. Orlando, doppiamente furioso a quel punto, si ribella a quest’atto e colpisce violentemente gli amici. Ma essi, pazientemente, sopportano bastonate e pugni – e sono pugni di Orlando! – senza farne vendetta né abbandonarlo a sé. Sono disposti a mettere a rischio la propria sicurezza e patirne in certa misura i colpi, pur di bloccarlo senza fargli male. E, mentre lui li colpisce con violenza, sono solo preoccupati d’immobilizzarlo evitando di comprimere le aree vitali del corpo, e limitando la presa al busto e agli arti come i più accreditati e attenti protocolli oggi suggeriscono. Ancora, alla sua prima richiesta di essere slegato, ne leggono l’espressione e di fronte a uno sguardo che pare meno bieco sono subito disposti a provarci, per non dispiacergli e per dargli fiducia. Non credo che fosse intenzione dell’Ariosto offrire agli operatori psichiatrici di ieri e di oggi cose su cui riflettere a proposito del più complesso e contraddittorio degli atti che possono trovarsi a dover compiere, la contenzione, ma tant’è[xxx]. Un atto che ciascuno dovrebbe sempre cercare di evitare e, se costretto, di porlo in essere così come se si stesse occupando, come i paladini di Carlo, del più caro, e in quel momento più sfortunato, degli amici. Una stretta che sia robusta il necessario, ma insieme sempre rispettosa, come se si stringesse il corpo in quel momento più delicato e più caro. Come se quel corpo bloccato, legato, fosse sempre il proprio; e allora credo che si starebbe ben attenti a limitare la necessità di quest’atto, la contenzione, davvero al minimo sia per frequenza che per durata. O farne proprio a meno, se è possibile. E con questo, vorrei terminare «col ringraziar di questo libr’antico / la cortesia, di messer Ludovico».
[i] Canto XIX, XLII ottava.
[ii] G. Carducci, Su l’Orlando furioso. Saggio, in Opere, Bologna, Zanichelli, 1905, vol. XV “Su Lodovico Ariosto e Torquato Tasso. Studi”, pp. 261-320 (p. 293).
[iii] G. Favaretto, M. Zambenetti, P. Santonastaso, Furore, melanconia, nostalgia, Archivio di Psicologia, Neurologia e Psichiatria, II serie, L, n. 4-6, 1989, pp. 434-438 (p. 435).
[iv] Canto XXIII, CXI ottava.
[v] Canto XXIII, CXII ottava.
[vi] Canto VIII, LXXX-LXXXIII ottava.
[vii] Canto XII, IV-VI e XIV-XVI ottava.
[viii] Canto XXIII, CXXVIII ottava.
[ix] Canto XXIII, CXXXIII ottava.
[x] Canto XXIV, VII ottava.
[xi] Canto XXIV, XIII ottava.
[xii] Sul tema, ricordo il contributo personale: P.F. Peloso, Amore, morte, morte dell'Io. Il mal d'amore da categoria diagnostica a esperienza psicotraumatica, in: La cura delle malattie: itinerari storici/Treating illness: historical routes (a cura di A. Guerci), Genova, Erga, 1998, pp. 297-311.
[xiii] J. Ferrand, Malinconia erotica (1610), Venezia, Marsilio, 1991.
[xiv] Canto XXIV, I ottava.
[xv] Canto XXIV, II ottava.
[xvi] P.F. Peloso, Modelli della mente e del corpo nell’opera medica di Pompeo Sacco (1634-1718), Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1996, p. 81.
[xvii] P.F. Peloso, Modelli della mente… cit., pp. 78-79.
[xviii] Non posso in proposito omettere di ricordare le situazioni vissute alle quali fa in questo periodo riferimento Gilberto Di Petta nella sua rubrica su Pol. it: Cuore di tenebra.
[xix] Canto XXIII, CXXXIV ottava.
[xx] Vizi morali, mediche passioni: la medicalizzazione della virtù e la biopolitica, intervento al convegno Vizi o virtù: attualità dei vizi capitali, tenuto al Palazzo Ducale di Genova il 18 novembre 2016, previsto per il mese di dicembre in questa rubrica.
[xxi] J.B.F. Descuret, La medicina delle passioni ovvero le passioni considerate nelle relazioni colla medicina, colle leggi e colla religione (1841), Milano, Ernesto Oliva, 1861, p. 283.
[xxii] Cfr. su POL. it: P.F. Peloso, Dostoëvskij e la psichiatria positivista del suo secolo. Le tre direzioni dello sguardo di Mitja Karamazov; nonché in questa rubrica: Tra psichiatria e giustizia: Imola1874-2016.
[xxiii] Canto XXIX, LXXIII ottava.
[xxiv] Canto XXX, XI ottava.
[xxv] Canto XXXIV, LXXXIII ottava.
[xxvi] Canto XXXIX, XLVIII-LI ottava.
[xxvii] Canto XXXIX, LIV-LV ottava.
[xxviii] Canto XXXIX, LVIII ottava.
[xxix] Canto XXXIX, LXI ottava. E’ segno dell’immaturità, mi pare, del personaggio anche al di fuori della fase della furia, il fatto che non gli sia possibile rinunciare all’amata continuando ad apprezzare ciò che gliela aveva fatta amare al punto di divenire furioso per lei; non diversamente reagirà, del resto, Rinaldo. Angelica, insomma, non può essere o amata dai cavalieri di un amore che diventa esaltazione fissata, o da essi disprezzata nel momento in cui devono rassegnarsi a non poterla avere.
[xxx] Ho esposto precedentemente queste considerazioni sulla contenzione di Orlando nel corso dell’intervento: Aspetti storici ed epistemologici della contenzione, alla giornata di studi “Le contenzioni, dalla gestione del rischio clinico alla qualità e sicurezza delle cure”, Roma, Ministero della Salute, 23-24 maggio 2013. Sul tema ricordo anche: Aa. Vv., La contenzione fisica in psichiatria (a cura di R. Catanesi, L. Ferrannini, P.F. Peloso), Milano, Giuffré, 2006. Nonché i più recenti: … e tu slegalo subito. Sulla contenzione in psichiatria di Giovanna Del Giudice e Il nodo della contenzione. Diritto, psichiatria e dignità della persona, curato dal giurista Stefano Rossi, entrambi pubblicati dall’editore AB. Alphabeta Verlag di Merano nel 2015. Ricordo ancora in questa rubrica: Pensieri, dubbi, domande sul TSO a lato di un episodio estivo. Al problema la Società Italiana di psichiatria ha dedicato due documenti di raccomandazione, il più recente nel 2014: Ulteriori raccomandazioni in tema di contenzione fisica. Contro la contenzione fisica in psichiatria è in atto inoltre una campagna del Forum per la Salute Mentale dal titolo: E tu slegalo subito.
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