Orologi rotti
“La speranza ci consente di vedere la realtà con occhi non annebbiati e non oscurati dalle esteriorità e dalle consuetudini, dalle convenzioni e dalle ripetizioni, e ci consente di aprirci al futuro, liberandoci dalla ostinata prigionia del passato e del presente.”
(Eugenio Borgna, Speranza e Disperazione)
E’ un venerdì grigio come tanti, in carcere.
Si avvicina Natale, sia gli agenti che i colleghi si sforzano di abbellire le tristi pareti con decorazioni oscillando tra il sacro e il cinico, passando da un mega presepe con tanto di cielo stellato, ad alberi di natale con sotto regali a base di psicofarmaci.
Mentre aspetto un paziente mi affaccio alla finestra, oggi è previsto nevischio, il cielo nuvoloso si confonde con i grigi cunicoli della zona dove i detenuti hanno diritto ad andare all’aria.
L’orologio in ambulatorio è rotto. L’orologio al piano idem. Anche al minorile, nella sala comune, è fermo.
Mi viene in mente una scena di qualche anno fa quando andai in una casa di riposo per una consulenza pre natalizia.
In un salotto pieno di addobbi, ci aspettava una vecchia signora con occhi grandi e tristi, guardando intensamente un orologio dorato su di una mensola polverosa, piena di agrifogli e decorazioni natalizie un po’ pacchiane.
"Quell'orologio si è fermato, dovremmo dirlo ad un'operatrice" dico al mio collega.
"È rotto, non lo aggiusteranno. Il tempo qui non interessa a nessuno."
Il ricordo di quella scena mi trasmette malessere.
A nessuno è passato per la mente di buttarlo via? Forse hanno semplicemente pensato che non dava fastidio lì, non era importante, non lo guardava nessuno.
A chi interessa lo scorrere dei minuti qui? A me, che devo andare ad una riunione tra un’ora.
Ai colleghi che hanno tante cose da fare durante la mattinata. Agli agenti che non vedono l’ora di finire il turno e andare a pranzare.
Come misurano il tempo le persone che stanno qui dentro? Come si misura il tempo in carcere? Mi sembra evidente, non con un orologio.
Quali sono gli aspetti della giornata che scandiscono il ritmo nella quotidianità di una istituzione? E fuori? Quali sono le differenze tra le prigioni che ti impongono e quelle che ti autoinfliggi?
In carcere lo scorrere del tempo non esiste, me lo dicono sempre. Esiste il prima del carcere, il giorno d’ingresso e quello di uscita, temuto e desiderato nello stesso tempo.
All’ingresso, per le persone che seguo, non si accetta la possibilità di dover sopravvivere in una condizione di astinenza, seppur coperta dai farmaci, da ristretti. Piovono richieste di domiciliari o comunità inverosimili, magari precedentemente tanto rifiutate, ma tutto pur di uscire e di non essere strappati dalle braccia della tanto amata e tanto odiata sostanza.
“Non si augura nemmeno al peggior nemico di entrare in carcere, ma a volte lo si desidera ardentemente per se stessi, per avere qualcosa che ti costringa a salvarti dal baratro in cui ti sei gettato”.
Quando si avvicina il momento dell’uscita, si inizia a temere la prigione di “fuori”.
Si fantastica che la piazza si sia fermata, che il tuo posto sotto al portico in piazza sia rimasto lo stesso, che le persone che giravano con te siano rimaste congelate (e dato il clima, non è difficile da immaginare) nello stesso istante in cui tu le hai lasciate.
Si affaccia il timore di essere destinati ad un tempo immobile, una condanna all’eterna ripetizione.
Mi viene in mente la definizione di tempo sospeso che attualmente viene citata relativamente alla pandemia.
Peccato che definendo il tempo come sospeso, bisogna presupporre che esso sia identificabile come una parentesi tra un prima e un dopo. Una sorta di stand-by, anche se forzata, di quello che è lo scorrere della tua esistenza e che, ad ogni modo, lascerà traccia in te anche nel suo “non scorrere”.
Che tipo di traccia lascia la detenzione?
Guardandola da un lato oggettivo si potrebbe quasi dire che la persona quando entra in carcere si “salva”. Inevitabilmente si rimette in sesto, prende peso, fa le cure sanitarie che deve e che ha tralasciato completamente quando era in strada, si lava, si veste, gioca a carte e beve caffè e poi, perché non dirlo, da “lucido” riesce a fare qualche ragionamento in più.
Se fosse così semplice, credo che non mi salirebbe l’angoscia ogni volta che varco il cancello di ingresso.
Di certo, non avere la paura che la persona muoia in strada, per il curante è un bel sollievo.
Ma tutelare la morte dell’anima? Quella è un’altra storia.
Ci sono persone che rifiutano le cure anche in carcere, che misusano farmaci, che si lasciano andare, non per forza facendo rumore, quanto appiattendo la loro esistenza al semplice “stare”.
Essere non visti, in un carcere, è facile. Basta non “dare fastidio”, non tagliarsi, non scioperare, adeguarsi alle regole di sezione, non quelle dettate dalla legge ma quelle dettate dagli altri detenuti.
E lo dico non per accusa nei confronti di nessuno, anche perché lavorandoci dovrei accusare per prima me stessa.
La mia è una triste constatazione del fatto che, nonostante ci si possa prefiggere l’obiettivo di trovare delle soluzioni che preservino la salute mentale nonostante il contesto, l’istituzione non perdona.
Credo che il malessere che ci pervade camminando in quei tristi e gelidi corridoi non sia da accantonare, ma da tenere vivo per portare avanti il desiderio e la speranza del cambiamento. Le persone con cui entriamo in contatto lo colgono e se su dieci visite nove ti frustreranno per le loro incessanti richieste farmacologiche trattandoti esclusivamente come il “pusher” del piano, magari uno ti parlerà di quando andava a raccogliere il corallo e del suo desiderio remoto di tornare a riabbracciare la sua famiglia.
Guardo l’orologio, o lui guarda me, con quel ticchettio immobile della lancetta che segna fissa le 11:45. Prepotentemente, mi dice che sono un’illusa. Non demordo, la speranza è una scelta, scrive Ikeda, e se non sentiamo speranza è il momento di crearla.
0 commenti